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Kant, Immanuel - Semplici informazioni sul pensiero filosofico scaricato 1 volte

Concetti Chiave

  • Kant was a Prussian philosopher who aimed to investigate the foundational conditions of human experience, including scientific, moral, aesthetic, political, and religious experiences.
  • The Kantian critique, known as "criticism," seeks to explore the limits of reason by examining the possibilities and boundaries of human knowledge, challenging both rationalism and empiricism.
  • Kant's work emphasizes the cooperation between reason and experience, asserting that true knowledge arises through the interaction of pure thought and sensory data.
  • His "Copernican Revolution" in philosophy posits that the subject's mental structures shape our knowledge of objects, rather than our understanding conforming to the objects themselves.
  • Kant's ethical framework is based on the categorical imperative, which commands actions according to universal laws, viewing humanity as an end in itself rather than as a means to an end.

Indice

  1. Kant
  2. Il criticismo kantiano
  3. L’illuminismo kantiano
  4. Scheda illuminismo Kant - Gli scritti precritici (1755-1770)
  5. Dissertazione del 1770
  6. Prefazione e introduzione della Critica della ragion pura
  7. Fenomeni e cose in sé
  8. L’aggettivo “trascendentale”
  9. Estetica trascendentale
  10. Analitica trascendentale
  11. Deduzione trascendentale
  12. Confutazione dell’idealismo
  13. Analitica trascendentale: fenomeno e noumeno
  14. Dialettica trascendentale
  15. Critica kantiana alla psicologia razionale
  16. Critica kantiana alla teologia razionale
  17. La critica kantiana della prova ontologica
  18. La critica kantiana della prova cosmologica
  19. La critica kantiana alla prova fisico-teologica o argomento del disegno
  20. La critica della ragion pratica (1788)
  21. Le tre formulazioni dell’imperativo categorico
  22. I postulati della ragion pratica
  23. Le prime due “critiche”: un bilancio
  24. Critica del Giudizio (1790)
  25. Critica del Giudizio: giudizio estetico e teleologico
  26. Giudizio estetico (o di gusto)
  27. Bello e sublime
  28. Giudizio teleologico
  29. Kant: filosofia della religione
  30. Dottrina del male radicale dell’uomo
  31. Contrasto tra chiesa invisibile e visibile
  32. Kant: diritto e politica
  33. Kant contro la Rivoluzione francese
  34. Kant e Federico II
  35. Contro anarchismo e positivismo giuridico
  36. Filosofia della storia: l’insocievole socievolezza dell’uomo

Kant

Kant è nato a Königsberg, oggi Kaliningrad, enclave della Russia quindi è territorio Russo compreso tra Lituania e Polonia. All’epoca di Kant questa era la Prussia orientale. Kant era il quarto di otto fratelli e suo padre era un umile artigiano, un sellaio, sua madre una donna di profonda fede che aveva aderito al “pietismo” cioè a una corrente mistica del luteranesimo. Kant frequenta la scuola superiore in un famoso istituto di Königsberg, il Collegium Fridericianum, un’istituzione fondata da Federico II il Grande. Poi frequenta l’università di Königsberg dove predilige soprattutto gli studi di fisica. Uno dei suoi maestri era un profondo conoscitore dell’opera di Newton, che fece conoscere a Kant. Dopo essersi laureato, fa il precettore (cioè l’insegnante privato) presso alcune famiglie nobili della zona e poi entra all’università come libero docente (cioè come docente non regolare). Infatti non era stipendiato dall’università come libero docente. Teneva semplicemente delle lezioni private che l’università gli consentiva di sostenere all’interno delle sue aule. Erano gli studenti stessi che a fine lezione pagavano Kant. Faceva lezione su qualsiasi argomento, addirittura sulla scienza delle fortificazioni, a cui partecipavano anche degli ufficiali. Per cui non insegnava solo matematica, filosofia, geografia, ma anche materie tecniche e specifiche dell’arte militare. Diventa nel 1770 professore ordinario di logica e metafisica all’università di Königsberg, incarico che terrà fino al pensionamento.

Kant era famoso per la sua ossessione per la routine quotidiana, tutti i giorni faceva esattamente le stesse cose.
Kant si alzava alle 05:00 del mattino, faceva colazione con del tè, fumava la pipa e meditava, dalle 06:00 alle 07:00 scriveva, dalle 07:00 alle 11:00 teneva le sue lezioni all’università. Poi andava a casa e dalle 11:00 alle 15:00 pranzava, erano pranzi lunghi sempre in compagnia di altre persone (colleghi, studenti) e dedicati alla conversazione. Era il suo servitore che tirava le tende alle 05:00 del mattino (e che aveva l’ordine di tirarlo di forza giù dal letto quando egli non voleva alzarsi) e che durante i pranzi serviva lui e i suoi ospiti. Si chiamava Lampe ed era un ex ufficiale.
Sono 9 i commensali. Perché Kant seguiva questa regola: i commensali non devono essere inferiori a 3 (numero delle Grazie) e superiori a 9 (il numero delle Muse), altrimenti a tavola non si sta bene. Solo così ci può essere una conversazione ricca e fluente. Dalle 15:00 alle 16:00 Kant faceva la sua solita passeggiata. Egli era talmente preciso che pare che gli abitanti di Königsberg regolassero gli orologi quando lo vedevano passare sotto le loro finestre.
Aveva pochi amici, tra cui un commerciante scozzese, Joseph Green, con cui si recava a fare visita ad altri conoscenti e amici. Dalle 16:00 alle 19:00 faceva visita ai suoi conoscenti, poi rientrava, faceva una cena molto parca, leggeva, sistemava le lezioni e alle 22:00 si coricava. Alle 05:00 di nuovo si alzava.
Questo tutti i giorni della sua vita. Non si sposò mai, non ebbe figli, era una persona totalmente dedita allo studio, alla scrittura, alla ricerca e all’insegnamento. La giornata non era così scandita alla perfezione perché fosse mentalmente disturbato, ma perché voleva concentrare tutte le sue energie nello studio. Solo in un’occasione rinunciò alla sua passeggiata post pranzo: quando ricevette una copia dell’Emilio di Rousseau. Kant ammirava Rousseau.
Targa che si trova in uno dei lati del castello di Königsberg con su scritta una citazione presa dalla Critica della ragion pratica, il secondo dei suoi capolavori: “Due cose suscitano ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente e tutte le volte la nostra riflessione si occupa di essa: il cielo stellato sopra di me e la legge morale che è in me.” Il cielo stellato sopra di me è il mondo della natura fisica delle cui leggi ci si deve occupare, la legge morale che è dentro di me è la natura interna alla quale noi dobbiamo assoluta obbedienza. Alle leggi che governano la natura fisica Kant dedica la Critica della ragion pura (scritto più importante), alla legge morale che è dentro ciascun uomo dedica la Critica della ragion pratica.
Herbert dice che Kant fino alla fine dei suoi giorni conservò quella lucidità e brillantezza dell’età giovanile, non è così purtroppo. Kant si ammalò negli ultimi anni di Alzheimer quindi le sue facoltà cognitive ebbero un decadimento progressivo e inarrestabile. Una vera tragedia per un uomo così brillante, un vero genio. Gli ultimi anni furono anni terribili per Kant perché non ricordava più nulla. Non riuscì a portare a termine le sue ultime opere perché non riusciva più a collegare tra loro i concetti che aveva in testa. Lui se ne era reso conto perché l’ultima sua lezione si concluse in questo modo: lui si rivolse agli studenti, li ringraziò e annunciò che quella sarebbe stata la sua ultima lezione in quanto stava diventando un bambino. Si era reso conto che la sua mente non funzionava più.

Il criticismo kantiano

È una filosofia critica quella di Kant ed è nota come criticismo. Criticismo che deriva da critica, dal verbo greco krinein = giudicare(non negativamente), esaminare, valutare, ricercare. Infatti lo scopo della filosofia di Kant è indagare, esaminare le condizioni di possibilità delle varie forme dell’esperienza umana (quella scientifica, quella morale, quella estetica, quella politica, quella religiosa).
Quali sono le condizioni che rendono possibile la conoscenza scientifica?
Quali sono le condizioni che rendono possibile l’esperienza e l’agire morale?
Quali sono le condizioni che rendono possibile l’esperienza religiosa?
Il criticismo di Kant cerca di rispondere a queste domande.
Quali sono le condizioni di possibilità della conoscenza scientifica? Che cosa rende possibile la conoscenza scientifica? A questa domanda Kant cercherà di rispondere con la Critica della ragion pura.
Come conosciamo il mondo della natura? Quali sono i principi che ci permettono di conoscere il mondo fisico? Che cosa devo fare per agire moralmente? Quali sono le condizioni di possibilità dell’agire morale? A questa domanda cercherà di rispondere con la Critica della ragion pratica che è dedicata alla legge morale che è in noi.
Che cosa mi è lecito sperare? Questa è una domanda sia di carattere etico che di carattere religioso. Possiamo sperare nell’esistenza di un Dio che ci ricompenserà se abbiamo fatto il nostro dovere nella vita e che ci punirà al contrario? Possiamo sperare nell’esistenza di un Dio buono e giusto? Per Kant morale e religione sono strettamente associati.
La filosofia di Kant è di eccezionale importanza perché sintetizza il miglior pensiero razionalista e il miglior pensiero empirista. Si situa tra razionalismo ed empirismo la filosofia di Kant. I razionalisti affermano che la conoscenza poggia fondamentalmente sulla ragione, sul pensiero puro. Gli empiristi sostengono che la conoscenza si fonda essenzialmente sull’esperienza, sui dati dei sensi. Kant non è d’accordo con nessuna di queste due posizioni perché per lui l’autentica conoscenza può scaturire solo dalla cooperazione tra ragione e esperienza, tra pensiero puro e dati dei sensi. Dice proprio questo Kant nella Critica della ragion pura: i concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. I concetti senza intuizioni sono vuoti cioè: il pensiero senza i dati dei sensi non ha alcun oggetto da pensare. I contenuti della conoscenza provengono dai sensi. D’altra parte le intuizioni senza concetti sono cieche cioè: i dati dei sensi se non sono organizzati e strutturati dal pensiero, cioè dai concetti, non producono alcuna conoscenza. Non sono neppure visibili i dati dei sensi, non sono neppure riconoscibili se non ci sono dei concetti che li ordinano. Ad esempio se io dico “questo è un tavolo” io posso fare quest’affermazione perché ci sono i miei sensi che mi trasmettono qualcosa che è fuori di me: un determinato oggetto fisico che io però identifico attraverso l’applicazione di un concetto a questo oggetto. L’oggetto mi è dato dai sensi, io lo identifico come un tavolo perchè posseggo il concetto di tavolo che unito all’oggetto che i miei sensi mi trasmettono, mi permette di formulare una forma di conoscenza sia pure molto elementare.
Kant rifiuta sia il razionalismo che l’empirismo.
Il razionalismo, aggiunge Kant, sfocia inevitabilmente nel dogmatismo (=tenta l'esplorazione razionale di sfere conoscitive inaccessibili alla ragione stessa).
Tutti i grandi filosofi razionalisti hanno fatto affermazioni che andavano oltre le possibilità conoscitive umane. I dogmatici sono coloro che non si interrogano a sufficienza sull’effettiva portata delle nostre conoscenze. Prima di fare affermazioni circa gli oggetti della nostra conoscenza, noi dobbiamo sottoporre a esame la conoscenza stessa per indagarne i limiti. Ora i razionalisti questo non l’hanno mai fatto, secondo Kant. Autori come Cartesio, Leibniz e Spinoza si sono fidati eccessivamente del pensiero puro ma in questo modo hanno formulato delle affermazioni sulla realtà che erano illegittime. La loro filosofia cioè non si basava su un accurato esame critico dei poteri conoscitivi umani. Ecco i dogmatici commettono questo errore. E secondo Kant questo è l’errore proprio del razionalismo che pretende ad esempio, di conoscere l’essenza delle cose, ma come vedremo più avanti, secondo Kant, la conoscenza umana è limitata, non può spingersi così oltre, non può andare oltre i limiti dell’esperienza. Ciò che sta al di là dell’esperienza le è precluso, invece i razionalisti facevano affermazioni di carattere metafisico. Leibniz parlava delle monadi, ma nessuno le ha mai viste ovviamente, non sono qualcosa di cui si fa esperienza le monadi. La sostanza spinoziana è qualcosa di cui si fa esperienza? Ovviamente no. Cartesio pretendeva di aver dimostrato l’esistenza di Dio, secondo Kant non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio. Ma non è possibile nemmeno dimostrarne la NON esistenza.

