
Con la scomparsa dell'ex Ministro degli Esteri tramontò definitivamente il celebre compromesso storico, ovvero l'avvicinamento tra la DC e il Partito Comunista Italiano, di cui proprio Moro fu promotore. L'omicidio di Aldo Moro fu il punto più basso toccato dagli anni di piombo e, oggi, - a distanza di 45 anni – la ricorrenza è momento di riflessione per molti. Anche per i maturandi che, al prossimo esame di Stato, potrebbero essere chiamati a discutere un evento che segnò l'Italia contemporanea: ripercorriamo allora le tappe salienti che portarono alla morte di Aldo Moro.
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L'agguato in via Fani
Poco prima delle 09:00 del mattino del 16 marzo 1978, Moro uscì di casa e salì su una Fiat blu con due componenti della scorta. Dietro la sua auto c'era un’altra vettura, un'Alfetta bianca con a bordo gli altri uomini che facevano parte della sua protezione. L'agguato teso dalle Brigate Rosse scattò quando la macchina su cui viaggiava Moro entrò in via Fani: l'auto del presidente della DC sbatté con una Fiat 128 che gli aveva tagliato la strada. In pochi secondi il commando terrorista saltò fuori davanti al bar "Olivetti" sparando sull'auto della scorta uccidendo sul colpo gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, mentre il vicebrigadiere Francesco Zizzi perse la vita poco dopo, all'ospedale Gemelli. Nell'agguato morirono anche l'appuntato Domenico Ricci e il maresciallo Oreste Leonardi che erano nell’auto di Moro.
I 55 giorni di prigionia e la fermezza del governo
Dopo il sequestro, Aldo Moro fu portato in un appartamento in via Montalcini 8 (sempre a Roma), di proprietà della brigatista Anna Braghetti. In quei 55 giorni il politico fu sorvegliato da diversi membri delle Br, tra cui Prospero Gallinari, già ricercato e per questo latitante: fu lui il carceriere dell'Onorevole Moro. Dal 16 marzo 1978 al 9 maggio dello stesso anno, le Brigate Rosse rilasciarono nove comunicati. Il gruppo terroristico si servì di queste lettere per spiegare le motivazioni del sequestro ma anche per provare a intavolare una trattativa con lo Stato. Dal canto suo, durante i 55 giorni di prigionia, Moro scrisse 86 lettere. I destinatari erano diversi: dagli esponenti più importanti del suo partito, alla famiglia.Non mancarono, inoltre, le missive mandate ai principali quotidiani e all’allora Papa Paolo VI. Il 22 aprile, proprio il Santo Padre si rivolse con un appello pubblico col quale supplicava "in ginocchio" gli uomini delle Brigate Rosse affinché liberassero il prigioniero "senza condizioni”. Tuttavia, delle 86 lettere inviate, solo alcune giunsero a destinazione, mentre altre non furono mai recapitate. Anche attraverso queste lettere Moro cercò di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime cariche dello Stato. Il governo presieduto da Giulio Andreotti, e sostenuto dal Pci, non volle però cedere al ricatto dei terroristi, né trattare. Appurata la fermezza del governo, lo statista, in una lettera indirizzata ai leader della Dc, il suo partito, scrisse: "Il mio sangue ricadrà su di voi”
La morte di Aldo Moro
”Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato": nel nono e ultimo comunicato le Br annunciavano la fine del rapimento e l'esecuzione di Aldo Moro. L'onorevole fu ucciso con una scarica di proiettili nel petto: dopo l’omicidio, l'auto con il suo corpo fu lasciata parcheggiata in via Caetani, a Roma, simbolicamente a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI.Fu Francesco Tritto, assistente di Moro, a ricevere la telefonata dal brigatista Valerio Morucci che comunicava la scomparsa del parlamentare. Il terrorista chiese a Tritto, "adempiendo alle ultime volontà del presidente", di comunicare subito alla famiglia che "il corpo del presidente si trovava nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani”.