L’empirismo invece, scivola fatalmente verso posizioni scettiche, come dimostra la filosofia di Hume. Hume è un empirista che porta alle estreme conseguenze i presupposti dell’empirismo, arrivando a negare l’esistenza delle stesse leggi naturali. Non solo la possibilità umana di conoscere l’essenza delle cose, Hume arriva addirittura a negare che esistano leggi naturali che la scienza può conoscere. L’empirismo male inteso porta inevitabilmente allo scetticismo, cioè a una sfiducia generalizzata sui poteri conoscitivi umani. Secondo i razionalisti l’uomo può conoscere tutto. Secondo gli empiristi alla Hume noi non possiamo in realtà conoscere con sicurezza nulla. Kant non ci sta, non è d’accordo con queste soluzioni estreme, lui ammira troppo la fisica newtoniana per affermare che essa poggia su fondamenta malcerte e malferme. Infatti possiamo dire che la Critica della ragion pura, ha tra i suoi obiettivi principali quello di presentare una fondazione filosofica rigorosa degli straordinari successi della fisica matematica del suo tempo.

L’illuminismo kantiano

Kant è stato sicuramente il frutto più maturo dell’illuminismo europeo. Però il suo illuminismo è diverso da quello dei francesi per esempio, perché si spinge oltre esso. Illuministi francesi come Voltaire avevano portato l’intero mondo umano di fronte al tribunale della ragione perché fosse giudicato ed esaminato. Che cosa fa invece Kant? Va oltre, perché porta davanti al tribunale della ragione, la ragione stessa.
Dunque gli illuministi francesi avevano portato davanti al tribunale della ragione l’intero mondo umano per criticarlo anche aspramente, ad esempio per criticare gli errori della storia (l’oscurantismo medievale, i pregiudizi, le superstizioni, il dispotismo politico). Però non erano arrivati al punto di portare davanti al tribunale della ragione, la ragione stessa. Ed è ciò che fa Kant, che vuole stabilire quali sono i limiti della ragione, la portata della ragione, che cosa noi possiamo conoscere con la ragione e cosa invece non possiamo assolutamente conoscere.

Scheda illuminismo Kant - Gli scritti precritici (1755-1770)

Primo di questi scritti precritici, un trattato di cosmologia, Storia naturale universale e teoria del cielo. In questo scritto Kant formula una teoria cosmologica che sarà poi conosciuta come teoria di Kant Laplace. Secondo Kant l’universo si sarebbe formato a partire da una nube gassosa originaria da cui sarebbero scaturiti dei sistemi solari per effetto di leggi puramente meccaniche. Qui Kant si rivela un discepolo di Newton proprio perché spiega l'origine dell’universo in base a leggi meccaniche. Infatti un insegnante di Kant era ammiratore di Newton e ciò lo trasmise anche ai suoi allievi. Kant è inizialmente molto vicino al razionalismo di Leibniz che nelle università tedesche era stato introdotto da Christian Voltz, un filosofo contemporaneo del giovane Kant che aveva contribuito appunto a far conoscere il pensiero di Leibniz all’interno delle università tedesche. Il giovane Kant quindi inizialmente è profondamente influenzato dal pensiero di Leibniz attraverso la mediazione di Voltz. Però notiamo come negli scritti precritici, Kant inizi a distaccarsi dal razionalismo di Leibniz e Voltz . Questo distacco è già evidente in uno scritto precritico di logica che Kant dedica alla logica sillogistica di Aristotele ma ciò che conta qui è la presa di posizione di Kant nei confronti del razionalismo di Leibniz: la logica ci aiuta ad analizzare e a rendere più vigorose conoscenze già in nostro possesso, ma non può procurarcene di nuove, questo il pensiero puro non lo può fare: i principi logico-razionali non bastano a garantire la conoscenza della realtà, ci permettono di analizzare conoscenze che già possediamo, è l’esperienza che ci procura nuove conoscenze, non il pensiero. L’anno dopo, nel 1763, Kant scrive un testo che si allontana dal razionalismo leibniziano perché qui troviamo una critica dell’argomento ontologico che anche Leibniz aveva fatto proprio, così come l’aveva fatto proprio Cartesio o Spinoza, tutti e tre esponenti del razionalismo filosofico. Questo scritto s’intitola Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, questo unico argomento possibile per dimostrare dell’esistenza di Dio non è per Kant l’argomento ontologico, ma quello cosmologico, quello cioè che parte dalla constatazione della contingenza di tutto ciò che esiste in natura. Tutto ciò che esiste in natura è contingente, cioè non necessario, non ha in sé la propria ragion d'essere, perciò deve essere stato prodotto da qualcos’altro, ma anche in questo caso non possiamo procedere a ritroso all’infinito per cui bisogna giungere per forza ad ammettere l’esistenza di una causa prima che è necessaria e non contingente, cioè che è causa di sè stessa. Questa causa prima è Dio. Invece noi non possiamo dimostrare l’esistenza di Dio analizzandone la semplice definizione come fa l’argomento ontologico. L’argomento ontologico infatti parte dalla definizione di Dio, si limita ad analizzarla e ricava l’esistenza di Dio dall’analisi di tale definizione. E’ proprio ciò che aveva fatto Cartesio: Dio è un essere perfetto, ma un essere perfetto non può mancare della propria esistenza, altrimenti non sarebbe perfetto perché mancherebbe di qualcosa. Quindi Dio esiste. La critica che Kant rivolge a tale argomento e che riproporrà anche nella Critica della ragion pura è proprio questo: l’esistenza non è qualcosa che possiamo ricavare dall’analisi di una definizione, l’esistenza non è una proprietà che sta sullo stesso piano delle altre proprietà di Dio come l’infinità, la misericordia, la benevolenza, l’onnipotenza, perché l’esistenza non è una qualità, non è una proprietà, ma è la realtà effettiva di qualcosa che noi non troviamo dentro una definizione. E’ solo l’esperienza che ci dice se qualcosa esiste o no, ma noi di Dio non possiamo fare alcuna esperienza, quindi non possiamo stabilirne l’esistenza. Ritroveremo l’argomento ontologico anche nell’ultima sezione della Critica della ragion pura e lo ritroveremo esattamente così come Kant l’ha formulato: l’esistenza non è un predicato, non è una qualità, non è una proprietà di qualcosa, ma è la sua realtà effettiva e un’analisi concettuale non ci permette di stabilire l’esistenza di chicchessia.

Il Kant precritico è poi un avversario della metafisica, cioè di quella presunta conoscenza che pretende di parlare dell’essenza profonda della realtà andando al di là dei limiti dell’esperienza, di ciò che cade sotto i nostri sensi.
Un altro degli scritti precritici s’intitola I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica. Kant qui se la prende con un mistico, un veggente, Emmanuel Swedenborg, uno svedese che pretendeva di parlare con le anime dei defunti e di conoscere quello che attendeva l’anima dopo la morte. Kant si fa beffe di queste dichiarazioni e della metafisica, che anch’essa non è altro che un sogno ad occhi aperti esattamente come sono sogni a occhi aperti le visioni di Swedenborg. La metafisica insomma costruisce mondi immaginari senza offrire ragioni solide per le proprie affermazioni e lo stesso fa Swedenborg. Dobbiamo credergli, così come dobbiamo credere alle azioni dei metafisici, poiché esse non poggiano su principi razionali. In questi scritti è presente l’influenza degli empiristi inglesi e anche di un autore come Rousseau, che Kant stimava moltissimo. Kant dirà che Hume lo ha svegliato dal suo sonno dogmatico, cioè Hume ha contribuito a fargli aprire gli occhi su certe scienze che in realtà non sono tali, come appunto la metafisica. Hume infatti è un filosofo scettico. Lo scetticismo di Hume riguarda tanto la metafisica quanto la scienza. Kant è d’accordo con Hume per quanto riguarda il suo scetticismo metafisico, non per ciò che riguarda il suo scetticismo scientifico. Ciò perché per Kant le conoscenze scientifiche sono fondate, universalmente valide, mentre le presunte conoscenze della metafisica no. Quindi la critica scettica di Hume ha sì svegliato Kant dal suo sonno dogmatico ma non ha incrinato la convinzione kantiana circa l’effettiva validità della scienza soprattutto della fisica matematica di Newton. Rousseau invece viene definito da Kant “il Newton della morale” : come Newton ha scoperto le leggi fondamentali che governano la natura fisica, così Rousseau ha scoperto le leggi fondamentali del mondo storico e del mondo umano. Hume, Rousseau e infine i moralisti inglesi. Essi fondano la morale sul cosiddetto senso comune che non è qualcosa di razionale, ma è un sentimento di benevolenza che l’uomo prova verso i suoi simili, quella che Hume chiamava “simpatia”. Però ben presto Kant si distaccherà da questa interpretazione in chiave sentimentale della morale, per Kant la morale ha un fondamento razionale, non sentimentale, però in questi scritti è presente l’influenza dell’empirismo inglese, dei moralisti inglesi, dei filosofi del senso comune.

Dissertazione del 1770

Ultimo degli scritti precritici kantiani. E’ una dissertazione, cioè una lezione universitaria che Kant tenne in qualità di neo incaricato dell’insegnamento di logica e metafisica all’università di Konigsberg. Kant diventava un professore ordinario nel 1770, la sua prima lezione, quella inaugurale, divenne un trattato dal titolo Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile. Qui troviamo alcune tesi che saranno presenti nel periodo critico. Kant fa una distinzione tra due tipi di conoscenza entrambe legittime: la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettuale. L’oggetto della conoscenza sensibile è il cosiddetto fenomeno, ossia le cose quali ci appaiono. L’oggetto della conoscenza intellettuale è il noumeno cioè la cosa com’è in sé stessa, indipendentemente da come appare ai nostri sensi. Quindi già capiamo che la conoscenza intellettuale è più profonda di quella sensibile, perché ci fa conoscere la realtà così come essa è davvero, non come ci appare e come ci sembra attraverso la mediazione dei nostri sensi. Kant successivamente però abbandonerà questa posizione. Per quanto riguarda la conoscenza sensibile, Kant distingue al suo interno un elemento materiale e un elemento formale. L’elemento materiale o la materia della conoscenza sensibile sono i dati dei sensi, le impressioni sensibili (tattili,gustative,uditive,visive..), qualcosa di caotico che deve essere strutturato e ordinato tramite la forma della conoscenza sensibile che consiste in determinati principi universali. Principi universali che dunque hanno il compito di dare una struttura e un ordine alla molteplicità disorganizzata delle nostre impressioni. E tra le forme della nostra conoscenza sensibile troviamo lo spazio e il tempo. Kant sostiene che lo spazio e il tempo non posseggono una realtà oggettiva, come invece aveva sostenuto Newton, non sono qualcosa di oggettivo secondo Kant lo spazio e il tempo, sono invece qualcosa di soggettivo, sono modi attraverso i quali il soggetto in generale (la mente umana) ordina i dati dei sensi. Sono forme soggettive a priori dell’intuizione, cioè modi attraverso cui il soggetto prima di ogni esperienza, determina e struttura tutti i dati dei sensi che possono colpirlo. Siamo già all’interno del Kant critico, cioè del Kant della Critica della ragion pura.

Prefazione e introduzione della Critica della ragion pura

Nella Prefazione e nell’Introduzione vengono presentati numerosi concetti che Kant riesporrà nelle sezioni successive dell’opera. Kant si pone varie domande all'inizio dell’opera, per esempio: Com’è possibile la matematica pura? Cosa fonda la legittimità delle conoscenze matematiche? Com’è possibile la fisica pura, cioè la conoscenza della struttura essenziale del mondo fisico, dell’universo, il cielo stellato sopra di me? Com’è possibile la metafisica come disposizione naturale, cioè come atteggiamento naturale dell’uomo che vuole conoscere ciò che sta oltre i limiti dell’esperienza? Com’è possibile la metafisica come scienza? (spoiler: non è possibile quest’ultima).
La Critica della ragion pura è in sostanza il tentativo di mettere in luce le condizioni che rendono possibile la conoscenza umana, soprattutto quella matematica e quella del mondo fisico. Kant (lo vedremo più avanti) dirà che la matematica e la fisica sono indubbiamente scienze, la metafisica invece è una pseudoscienza. Ogni conoscenza si esprime attraverso i giudizi, cioè affermazioni sulla realtà, per esempio “Le balene sono mammiferi” è un giudizio che esprime una conoscenza. In ogni giudizio, un predicato, cioè una proprietà, è attribuito a un soggetto, nel caso dell’esempio il predicato “mammiferi” è attribuito al soggetto “le balene”. Poi Kant continua dicendo che esistono tre tipi di giudizi:
giudizi analitici a priori -> es. “tutti i corpi sono estesi” o “ una rosa rossa è rossa”. Sono analitici questi giudizi perché il predicato è già contenuto nel soggetto, per cui noi dobbiamo semplicemente analizzare il soggetto per ricavarne il predicato. Non dobbiamo riferirci all'esperienza per collegare il predicato al soggetto, il predicato è già implicito nel soggetto. Infatti noi non possiamo pensare a un corpo senza pensarlo esteso, così come il predicato “rossa” è già interno al soggetto “rosa rossa”. Quindi i giudizi di questo tipo sono analitici a priori. A priori nel senso che non è richiesta l’esperienza per collegare il predicato al soggetto, basta l’analisi di quest'ultimo. Giudizi di questo tipo sono universali e necessari. Universali perché sono sempre veri, necessari perché la loro negazione porta a una contraddizione. Se io affermassi “I corpi non sono estesi” formulerei una contraddizione logica, così come se dicessi “Una rosa rossa non è rossa”. Tuttavia giudizi di questo tipo non apportano alcun arricchimento alle mie conoscenze, non ci dicono niente di nuovo, non ci dicono niente che già noi non sappiamo, sono dice Kant infecondi, non apportano in noi alcuna nuova conoscenza. Secondo i razionalisti come Leibniz la maggior parte delle conoscenze umane sono costituite da giudizi analitici a priori come questi, quindi giudizi universalmente validi, sicuramente veri, ma tutto sommato banali, che non ci dicono nulla di importante, nulla che già non sappiamo;
giudizi sintetici a posteriori -> secondo gli empiristi come Locke e Hume, la conoscenza è costituita fondamentalmente da giudizi di questo tipo. Ad es. “tutti i corpi sono pesanti” o “tutti i corvi sono neri”. Nei giudizi sintetici a posteriori il predicato viene unito al soggetto grazie all'esperienza. Solo attraverso l’esperienza noi possiamo operare questa sintesi tra soggetto e predicato. E’ solo attraverso l’esperienza cioè che noi possiamo renderci conto del fatto che i corpi sono pesanti e che i corvi sono neri. Qui il predicato non è già contenuto all’interno del soggetto, deve essergli riferito attraverso l’esperienza. Giudizi di questo tipo, nota Kant, aumentano le nostre conoscenze, sono cioè fecondi però non posseggono alcuna universalità e necessità, non sono sempre validi, come già aveva notato Hume, perché la natura può sempre comportarsi diversamente da come si è comportata fino qui. Non c’è nessuna necessità in questi giudizi perché la negazione è sempre possibile e d’altra parte, i corpi laddove non c’è atmosfera, non sono pesanti. Ed è anche vero che da qualche parte sono stati scoperti dei corvi che non sono neri.
Quindi l’autentica conoscenza non può riporre né sui giudizi analitici a priori (verità logiche e banali), né sui giudizi sintetici a posteriori. I veri giudizi conoscitivi saranno, dice Kant, giudizi sintetici a priori.
giudizi sintetici a priori -> tutti i giudizi della matematica, tutte le verità matematiche sono costituite da giudizi sintetici a priori. Ad es. “7+5=12” o “la linea retta è la più breve tra due punti”, ma sono giudizi sintetici a priori anche conoscenze molto generali intorno al mondo fisico, alla natura. La matematica pura è possibile perché esistono giudizi sintetici a priori come “7+5=12” e “la linea retta è la più breve tra due punti”, l’uno attinente all’aritmetica, l’altro alla geometria. Sono giudizi sintetici a priori anche verità fondamentali e generalissime intorno alla natura, intorno al mondo fisico, come es. “tutto ciò che accade ha una causa” oppure “tutti i fenomeni avvengono nel tempo”. Tutte le leggi intorno alla natura sono basate su giudizi sintetici a priori come questo.

I giudizi sintetici a priori sono unici giudizi autenticamente conoscitivi per Kant perché non hanno i difetti degli altri due. Essi sono i giudizi della matematica e della fisica pura. Grazie a questi giudizi Kant può rispondere alle sue domande “Com’è possibile la matematica e la fisica pura?”. Esse sono possibili perché questi giudizi esistono. I giudizi sintetici a priori non si identificano con le leggi della scienza, ma tutte le leggi della scienza li presuppongono. Ad es. “Il calore dilata i metalli”, questa è una legge scientifica, alla sua base c’è quel giudizio sintetico a priori il quale afferma che tutto ciò che accade ha una causa, in natura nulla avviene per caso, tutto è determinato da cause antecedenti. La dilatazione dei metalli, ha quale sua causa il calore. Quindi possiamo dire che le leggi scientifiche sono costituite da giudizi sintetici a priori che stanno alla loro base e da particolari esperienze. Nel caso dell’esempio citato, l’esperienza è quella del calore e quella dei metalli. Poi ci sono giudizi che afferiscono invece all’ambito della metafisica e che possiamo esemplificare in questo modo: “l’anima è immortale” o “la realtà è nella sua essenza materiale”. Questi sono giudizi metafisici. Ebbene Kant, come vedremo più avanti, dice che i giudizi della metafisica non sono giudizi sintetici a priori, ne hanno l’apparenza ma non sono giudizi conoscitivi. Quindi come risponde Kant alla domanda “Com’è possibile la metafisica come scienza?” Risponde negativamente: la metafisica non è una scienza ma è un bisogno insopprimibile dell’animo umano, una disposizione naturale. “Com’è possibile la metafisica come disposizione naturale?” E’ possibile perché noi non ci accontentiamo delle conoscenze particolari che possiamo raggiungere, ma aspiriamo a conoscenze assolute, che si riferiscono a un ambito che non è quello dell’esperienza. Ma nel momento in cui noi usciamo da tale ambito, non possiamo più dire di disporre di conoscenze certe. La metafisica cioè è quella presunta scienza che ha l’ambizione di spingersi al di là dei confini dell’esperienza per fare delle affermazioni sull’essenza della realtà. Ma andare oltre i confini dell’esperienza significa formulare affermazioni che non sono affatto scientifiche.

Dunque per Kant la metafisica non è una scienza ma è un atteggiamento e una disposizione naturale dell’uomo il quale non si accontenta di conoscenze parziali quali sono quelle che ricadono all’interno dell’ambito dell’esperienza. Tutto ciò che sta oltre l’esperienza non è oggetto di scienza, è qualcosa che noi possiamo pensare ma non conoscere. Noi non possiamo conoscere l’essenza della realtà. Possiamo avanzare delle ipotesi su che cosa essa sia, come per esempio possiamo avanzare l’ipotesi che l’essenza della realtà sia spirituale o materiale, ma questa non è un’affermazione scientifica, perché la scienza è ristretta all’ambito di ciò che è sperimentale e ristretta all’interno dei confini dell’esperienza possibile e noi non possiamo fare alcuna esperienza dell’essenza della realtà. Possiamo fare esperienza di fenomeni particolari sui quali è possibile formulare una legge scientifica come quella appena citata. Appunto questa legge fa riferimento all’esperienza, fa riferimento ai corpi e al fatto che essi possono essere dilatati dal calore. Non sto facendo una affermazione sull’essenza della realtà bensì sto dicendo come la realtà si presenta a chi ne fa esperienza. I giudizi sintetici a priori sono universali e necessari, sono sempre veri e la loro negazione è impossibile, però diversamente dagli analitici a priori, ci fanno conoscere qualcosa, ci dicono qualcosa sulla realtà, sulla struttura fondamentale della realtà, che non è la stessa cosa dell’essenza della realtà. Perché i giudizi sintetici a priori ci dicono come si presenta in generale ogni possibile esperienza che possiamo fare. Ma da dove traggono la loro universalità e necessità?
Importante: la traggono dal soggetto stesso o più esattamente dalla facoltà conoscitiva umana. Ciò significa che tutti gli uomini posseggono dei principi a priori, cioè non ricavati dall’esperienza, e quindi innati, grazie ai quali ordinano e strutturano i dati dei sensi. Dunque tutti noi esseri umani disponiamo di principi o di strutture mentali a priori grazie ai quali strutturiamo tutti i dati dei sensi, tutto ciò che colpisce i nostri sensi. Perciò tutto ciò che colpisce i nostri sensi deve necessariamente sottostare a tali principi e avrà quindi determinate caratteristiche, quelle conferite dai principi stessi. Per fare un esempio è come se noi indossassimo fin dalla nostra nascita degli occhiali che hanno delle lenti azzurre: vedremmo tutto ciò che ci sta di fronte azzurro. Noi siamo perciò in grado di fare delle affermazioni generali sulla realtà perché disponiamo di forme o strutture mentali sin dalla nascita, attraverso cui conosciamo la realtà che ci circonda. Ecco perché i giudizi sintetici a priori sono qualcosa di universale e necessario, cioè di sempre valido: perché derivano da questi principi in base ai quali noi conosciamo tutto ciò che cade sotto i nostri sensi. Questi principi sono le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto, le due principali facoltà conoscitive umane. Le forme a priori della sensibilità sono le intuizioni pure di spazio e tempo. Quindi lo spazio e il tempo non sono qualcosa che esiste indipendentemente dal soggetto, ma sono dei modi attraverso cui il soggetto dà ordine alle sue esperienze, cosa che Kant aveva già detto nella Dissertazione del 1770: spazio e tempo non posseggono una realtà oggettiva, bensì soggettiva. Sono dei principi attraverso cui noi ordiniamo le nostre sensazioni, impressioni sensibili, tutto ciò che ci colpisce. Ma oltre alle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo), esistono anche le forme a priori dell’intelletto, l’altra grande facoltà conoscitiva umana. E le forme a priori dell’intelletto Kant le chiama “categorie” o “concetti puri”. Poniamo l’attenzione sull’aggettivo puro che Kant usa spesso: spazio e tempo sono delle intuizioni pure perché noi non le ricaviamo dall’esperienza, ma ne disponiamo da sempre, sono forme che noi imponiamo all’esperienza, grazie alle quali noi ordiniamo l’esperienza e lo stesso dicasi per i concetti puri o categorie: sono concetti generalissimi attraverso i quali noi strutturiamo ulteriormente tutto ciò che cade sotto i nostri sensi. Kant dice: “Noi tanto conosciamo a priori delle cose, quanto noi stessi poniamo in esse”, cioè prima di fare una determinata esperienza io so già quali caratteri universali avrà tale esperienza, posso già dire che sarà un’esperienza spazio-temporale perché tutto ciò di cui io posso fare esperienza è necessariamente collocato in uno spazio e in un tempo ben precisi. Perché sono io a imporre tale struttura alla mia esperienza. E’ la cosiddetta rivoluzione copernicana di Kant: Copernico al centro dell’universo conosciuto aveva posto il Sole laddove vi era la Terra, al centro del fenomeno conoscitivo Kant pone il soggetto laddove vi era l’oggetto. E’ una rivoluzione filosofica. Non è la conoscenza a regolarsi sugli oggetti, sono gli oggetti che devono regolarsi sulla nostra conoscenza o più esattamente sulle forme a priori attraverso cui noi conosciamo gli oggetti. La conoscenza consiste in una strutturazione da parte del soggetto di un materiale che solo dopo essere stato ordinato e strutturato dal soggetto diventa effettivamente conoscibile.

Fenomeni e cose in sé

I fenomeni sono le cose quali ci appaiono attraverso le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell’intelletto (categorie o concetti puri) e queste cose noi le possiamo conoscere.
Le cose in sé sono le cose quali sono in sé stesse, indipendentemente da come appaiono a noi e queste cose noi non possiamo conoscerle perché tutto ciò che noi conosciamo lo conosciamo attraverso il filtro dello spazio, del tempo e delle categorie (ovvero attraverso le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto).
Quindi Kant nel momento stesso in cui ci dice che cosa possiamo conoscere, ci dice anche che cosa non possiamo conoscere. Una volta che sono stati fissati i limiti della conoscenza, noi comprendiamo in cosa consiste la validità della nostra conoscenza e quindi anche che cosa non possiamo assolutamente conoscere.

L’aggettivo “trascendentale”

E’ un aggettivo che si riferisce a una particolare forma di conoscenza che si occupa NON degli oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori. Quindi la conoscenza trascendentale è quella conoscenza che si rivolge alle forme a priori della nostra conoscenza, non agli oggetti che conosciamo, ma ai modi attraverso cui li conosciamo.

Estetica trascendentale

Studia le forme a priori della sensibilità, cioè lo spazio e il tempo, sulle quali si fonda la matematica. La sensibilità è la facoltà con cui noi siamo colpiti dagli oggetti, è quella facoltà che ci permette di conoscere intuitivamente gli oggetti attraverso i sensi. E’ la componente passiva della conoscenza, la sensibilità. Però i dati dei sensi sono strutturati dalle intuizioni pure che sono lo spazio e il tempo, quindi non c’è una totale passività. Noi infatti disponiamo di forme a priori come la sensibilità che non riceviamo, ma che siamo noi a imporre ai dati dei sensi.
Estetica dal greco aisthesis=sensazione,percezione. La conoscenza sensibile presenta due aspetti: uno materiale e uno formale. La materia è data dai dati dei sensi, dalle impressioni sensibili, di per sé disorganizzate e caotiche, la forma è costituita dai principi a priori dello spazio e del tempo che ordinano i dati dei sensi. Lo spazio è la forma del senso esterno. Tramite lo spazio ordiniamo i dati esterni e fanno riferimento alla realtà fuori di noi. Il tempo è la forma del senso interno e ci permette di ordinare i nostri stati interiori, i contenuti della nostra mente (pensieri,desideri,sentimenti,sensazioni). Il tempo ha però un primato rispetto allo spazio: è la forma generale, universale dell’esperienza. Infatti i fenomeni del senso esterno mi sono dati sempre attraverso il senso interno, cioè sono mie rappresentazioni, miei contenuti mentali. Ma in quanto sono anche fenomeni del senso interno devono sottostare necessariamente alla forma del tempo, ecco perché il tempo è la forma universale dell’esperienza: perché vale non solo per i fenomeni del senso interno ma anche per quelli del senso esterno, in quanto questi ultimi sono contenuti nella mia mente. Quindi anche fenomeni del senso interno.
I fenomeni del senso esterno per i quali vale la forma pura dello spazio, sono anche fenomeni del senso interno. L'albero che io percepisco esiste al di fuori della mia mente, ma nel momento in cui lo percepisco, è un contenuto della mia mente. Kant ora cerca di spiegare che cosa differenzia la sua concezione dello spazio e del tempo da quella di pensatori e scienziati che lo hanno preceduto e inizia con Newton.
Newton pensava che lo spazio e il tempo fossero delle realtà oggettive, fossero dei grandi contenitori al cui interno si trova tutto ciò che esiste. Per Newton il tempo e lo spazio esisterebbero anche se non esistesse nulla nell’universo. Kant nega questa visione, infatti spazio e tempo sono modalità soggettive attraverso cui noi ordiniamo tutti i fenomeni. Se non ci fossero dei fenomeni da ordinare, spazio e tempo non avrebbero alcuna funzione e non esisterebbero. Quindi la realtà dello spazio e del tempo è una realtà soggettiva.
Locke riteneva che spazio e tempo fossero ricavati dall’esperienza. Kant la vede all’opposto: ogni esperienza in realtà già presuppone le intuizioni dello spazio e del tempo. Lo spazio e il tempo precedono ogni esperienza, quindi non possono essere ricavati da esse.

Leibniz aveva sostenuto che spazio e tempo non avessero una realtà oggettiva e su ciò Kant è d’accordo. Lo spazio e il tempo per Leibniz sono modi attraverso cui noi esprimiamo i rapporti tra le cose: rapporti di successione per quanto riguarda il tempo, rapporti di coesistenza per quanto riguarda lo spazio. Secondo Kant spazio e tempo non sono dei concetti come sosteneva Leibniz, ma delle intuizioni. Non sono cioè delle nozioni generali che noi astraiamo, ma intuizioni originarie con cui ordiniamo tutto ciò che cade sotto i nostri sensi. Tuttavia intuizioni pure, non empiriche. Cioè intuizioni che ci colpiscono prima di ogni esperienza particolare che possiamo fare. Su spazio e tempo poi si fonda l’intera matematica, cioè l’aritmetica e la geometria. Grazie infatti all’intuizione pura dello spazio, noi siamo in grado di costruire a partire da tale intuizione pura, tutti gli enti della geometria (punto,linea,superficie,forma geometrica…) che presuppongono tutti l’intuizione pura dello spazio. Così come i numeri, che sono la base dell’aritmetica, presuppongono l’intuizione pura del tempo, perché i numeri naturali non sono altro che addizioni di istanti di tempo. Se non c’è il tempo, non ci sono i numeri e l’aritmetica.
Kant si chiede, come può la matematica valere anche per la natura? Perché la matematica non è qualcosa che vale per il puro pensiero, ma vale anche per il mondo esterno che è studiato dalla fisica? Galilei l’aveva già detto che soltanto chi conosce la matematica può studiare la natura, perché la natura parla un linguaggio matematico. Perché la natura ha questa struttura matematica? Perché noi conosciamo la natura attraverso le intuizioni pure dello spazio e del tempo che sono alla base della matematica, quindi avrà una struttura matematica anche il mondo fisico perché noi non possiamo che conoscerlo attraverso lo spazio e il tempo che sono a fondamento della matematica stessa. E’ come se su quelle lenti azzurre fossero incise delle figure geometriche o strutture matematiche di qualsiasi tipo: tutto ciò che noi vediamo lo vediamo filtrato in questo modo.

Analitica trascendentale

Studia le forme a priori dell’intelletto, cioè le categorie o concetti puri e fonda la legittimità della conoscenza del mondo fisico. La fisica è pura e possibile perché noi disponiamo di concetti puri che danno una determinata struttura alla nostra esperienza. L’intelletto è la facoltà con cui noi pensiamo i dati dei sensi, o impressioni sensibili, attraverso le categorie o concetti puri.
Perché analitica? Analitica perché qui Kant analizza, prende in considerazione tutte le forme a priori dell’intelletto, cioè le varie categorie o concetti.
Attraverso i concetti puri o le categorie, che sono le forme a priori dell’intelletto, il pensiero unifica le esperienze che già sono state organizzate in forma spazio-temporale. Adesso alle forme pure della sensibilità si aggiungono quindi le forme pure dell’intelletto. Come detto prima, le categorie sono concetti puri, cioè NON ricavati dall’esperienza, anzi sono concetti che noi “proiettiamo” sull’esperienza per ordinarla ulteriormente. Il concetto di albero è ricavato dall’esperienza, come il concetto di nuvola, come il concetto di uomo. Ma noi stiamo parlando di concetti molto più generali, che ci permettono di conoscere il mondo fisico prima di ogni particolare esperienza. Questi concetti generalissimi sono: il concetto di quantità (tutto ciò di cui noi facciamo esperienza è qualcosa di misurabile) il concetto di sostanza (tutto ciò di cui facciamo esperienza è una cosa dotata di molteplici proprietà) il concetto di causalità (tutto ciò di cui noi facciamo esperienza è effetto di una causa precedente). In questi concetti generalissimi si precisa la funzione suprema dell’intelletto o “io penso” che è una funzione ordinatrice, unificatrice. Attraverso le sue categorie e i suoi concetti puri, l’io penso unifica e ordina il molteplice sensibile, le nostre impressioni sensibili.

Deduzione trascendentale

Occorre dimostrare che i concetti puri dell’intelletto non sono delle pure e semplici rappresentazioni mentali, ma sono dei concetti che valgono per gli oggetti dell’esperienza. Occorre cioè dimostrare la loro applicabilità agli oggetti dell’esperienza. Come dimostrare che le categorie si applicano necessariamente agli oggetti dell’esperienza e che non sono semplici rappresentazioni soggettive? Kant risponde: poiché tutti gli oggetti dell’esperienza devono sottostare all’intelletto o io penso, altrimenti non potrebbero in alcun modo essere pensati, essi devono allora necessariamente sottostare anche alle categorie attraverso cui l’intelletto o io penso esercita la sua funzione ordinatrice.
In questo caso deduzione è in senso giuridico, significa dimostrazione della legittimità di una pretesa, quale pretesa? La pretesa da parte dei concetti puri, di valere per tutti gli oggetti dell’esperienza. Infatti la deduzione trascendentale vuole dimostrare che i concetti puri o le categorie si applicano necessariamente agli oggetti dell’esperienza e che non sono semplici rappresentazioni soggettive. Una volta dimostrato ciò siamo in grado di ricapitolare un po’ tutto ciò che abbiamo detto fino a qui. Grazie alle categorie tutti gli oggetti di cui facciamo esperienza ci appaiono come realtà misurabili, grazie alla categoria della quantità; come cose aventi determinate proprietà, grazie alla categoria della sostanza; come inseriti in una rete di rapporti causa ed effetto, grazie alla categoria della causalità.
Perciò, conclusione, l’ordine e la legalità della natura sono una costruzione della nostra mente. E’ la rivoluzione copernicana di Kant. Al centro della conoscenza c’è il soggetto. La nostra mente struttura i dati dei sensi attraverso spazio e tempo studiate nell’estetica trascendentale e le categorie di cui si occupa l’analitica trascendentale. Questa regolarità, legalità trova espressione nei giudizi sintetici a priori che sono conoscenze universali e necessarie ma allo stesso tempo feconde, cioè tali da arricchire il nostro sapere.
Concludiamo davvero con due definizioni dell’intelletto o “io penso”. “L'io penso” è il principio supremo della conoscenza umana perché è il fondamento dell’oggettività delle nostre conoscenze. Da esso dipende l’oggettività delle nostre conoscenze, vale a dire l’universalità e necessità delle nostre conoscenze. Perché l’io penso è comune a tutti gli esseri pensanti. Tutti gli esseri umani dispongono delle medesime categorie dell’intelletto attraverso le quali interpretano e conoscono la realtà, quindi la realtà è la stessa per tutti. I giudizi che noi formuliamo sulla realtà, sul mondo fisico, sono oggettivi.
Es. Una cosa è dire “se porto un corpo sento un’impressione di peso” (giudizio soggettivo), una cosa è dire "i corpi sono pesanti” (giudizio sintetico a priori, giudizio oggettivo). L’io penso è il legislatore della natura perché non ricava i suoi principi dalla natura, ma è lui che li impone alla natura.

Confutazione dell’idealismo

E’ un’aggiunta della Critica della ragion pura, nella seconda edizione. Molti interpreti di Kant lessero la Critica della ragion pura infatti come se questo scritto filosofico sposasse una visione idealistica della realtà, come se cioè Kant affermasse che la realtà esterna è un solo contenuto della nostra mente, una nostra idea. Si tratta dell’idealismo. “Esse est percipi” aveva detto Berkeley. Kant non è d’accordo.
Tesi= l’esperienza interna che ha a che fare con i contenuti della nostra mente, presuppone l’esistenza delle cose fuori di noi.
Dimostrazione= l’esperienza interna si svolge nel tempo, è indiscutibile.

si è consapevoli del mutamento solo in rapporto a qualcosa di permanente (noi possiamo sapere cos’è il piacere, solo perchè sappiamo cos’è il dolore)

questo elemento permanente non può trovarsi all’interno di me stesso perché all’interno di me stesso tutto muta

esso non può che trovarsi in ciò che è esterno, cioè nelle cose a cui le mie rappresentazioni o stati mentali, si riferiscono

quindi: esistono cose esterne indipendenti dalle mie idee o rappresentazioni.

La realtà esiste indipendentemente da noi.

Analitica trascendentale: fenomeno e noumeno

Noi conosciamo solo i fenomeni, cioè le cose quali ci appaiono, attraverso le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto. Noi non possiamo conoscere le cose senza le forme a priori. Le cose in sé stesse sono i noumeni. Noi possiamo riferirci al noumeno attraverso un’accezione negativa (qualcosa che non è oggetto di esperienza possibile) che è un concetto limite, ci dice semplicemente che non possiamo conoscere nulla che sia al di fuori dell’esperienza. Accezione positiva : è l’oggetto di una presunta intuizione intellettuale, che è una prerogativa esclusivamente divina, non umana, se mai esiste qualcosa di simile a un’intuizione intellettuale, questa è una forma di conoscenza che appartienene solo a Dio. L’intuizione intellettuale è una intuizione che mentre intuisce i suoi oggetti li crea pensandoli, è un’intuizione pensante che è una forma di conoscenza creativa, è un pensiero che crea gli oggetti che intuisce. Questa non è una prerogativa umana. La sola intuizione umana è quella sensibile, percepisce ma non crea gli oggetti. Quindi Dio che crea gli oggetti della propria intuizione pensandoli, li coglie come cosa in sé. Noi conosciamo solo ciò che creiamo infatti (verum et factum convertuntur diceva Vico).

Dialettica trascendentale

Si occupa delle forme a priori della ragione (terza facoltà conoscitiva). Le forme a priori della ragione Kant le chiama idee e sono tre: idea dell’anima, idea del mondo, idea di Dio, che sono i tre oggetti per eccellenza della metafisica. Quindi la ragione è quella facoltà dell’animo umano che aspira a una conoscenza che sta al di là dei limiti dell’esperienza. Kant la chiama anche la facoltà dell’incondizionato, cioè dell’assoluto, in quanto la ragione aspira a una conoscenza assoluta, quella che appunto, è presente nella metafisica, ma la metafisica non è una scienza, è una aspirazione umana. L’uomo vuole conoscere la totalità dei fenomeni che fanno riferimento all’interiorità umana e per fare ciò ricorre all’idea di anima oppure noi intendiamo conoscere la totalità dei fenomeni che fanno parte della natura esterna e per far questo si ricorre all’idea del mondo oppure noi aspiriamo a una conoscenza assoluta che fa riferimento al fondamento di tutto ciò che esiste e utilizziamo a questo scopo l’idea di Dio. Ma in questo modo non ci procuriamo alcuna conoscenza effettiva. La dialettica trascendentale con le sue idee non fonda alcun autentico sapere (a differenza dell’estetica e dell’analitica) perché la metafisica non è una scienza, ma una semplice aspirazione.
Per Platone la dialettica era la scienza delle idee e dei rapporti tra le idee (idee come modelli eterni delle cose che possono essere conosciute solo attraverso l’intelletto).
Per Aristotele la dialettica si occupa di ragionamenti le cui premesse sono: o solo probabili o apparentemente probabili. Per cui i ragionamenti dialettici sfociano in conclusioni che non sono certe, affidabili, perché le premesse di partenza non lo sono. Per cui la dialettica aristotelica ha il significato di una conoscenza incerta, precaria, non affidabile. Come Kant.
La dialettica trascendentale si occupa delle illusioni della metafisica, che la dialettica trascendentale smaschera. Mentre l’analitica trascendentale è una logica della conoscenza autentica, la dialettica trascendentale è una logica della parvenza (apparenza) di una conoscenza che soltanto apparentemente è valida, perché in realtà è una conoscenza illusoria.
Quando l’intelletto applica le proprie categorie non ai dati dei sensi, ma a ciò che sta al di là di essi, l’intelletto diventa ragione, che è la facoltà dell’incondizionato. Cioè è una facoltà che aspira a conoscenze assolute ovvero incondizionate. (Breve parentesi: per Kant sono tre le facoltà conoscitive umane: la sensibilità, l’intelletto e la ragione. Ora però qui Kant ci sta dicendo che in realtà non c’è una vera e propria differenza tra intelletto e ragione. Si tratta di una medesima facoltà che viene utilizzata in modi diversi. Quando l’intelletto applica i propri principi a priori o categorie ai dati dei sensi, allora opera in maniera legittima e ci fa conoscere qualcosa di valido. Quando invece applica i propri concetti puri a ciò che sta oltre l’esperienza, allora opera in modo illegittimo e produce conoscenze illusorie). Come le forme a priori, come i principi a priori dell’intelletto sono le categorie o concetti puri, così i principi a priori della ragione sono chiamati da Kant: idee.
La ragione opera con idee, con rappresentazioni assolute e onnicomprensive, cioè che hanno a che fare con una conoscenza totale. Sono tre queste idee, corrispondenti agli oggetti della metafisica e sono: l’idea di anima nel senso della totalità assoluta dei fenomeni interni. Cioè l’idea di anima secondo la metafisica spiega tutti i fenomeni che fanno parte della nostra vita interiore. L’anima è l’oggetto di quella parte della metafisica nota come psicologia razionale (=studio dell’anima come sostanza immateriale,semplice,immortale che sta alla base di tutti i fenomeni del senso interno); l’idea di mondo (oggi diremmo universo): il mondo è la totalità assoluta di tutti i fenomeni esterni ed è studiato dalla cosmologia razionale, altra branca della metafisica; l’idea di Dio come totalità assoluta di tutti i fenomeni esterni e interni, nel senso del fondamento di tutto ciò che esiste. Dio è all’origine di tutti i fenomeni, sia del senso interno sia del senso esterno, cioè è il fondamento di tutto ciò che E’. Dio è studiato dalla teologia razionale.
L’errore della metafisica consiste nell’aver trasformato tre semplici ideali o esigenze del pensiero in altrettante realtà. Ma l’anima, il mondo e Dio non sono realtà che possiamo conoscere, perché stanno oltre l’esperienza. Sono semplici ideali , conoscenze a cui aspiriamo ma che non conquisteremo mai, sono conoscenze illusorie eppure svolgono una funzione importante. Una funzione regolativa, non costitutiva. Non hanno un uso costitutivo nel senso che le tre idee della ragione non costituiscono oggetti di cui possiamo fare esperienza e che quindi possiamo conoscere. Infatti anima, mondo e Dio non sono oggetti di possibile conoscenza, stanno oltre l’esperienza. Nessuno ne ha mai fatto esperienza. Funzione regolativa cioè di guida, guidano la nostra conoscenza cioè ci aiutano a costruire conoscenze via via sempre più ampie e sistematiche, perché ci mostrano qual è il fine ultimo della conoscenza, un fine ultimo a cui non potremo mai giungere però. Il fine ultimo della conoscenza è infatti un sapere assoluto, completo, definitivo sul mondo interno (cioè sulla nostra vita interiore), sul mondo esterno e sul fondamento di tutto ciò che esiste, cioè Dio.
Queste aspirazioni sono irraggiungibili ma in quanto tendiamo ad esse ci aiutano a costruire conoscenze sempre più ampie,unitarie e sistematiche. Sono come l’orizzonte verso il quale noi ci dirigiamo ma che si sposta continuamente con noi.

Critica kantiana alla psicologia razionale

La psicologia razionale pretende di studiare l’anima ma i suoi non sono autentici argomenti, bensì paralogismi,
cioè ragionamenti errati. L’errore che compie è che applica illegittimamente all’io penso la categoria della sostanza. L’io penso è una pura funzione logica, che ha lo scopo di ordinare i dati dei sensi, non è oggetto di cui si fa esperienza. Se noi applichiamo la categoria della sostanza all’io penso (e non possiamo farlo) ecco che creiamo un ragionamento errato. L’intelletto non è una cosa, è un’attività che ci consente di dare un ordine al mondo fenomenico, alla natura. Trasformando l’io penso in una cosa creiamo un oggetto che non può essere conosciuto, l’anima.
Critica kantiana alla cosmologia razionale
Vengono create non vere conoscenze ma le antinomie, cioè affermazioni contraddittorie tuttavia entrambe dimostrabili come vere. Ma questo è impossibile perché la logica ci insegna che due affermazioni contraddittorie non possono essere entrambe vere. Ad es. “oggi piove” e “oggi non piove”. Se possono essere formulate ci stiamo sbagliando. L'errore sta nel pretendere di conoscere la totalità di tutti i fenomeni, cioè il mondo. Ma la totalità di tutti i fenomeni ci dice Kant, non è un fenomeno. Non è qualcosa di cui facciamo esperienza. Quindi creando questo falso oggetto di conoscenza (mondo o universo) noi incappiamo in gravi errori logici.

Le antinomie sono 4 e sono costituite da tesi/antitesi:
il mondo è finito nel tempo e nello spazio / il mondo è infinito
nel mondo tutto è semplice / non vi è nulla di semplice nel mondo ma tutto è composto
nel mondo esiste la libertà / non esiste la libertà, tutto è determinato
nel mondo esiste una causa necessaria dei fenomeni / non esiste una causa necessaria dei fenomeni, tutto è contingente.
Per la 3-4, Kant aggiunge: la tesi in entrambe fa riferimento al mondo noumenico, cioè a un ambito che va oltre l’esperienza possibile, l’antitesi in entrambe fa riferimento al mondo fenomenico, che noi possiamo conoscere. L’antitesi 3. dice che nel mondo fenomenico non esiste la libertà, tutto è determinato, infatti noi conosciamo il mondo fenomenico soprattutto attraverso la categoria della causalità. Applicando la categoria della causalità agli oggetti dell’esperienza, il mondo che conosciamo ci si presenta come inevitabilmente determinato, poiché tutto ciò che accade ha una causa antecedente che lo spiega. Se questo è vero però allora la libertà è esclusa dal mondo fenomenico, perché anche noi come esseri fenomenici siamo determinati inevitabilmente. Ogni nostra azione, decisione è condizionata da cause antecedenti che sfuggono al nostro controllo. Se esiste la libertà, dice Kant, non può che esistere un mondo che sta oltre il mondo che conosciamo (Kant ne parlerà nella Critica della ragion pratica dove quella libertà che viene necessariamente esclusa dal mondo fenomenico, viene invece affermata come propria del mondo noumenico).

Critica kantiana alla teologia razionale

Presunta conoscenza fenomenica di Dio basata sulle tre prove famose che la tradizione ci ha consegnato per dimostrare l’esistenza di Dio. Tre prove che però Kant ci dimostrerà, non essere affatto valide. Esse sono la prova ontologica, cosmologica e fisico-teologica o argomento del disegno. Queste tre Hume le aveva già confutate nei Dialoghi sulla religione naturale: non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio. Kant ripercorre Hume.

La critica kantiana della prova ontologica

Per Kant la prova ontologica sta alla base delle altre due, per cui se dimostriamo che questa prova è insussistente, basterà a far cedere le altre due prove.
Prova ontologica cartesiana:
Premessa 1: Dio è l’essere perfettissimo, eterno, onnisciente, onnipotente, buono
Premessa 2: se non esistesse gli mancherebbe qualcosa
Conclusione: Dio esiste
Kant attacca la premessa 2: l’esistenza non è un predicato logico, non è una proprietà che può essere posta accanto alle altre. L’esistenza è la realtà effettiva di qualcosa, la sua posizione nella realtà, è la condizione perché qualcosa abbia delle proprietà, non è essa stessa una proprietà come le altre. Se l’esistenza fosse un predicato logico, noi avremmo che cento talleri possibili e cento talleri reali sarebbero diversi dal punto di vista del contenuto. Perchè i cento talleri reali avrebbero un contenuto in più di quelli solo possibili. Il che è assurdo. La differenza è solo che quelli reali esistono, quelli possibili no. Il contenuto è sempre quello. (ps. i talleri sono la moneta della Prussia del tempo).
I giudizi esistenziali sono sempre sintetici, mai analitici. Analizzando un concetto noi non troviamo mai l’esistenza, la posso però aggiungere a un concetto facendo una determinata esperienza. Ma noi non possiamo fare esperienza di Dio. Solo l’esperienza mi autorizza a collegare a un dato concetto, la sua esistenza.
Demolita la prova ontologica, anche le altre vengono minate alla loro base.

La critica kantiana della prova cosmologica

Prova cosmologica lockiana:
Prima premessa: tutto ciò che esiste è contingente perché non è causa di sé stesso, dipende da una causa antecedente
Seconda premessa: non possiamo risalire all’indietro infinitamente di causa in causa e occorre ammettere una causa prima necessaria e causa di sé stessa
Conclusione: la causa è Dio
Kant attacca la 2: noi non siamo autorizzati ad applicare il concetto di causa a Dio, è illegittimo. Le categorie possono essere applicate soltanto agli oggetti dell’esperienza. Questo essere necessario di cui ci parla la conclusione è in realtà l’essere perfettissimo che sta alla base della prova ontologica. Prova ontologica che però è insussistente, quindi rende insussistente quella cosmologica che si basa sulla prova ontologica.

La critica kantiana alla prova fisico-teologica o argomento del disegno

Prima premessa: il mondo è come un edificio ben costruito: in esso troviamo infatti ordine, finalità ed armonia
Seconda premessa: a progettarlo deve essere stata una suprema intelligenza ordinatrice, una sorta di Sommo Architetto
Conclusione: l’architetto è Dio
Kant critica la 2: l’ordine naturale può benissimo derivare dalla natura stessa, senza bisogno di ricorrere a una causa esterna ordinatrice o intelligenza. Per sostenere che un simile ordine non deriva dalla natura stessa, occorre identificare la causa ordinatrice della natura con l’essere necessario creatore di cui ha parlato la prova cosmologica. Se io nego che quest’ordine sia già presente all’interno della natura, devo per forza ricorrere a un essere supremo creatore che ha prodotto non solo questo ordine, ma anche la natura stessa. E questo essere necessario creatore è il Dio della prova cosmologica.
La prova fisico-teologica dunque presuppone la prova cosmologica e indirettamente la prova ontologica. Quindi non è un argomento valido. Inoltre l’ordine e l’armonia del mondo sono relativi a noi, a noi il mondo appare ordinato e ben costruito, non è detto che lo sia in sé stesso e in ogni caso anche il mondo è imperfetto -> questa è un’altra critica all’argomento fisico-teologico. Noi non siamo autorizzati a vedere nel mondo qualcosa di simile a un edificio. L’analogia è debole dunque anche la conclusione.
Possiamo affermare che Kant è ateo? NO. Kant è agnostico. Cioè ritiene che la ragione non possa dimostrare l’esistenza di Dio, né la sua non-esistenza. La Critica della ragion pura quindi ci dice cosa possiamo conoscere e cosa non possiamo conoscere. Kant ha indagato i principi a priori del conoscere nella Critica della ragion pura.

La critica della ragion pratica (1788)

Kant ci dice quali sono i due oggetti che da sempre hanno attirato il suo interesse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale che è in me.
Kant si pone una domanda: quali sono le condizioni di possibilità dell’agire morale?
Kant comincia col dirci che l’azione moralmente buona è quella che scaturisce da un’intenzione buona, una volontà buona. L’unica cosa davvero buona è l’intenzione. Se un’azione ha conseguenze negative, resta buona se è stata prodotta da un’intenzione buona. Kant non è interessato alle conseguenze, ma solo alle motivazioni delle azioni. La volontà buona non tiene conto delle nostre inclinazioni sensibili, impulsi egoistici, passioni, interessi privati. Essa non ci dice di seguire il nostro tornaconto personale, è quella che obbedisce a una legge universale, che non ha a che fare con la tutela dei miei interessi egoistici ed è la legge morale che è in ciascun uomo ed è la stessa per tutti. Dove la trova ciascun uomo tale legge? Nella propria ragione, la facoltà che fa di noi degli essere umani. La legge morale è razionale. Inoltre la legge morale è a priori, non è ricavata dall’esperienza. La ricaviamo da noi stessi, non da ciò che è al di fuori di noi. La moralità non dipende dalle norme e dai princìpi presenti nella società in cui viviamo e che ci possono certo influenzare, ma ciò che ci spinge ad agire moralmente è ciò che sta dentro di noi, non fuori. La legge morale è qualcosa di formale ovvero non prescrive dei contenuti determinati (non ci dice cosa fare e cosa no), essa prescrive in ogni particolare situazione in cui ci troviamo, di subordinare la nostra volontà al dovere, non ci dice che cosa fare ma solo come farlo. Ci dice cioè come tutti dovrebbero comportarsi in ogni particolare situazione. E fare il proprio dovere significa astenersi dal seguire i propri interessi egoistici altrimenti non ci comporteremmo seguendo una legge universale quale è appunto la legge morale. Essa ci dice di fare ciò che dobbiamo. L’etica kantiana è dell’intenzione, basata sulla ragione e basata sul dovere, cioè un’etica deontologica. Agisce in modo morale chi segue il proprio dovere, non chi segue il proprio interesse o la propria felicità. L’etica kantiana è agli antipodi di un’etica eudemonistica cioè basata sulla ricerca della felicità.
Il comportamento morale si basa sugli imperativi categorici, ordini, comandi, che prescrivono il dovere per sé stesso, senza altro fine al di fuori del dovere: fai ciò che devi, obbedisci al dovere, sono imperativi categorici, diversi dagli imperativi ipotetici che non hanno a che fare con la moralità, perché in questo caso il fine non è il dovere, ma il dovere è solo il mezzo per raggiungere quel fine. Quelli ipotetici (forma se…allora) stabiliscono cosa fare per raggiungere certi fini anche egoistici. E si distinguono in regole dell’abilità e della prudenza. Le prime ci dicono quali mezzi dobbiamo procurarci per ottenere un certo fine o scopo (es. se vuoi superare l’esame, devi studiare), le seconde hanno a che fare con la felicità o il benessere che ciascuno cerca nella vita (es. se vuoi essere rispettato, devi rispettare gli altri).
Entrambi sono imperativi, cioè secondo Kant, principi oggettivi di determinazione della volontà, quindi validi per tutti.
Le massime invece sono principi solo soggettivi di determinazione della nostra volontà (es. vendicati di ogni offesa, es. prendi le cose come vengono, es. nella vita ricerca il successo), non pretendono di avere una validità universale, ad alcuni possono andare bene, ad altri no. Gli imperativi hanno una oggettività, cioè una validità generale che le massime non posseggono.

Le tre formulazioni dell’imperativo categorico

Kant formula le tre formulazioni dell’imperativo categorico per spiegarci cosa significa fare il nostro dovere.
“Agisci unicamente secondo quella massima che puoi volere divenga legge universale” , cioè si obbedisce al dovere, si agisce moralmente, quando si obbedisce a un principio che ha una portata universale, cioè un principio che tutti possono adottare come proprio. L’universalità è una caratteristica fondamentale dei principi morali, soprattutto quello dell’obbedienza al dovere.
Questa prima formulazione è nota come criterio di generalizzabilità o universalizzabilità. Ci dice in pratica questo criterio che un principio è morale solo se può essere universalizzato o generalizzato a tutti, se non lo può, allora non è sicuramente un principio morale, non ha a che fare con l’imperativo del dovere. Quando quindi noi ci chiediamo se una determinata massima o principio sia morale oppure no, dobbiamo cercare di vedere se è applicabile a tutti, se anche gli altri miei simili possono adottarla, se non è applicabile a tutti, allora non è una massima o principio morale (es. menti quando ti conviene, questa massima non morale, perché non può essere universalizzata. Se fosse universalizzata renderebbe la convivenza impossibile, perché non ci si potrebbe più fidare gli uni degli altri).
“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre come un fine e mai come un mezzo” (dalla Fondazione della metafisica dei costumi 1785) cioè ogni persona è un fine assoluto, ogni persona dice Kant ha una dignità cioè un valore assoluto, mentre le cose hanno un prezzo cioè un valore relativo, al contrario delle persone. Quindi le persone sono fini, mai mezzi. Agire moralmente significa trattare noi e gli altri sempre come fini, mai come mezzi. Chi si serve degli altri come strumenti per i propri scopi personali, non agisce moralmente.
“Agisci in modo che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare se stessa come universalmente legislatrice” (dalla Fondazione della metafisica dei costumi 1785) cioè agire moralmente significa obbedire solo alla nostra volontà e non a un principio esterno alla nostra volontà. Qui viene sottolineata l’autonomia della volontà razionale. La morale o è autonoma o non è autentica morale. E’ autonoma quando il soggetto obbedisce alla propria volontà razionale. La volontà, obbedendo alla legge morale razionale del dovere, obbedisce a se stessa, a quanto vi è di più universale in lei. Ecco perché possiamo parlare anche nell’ambito della morale, di una rivoluzione copernicana, perché al centro dell’esperienza morale c’è un soggetto che trova in se stesso la legge alla quale sottomettersi. Così sottomettendomi a me stesso, sono libero, non mi sottometto alla società, non alla religione. Una morale così sarebbe eteronoma (cioè basata su principi esterni al soggetto stesso) invece, obbedendo alla mia volontà razionale, obbedisco a me stesso. Attenzione però: non nel senso dell’egoista che fa quello che gli pare, ma nel senso del soggetto che si sottomette all’imperativo categorico, alla legge morale razionale che è qualcosa di universale, appartiene a tutti gli individui. Dunque Kant ci dice che al centro della vita morale c’è il soggetto. Esattamente come nella Critica della ragion pura ci ha detto che al centro del fenomeno della conoscenza c’è il soggetto e non l'oggetto. Se io obbedisco alla legge morale obbedisco a me stesso, quindi sono libero. Ma Kant nella prima critica ci ha detto che il mondo fenomenico è governato dal principio di causa-effetto, cioè da un rigido determinismo. Adesso però ci sta dicendo qualcos’altro, perché attraverso l’esperienza morale noi possiamo gettare uno sguardo sul mondo sovrasensibile, cioè sulla realtà noumenica, quella che non possiamo conoscere. La morale ha un carattere noumenico e sovrasensibile perché ci fa accedere a ciò che sta al di là dei fenomeni. Non esiste la libertà nel mondo fenomenico, esiste solo un rigido determinismo poiché tutto ciò che si trova nel mondo fenomenico è necessariamente l’effetto di una causa, ma allora io non sono libero in quanto fenomeno, perché le mie azioni, decisioni, sono determinate. Ma questo vale per il mondo fenomenico, non per il mondo noumenico. L’uomo è cittadino di due mondi: quello fenomenico in quanto è anch’egli un fenomeno, un elemento della natura e quello noumenico in quanto è capace di agire moralmente. In quanto tale si sottomette a sé stesso, cioè all’imperativo del dovere, l’uomo è libero, perché non si sottomette a un’autorità esterna, ma a se stesso. Quindi quella libertà di cui non possiamo fare alcuna esperienza conoscendo la natura (il mondo fenomenico), è qualcosa di cui possiamo fare esperienza in quanto siamo capaci di agire moralmente. Se io non obbedissi alla legge morale, allora sì che sarei schiavo delle mie inclinazioni sensibili, delle mie passioni, desideri, ma nel momento in cui le obbedisco sono libero da questa schiavitù delle passioni, perché mi sottometto alla ragione, cioè alla parte migliore di me stesso. Grazie alla moralità noi possiamo accedere a un ambito che altrimenti ci è totalmente precluso, l’ambito del mondo noumenico.

I postulati della ragion pratica

Un postulato è un’affermazione indimostrabile, dice Kant, ma che occorre ammettere come vera perché da questa affermazione discendono fatti del tutto evidenti e certi. In campo morale un fatto assolutamente evidente è l’esistenza della legge morale (“obbedisci al dovere”) in noi da cui ricavo tre postulati:
libertà: dal “Tu devi” (sott. “comportarti moralmente"), si evince il “Tu puoi” (sott. “comportarti moralmente oppure no”). Che senso avrebbe un ordine se io facessi sempre il mio dovere? Ma se c’è questo comando allora c’è la possibilità sia di obbedirgli che di non obbedirgli -> sono libero;
immortalità dell’anima: nella nostra esistenza terrena la santità è al di là della nostra portata. Per santità Kant intende la totale sottomissione della volontà al dovere. Nessuno nella sua vita può arrivare a tanto, perché anche se sottomette la volontà al dovere, le sue azioni conterranno sempre qualche residuo egoistico. Quindi occorre ipotizzare che tale perfezione morale possa essere raggiunta dopo la morte, in una esistenza che si prolunga indefinitamente nel tempo dopo la morte. Ciò significa che l’anima è immortale. L'obiettivo finale della santità è un obiettivo che richiede l’esistenza dell’anima dopo la morte del corpo. La santità presuppone necessariamente una continuità della nostra esistenza dopo la morte;
esistenza di Dio: l’accordo di virtù e felicità presuppone necessariamente un legislatore morale onnipotente. Nel momento in cui noi obbediamo al dovere ci rendiamo infelici perché sacrifichiamo i nostri interessi personali, ma è mai possibile che un individuo virtuoso cioè che fa il suo dovere, debba essere per sempre infelice? No. Quindi esiste un legislatore morale onnipotente che alla fine ricompenserà i virtuosi rendendoli felici e punirà i malvagi rendendoli infelici. L’accordo tra virtù e felicità richiede necessariamente l’esistenza di Dio. L’unione di virtù e felicità Kant la chiama BENE SOMMO, perché non c’è un bene che le sia superiore. Prima o poi questa unione dovrà verificarsi. Anche se nella nostra vita non potrà mai realizzarsi perché l’uomo virtuoso è colui che sacrifica la propria felicità per compiere il dovere. L’etica di Kant possiamo definirla anche un’etica dell'auto sacrificio o dell’abnegazione.

I tre postulati non sono delle certezze, neppure certezze in senso morale, sono piuttosto delle speranze fondate, non dei pii desideri. Sono fondate sull’esistenza della legge morale.
La ragion pratica ha un primato sulla ragione conoscitiva o teorica perché la ragione nel suo uso pratico ci autorizza a fare affermazioni che non siamo autorizzati a fare quando la ragione è usata in senso conoscitivo. Noi non possiamo conoscere l’anima nè possiamo dimostrare l’esistenza di Dio quando usiamo la ragione in campo conoscitivo. Ma quando usiamo la ragione in senso pratico, cioè quando agiamo come esseri morali, allora ecco che si apre uno squarcio nel mondo fenomenico e intravediamo la libertà umana, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Grazie alla ragion pratica possiamo accedere all’ambito noumenico, ma questo non significa che possiamo conoscerlo, resta inconoscibile, tuttavia si presenta come oggetto di speranza.
La moralità è l’obbedienza da parte della volontà al dovere. Quando la volontà si sottomette direttamente alla legge morale si può parlare di azione morale. La legalità invece è la conformità solo esteriore di un’azione alla legge morale. Mentre nella moralità c’è una conformità piena alla legge morale, nella legalità un’azione si conforma solo esteriormente alla legge morale poiché è attuata in base a motivazioni che non hanno nulla di morale (es. “se io dico la verità perchè sono convinto che questo sia un mio preciso dovere, agisco moralmente, se dico la verità per paura di essere punito se dico il falso, agisco egoisticamente, così come se dicessi la verità per essere elogiato per la mia schiettezza, in questo caso l’azione non è morale ma è legale, cioè solo esteriormente collegata alla legge morale”).
Regno dei fini: comunità ideale formata dagli esseri razionali che obbediscono alla legge morale e si riconoscono dignità a vicenda, ciascuno vede nell’altro un fine e non un mezzo. Qui ciascuno è suddito e sovrano al tempo stesso, suddito perché obbedisce alla legge morale, si sottomette a qualcosa, sovrano perché la legge morale si trova all'interno di ciascuno di noi. Quindi non è una sottomissione vera e propria, ma è la prova del fatto che siamo liberi.
L’etica di Kant rifiuta i sentimenti, le passioni, però il rispetto è l'unico sentimento che ha importanza nel campo morale. Rispetto nel senso di rispetto della legge morale, un sentimento di venerazione e soggezione che proviamo nei confronti della legge morale. Noi sentiamo la legge morale che è dentro di noi, però non la sentiamo direttamente, la avvertiamo attraverso l’azione che svolge nei confronti delle nostre passioni che sono inibite, ostacolate dalla legge morale. Noi ci accorgiamo della legge morale attraverso l’azione di inibizione da essa esercitata nei confronti delle nostre passioni e interessi, inclinazioni sensibili. E quando la avvertiamo troviamo un sentimento di rispetto nei suoi confronti.
L’etica deontologica kantiana si trova di fronte a un vicolo cieco quando si presenta un conflitto tra due doveri di eguale importanza, tra due doveri perfetti. Esempio: dovere di mantenere una promessa e dovere di dire la verità, possono entrare in conflitto tra loro, si crea un dilemma etico. Mettiamo che un amico ci riveli un segreto e ci chieda di non rivelarlo, noi lo promettiamo. Poi un altro amico ci chieda di rivelargli quel segreto, cioè di dire la verità. Secondo l’etica kantiana dovremmo fare entrambe le cose, ma ciò non è possibile, perciò che si fa? Bisogna tenere conto delle conseguenze delle azioni corrispondenti secondo l’etica kantiana. Cerco di prevedere le conseguenze delle due azioni possibili e poi prendo una decisione. Se riscontro un maggior numero di conseguenze negative nel mantenere la promessa allora sarei propenso di dire la verità e viceversa. Dunque è vero che l’etica kantiana non si interessa delle conseguenze delle nostre azioni, perché guarda alle intenzioni, ma di fronte a dilemmi di questo tipo le conseguenze non possono essere trascurate.

Le prime due “critiche”: un bilancio

Alla fine della Critica della ragion pura Kant ci ha detto che il mondo fenomenico conosciuto dalla scienza è rigidamente deterministico: ogni fenomeno è spiegabile a partire da una causa antecedente che lo ha determinato. Ma allora le mie azioni non sono libere, in quanto appartengono anch’esse al mondo fenomenico, esse sono determinate a loro volta da una causa antecedente. Questo ci dice la scienza. Il principio che governa il mondo fenomenico è quello di causalità dunque.
Nella Critica della ragion pratica ci si sposta nell’ambito noumenico, quell’ambito a cui accediamo attraverso l’esperienza morale, ambito caratterizzato dalla libertà. L’esperienza morale mi dice che le mie azioni sono libere in quanto determinate non da cause esterne alla mia volontà, ma dalla mia propria volontà razionale. Per spiegare un’azione in questo caso, non c’è una causa, ma uno scopo, un fine che mi sono prefissato liberamente. Ecco perché in questo caso è il principio della finalità a governare il mondo noumenico, una finalità liberamente scelta.
Sono due prospettive totalmente differenti. Se io considero le mie azioni in quanto fenomeni allora esse sono determinate da una causa antecedente e non posso parlare di libertà. Se io considero le mie azioni come espressione della mia volontà razionale allora esse sono libere.
Ora Kant si chiede: è possibile conciliare queste due prospettive così diverse tra loro? E’ possibile conciliare il mondo fenomenico e deterministico conosciuto dalla scienza con il mondo noumenico e finalistico postulato dalla morale? (Non conosciuto dalla morale ma postulato dalla morale perché sappiamo che i postulati della ragion pratica non sono conoscenze e la libertà è un postulato della ragion pratica, è qualcosa che occorre ammettere ma di cui io non ho la certezza, ecco perché è importante sottolineare la differenza tra questi due participi. Il mondo fenomenico è conosciuto, la libertà che è interna al mondo noumenico è solo un postulato della ragion pratica).
Per Kant sì, attraverso una terza facoltà di cui si occupa la Critica del Giudizio. C’è la facoltà conoscitiva (la sensibilità e poi l’intelletto), la facoltà pratica (volontà alla base delle nostre azioni) e ora ce n’è una terza: il sentimento o Giudizio. In ambito morale Kant rifiuta il sentimento tranne il rispetto nei confronti della legge morale, ora però ci dice che il sentimento ha un ruolo fondamentale nel nostro rapporto con la realtà, perché grazie al sentimento noi possiamo vedere il mondo fenomenico sotto l’aspetto della finalità, cioè della libertà. Vedere il mondo fenomenico dal punto di vista del sentimento ci consente di scorgere al suo interno una libertà che altrimenti la scienza negherebbe in quanto la scienza conosce solo il rapporto causa-effetto.

Critica del Giudizio (1790)

Il Giudizio è il sentimento o la facoltà del sentimento.
Il Giudizio inteso come sentimento si esprime attraverso i giudizi riflettenti. Ma prima soffermiamoci sui giudizi determinanti per metterli a confronto poi con quelli riflettenti.
I giudizi determinanti non sono altro che quelli sintetici a priori, presentati qui da Kant in modo diverso da come aveva fatto nella Prefazione della Critica della ragion pura, ma il concetto di fondo è il medesimo. I giudizi determinanti Kant li chiama così perché essi determinano i fenomeni, ci fanno conoscere i fenomeni. E come ce li fanno conoscere? Sussumendo (=mettendo sotto) il particolare (=i dati dei sensi) sotto un universale dato che è già presente in noi e che sono le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto, cioè le intuizioni pure dello spazio, del tempo e delle categorie.
I giudizi riflettenti o sentimentali li chiama così perché essi riflettono sui fenomeni, li interpretano cercando l’universale (non già dato, ma di cui si va in cerca) a partire dal particolare (=i fenomeni sui quali il giudizio riflettente riflette). L’universale di cui si va in cerca è il concetto di ordine, di armonia, di finalità, cioè i giudizi riflettenti vanno alla ricerca di una finalità presente nel mondo fenomenico, che la scienza non ci fa conoscere perché essa ci fa conoscere solo il collegamento di causa-effetto tra i fenomeni della natura. Ma questo non ci basta. Non ci basta una conoscenza meccanicistica e deterministica della natura. Noi ci confrontiamo con la natura anche da un’altra prospettiva, quella del sentimento, che cerca un senso superiore all’interno della natura, un senso superiore che la scienza non ci dà.

Critica del Giudizio: giudizio estetico e teleologico

Il giudizio riflettente può essere di due tipi: giudizio estetico e giudizio teleologico. Essi hanno in comune il fatto che sono entrambi giudizi che esprimono il bisogno tipicamente umano di rappresentarsi la natura secondo un ordine finalistico, come se la natura avesse uno scopo, un fine da raggiungere. Ma il giudizio estetico intuisce la finalità presente nella natura, cioè la finalità è vissuta intuitivamente come accordo tra la natura e questo nostro bisogno soggettivo di ordine, finalità, armonia. Kant parla di finalità soggettiva perché nel giudizio estetico noi formuliamo questo accordo tra una nostra esigenza soggettiva di ordine e un certo fenomeno.
Nel giudizio teleologico invece la finalità non è più intuita ma è pensata tramite la nozione di fine, come un fine che è interno alla natura stessa. Kant parla di finalità oggettiva perché in questo caso la finalità viene pensata come se fosse interna alla natura stessa e non come se risultasse da un accordo tra una nostra esigenza soggettiva e la natura in quanto tale.

Giudizio estetico (o di gusto)

Giudizio estetico o di gusto perché ha a che fare con l’apprezzamento della bellezza. Ha per oggetto il bello sia naturale che artistico. Es. “Che bel tramonto” (bellezza naturale), esempio: "Questo dipinto è stupendo” (bellezza artistica).
Il giudizio estetico nasce quando in una rappresentazione constatiamo l’accordo tra l’immaginazione e l’intelletto. Noi esprimiamo un giudizio estetico quando in una rappresentazione constatiamo l’accordo tra la spontaneità dell’immaginazione, la creatività dell'immaginazione e la legalità dell’intelletto . Perché una cosa ci sembri bella deve apparirci come il frutto della creatività, della spontaneità, dell’assenza di regole, ma allo stesso tempo come frutto dell’applicazione di schemi e regole ben precise. Una sintesi di immaginazione e intelletto. Quando constatiamo questo accordo la rappresentazione ci appare bella in quanto soddisfa la nostra esigenza di ordine, finalità e armonia.
Il bello è oggetto di un piacere disinteressato. Quando contempliamo qualcosa di bello noi non siamo interessati ad altro che alla contemplazione di ciò che abbiamo di fronte. Pensiamo a un bel campo di spighe di grano al tramonto. E’ un bel spettacolo. Se pensassi invece a quanti soldi potrei farci, l’incanto svanirebbe perché sarei mosso da interessi pratici, utilitaristici. Il bello non ha a che fare con l’utile (interesse materiale) e non deve neppure essere confuso con il piacevole. Bello e piacevole sono diversi. Il piacere estetico non ha nulla a che fare con la piacevolezza perché la piacevolezza ha a che fare con l’appagamento dei sensi, non con la contemplazione di una forma o di una struttura armoniosa. Piacevole è gustare un frutto maturo (appagamento dei sensi). Questo equilibrio tra il tutto e le parti deriva dalla cooperazione tra intelletto e immaginazione, tra creatività e regola.
Il bello è ciò che piace universalmente senza concetto (perché non si tratta di una universalità logica, delle leggi scientifiche), solo sentimentalmente. La bellezza mette tutti d’accordo. La bellezza non ha bisogno di essere giustificata razionalmente.
Fare esperienza della bellezza è fare esperienza della libertà. La bellezza è sempre il frutto di un'azione creativa, spontanea, libera e chi la contempla fa indirettamente esperienza della libertà.
Da cosa dipende allora l’universalità del giudizio estetico, l’universalità dell’esperienza della bellezza che si esprime nel giudizio estetico o di gusto? Questa universalità dipende, si fonda, su un sentire comune a tutti gli uomini, che Kant chiama senso comune. C’è in noi esseri umani un’esigenza comune a tutti noi, un’esigenza di ordine, armonia e finalità che va oltre il puro e semplice determinismo naturale.
Di nuovo rivoluzione copernicana: il bello non è una proprietà oggettiva delle cose, ma è il risultato dell’incontro tra le cose e il nostro modo di sentirle. Quando un fenomeno naturale corrisponde a questa esigenza di armonia e ordine che è propria dell’uomo, allora questo fenomeno naturale ci appare bello. Non è bello in sé ma è bello per noi (un paesaggio ad esempio).
Però il giudizio estetico di gusto si dedica anche all’esperienza del sublime.

Bello e sublime

Il bello presuppone un accordo tra le nostre facoltà: l’immaginazione (facoltà della fantasia) e l’intelletto (facoltà delle regole). Da questo accordo scaturisce un sentimento di piacere estetico. E questo sentimento infonde nel nostro animo un senso di pace, calma, serenità. La contemplazione della bellezza porta con sé questo stato d’animo (ad es. la vista del sole che tramonta). La natura non ci appare più come un meccanismo perfetto che funziona grazie a leggi meccaniche, qui lo spettacolo che contempliamo non è freddo, c’è un senso superiore al semplice determinismo naturale.
Il sublime presuppone un contrasto tra le nostre facoltà: l’immaginazione e la ragione. Questo contrasto genera in noi un sentimento ambivalente o misto, di dispiacere che però subito dopo si converte in piacere. Questo sentimento genera in noi uno stato d’animo di fremito (=profondo turbamento) e commozione (=esaltazione). Ci sono due aspetti del sublime: sublime matematico e dinamico. Il sublime matematico è quella esperienza che facciamo quando ci troviamo di fronte a fenomeni naturali smisuratamente grandi, quando l’immensità della natura ci sovrasta (cielo stellato di notte, oceano). Si ha a che fare con la quantità, con un’estensione smisurata. Il sublime dinamico dal greco dynamis= potenza, forza. Qui siamo come schiacciati da fenomeni naturali smisuratamente potenti (vulcano che erutta, mare in tempesta, uragano, terremoto, alluvioni) di fronte a cui ci sentiamo piccoli, un nulla.
Di fronte al sublime matematico avvertiamo la nostra piccolezza. La nostra immaginazione di fronte a uno spettacolo quale la vastità del cosmo è incapace di circoscriverlo. Questa vastità così estesa non può essere abbracciata dalla nostra immaginazione e ciò ci fa sentire piccoli e miseri, cosa che genera in noi tristezza che però subito dopo diventa piacere perché la nostra ragione possiede il concetto dell’infinito che supera ogni smisurata vastità naturale e questo ci fa sentire superiori alla natura. Perché noi possediamo il concetto di infinito, mentre nella natura non troviamo nulla che possa eguagliare questo concetto che è in noi. Quindi da un senso di inferiorità (immaginazione) passiamo a un senso di superiorità (ragione). Esaltiamo noi stessi.
Lo stesso accade nel sublime dinamico. Di fronte a terremoti siamo impotenti, ma noi con la legge morale siamo liberi, la natura no. Noi siamo perciò al di sopra della potenza naturale grazie alla legge morale che è in noi e che è alla base della nostra libertà.

Giudizio teleologico

Esprime la nostra esigenza soggettiva di un ordine finalistico, non deterministico, della natura. La spiegazione scientifica dei fenomeni naturali basata sul principio di causa ed effetto non ci basta, ci serve una spiegazione che vada oltre il determinismo, il meccanicismo. La scienza ci dice che la natura è come un gigantesco meccanismo che funziona in base a leggi meccaniche, cioè in base al principio di causa-effetto. Ma le leggi meccaniche non sono in grado nemmeno di spiegare l’esistenza di un semplice stelo d’erba per Kant, infatti per la natura vivente una spiegazione meccanicistica è inadeguata. Abbiamo bisogno di una spiegazione superiore a quella della scienza, una spiegazione sentimentale dunque ci serve. Appunto perché i giudizi riflettenti interpretano la natura, non la conoscono oggettivamente per come essa è colta dalla scienza. Questo finalismo che noi ravvisiamo nella natura presenta due aspetti: un finalismo intrinseco e un finalismo estrinseco. Il primo riguarda il singolo essere vivente, dunque un finalismo interno alla singola individualità vivente (es. un albero. Tutte le componenti dell’albero sono accordate tra loro al fine di permettere l’esistenza dell’albero. C’è un rapporto armonioso tra le parti e il tutto). Quello estrinseco collega tra loro tutti gli esseri viventi e ci fa vedere la natura come una concatenazione di esseri via via sempre più perfetti, dall’ameba all’uomo. C’è come una gradualità nella natura che va dall’ essere più semplice e meno evoluto all’essere estremamente complesso ed evoluto che è l’uomo. L’uomo è lo scopo supremo della natura, il fine ultimo di essa. Queste spiegazioni di carattere sentimentale sono universali. Il giudizio teleologico ci fa apparire la natura in un certo modo, non ce la spiega. Ha un valore non conoscitivo ma euristico (dal greco heurískein = scoprire, ci aiuta il giudizio teleologico a fare nuove scoperte in ambito naturale perché ci mostra un senso della natura al di là delle spiegazioni meccanicistiche) e regolativo (perché il giudizio teleologico guida le nostre conoscenze).
La Critica del giudizio è importante perché ci fa capire che stava cambiando il clima culturale in Europa alla fine del ‘700. Kant risente di un’atmosfera già romantica, dove si esalta il sentimento, dove la categoria estetica principale è quella del sublime, non più quella della bellezza classica. Kant resta comunque un filosofo illuminista.

Kant: filosofia della religione

Per Kant la morale è autonoma dalla religione perché si fonda sulla legge morale razionale e non su comandi divini.
Non solo la morale è autonoma dalla religione ma è anche più importante, ha un primato su essa, infatti secondo Kant certe azioni non sono da considerarsi morali in quanto precetti divini, è piuttosto vero il contrario: certe azioni sono da considerarsi precetti divini perché moralmente doverose. Tuttavia tra morale e religione c’è connessione, lo abbiamo visto a proposito dei postulati della ragion pratica. Sulla base della legge morale Kant ricava questi due postulati etico-religiosi: postulato dell’immortalità dell’anima e quello dell’esistenza di Dio. La religione dipende dalla morale presente in noi. Lo scritto in cui Kant espone la sua visione della religione è La religione nei limiti della semplice ragione (1793) opera che superò la barriera della censura di stato (quindi ne fu approvata la pubblicazione) ma Federico Guglielmo II vietò a Kant di trattare di filosofia della religione in futuro. Kant da suddito rispettoso chinò il capo, ma alla morte di Federico Guglielmo II si sentì autorizzato di nuovo a occuparsi di questo genere di temi. E lo fece con un altro scritto dal titolo Il conflitto delle facoltà (1798). Il titolo della prima opera La religione nei limiti della semplice ragione ci fa capire bene qual è l’atteggiamento di Kant nei confronti della religione, è l’atteggiamento di un illuminista. Come gli altri illuministi Kant ritiene che le verità fondamentali della religione siano accessibili alla sola ragione senza bisogno di rivelazione dall’alto, senza bisogno di ricorso alla fede. L’autentica religione è una religione razionale, ma ciò non significa che la religione rivelata non abbia alcun peso. Dobbiamo concepire il rapporto tra le due religioni come un rapporto di inclusione. Cioè, la religione rivelata al suo interno racchiude un nocciolo che è la religione razionale, ed è questo nocciolo ciò che vi è di più importante. Però la religione rivelata è importante perché si rivolge all’uomo tutto intero, non solo alla parte razionale dell’uomo. L’uomo è anche sensibilità, emotività ed è a questa componente non razionale che fa appello la religione rivelata. Perché certi simboli religiosi riescono a comunicare in maniera efficace certe verità teologiche particolarmente astratte che sarebbero incomprensibili dai più. Certe questioni teologiche particolarmente intricate e complesse, come la giustificazione del male nel mondo, possono essere comunicate più efficacemente attraverso simboli, immagini, metafore. Ed è questo il ruolo che svolge la religione rivelata: riesce a spiegare in maniera più convincente certe tematiche teologiche particolarmente astratte.

Dottrina del male radicale dell’uomo

Kant ha una visione pessimistica dell’uomo: l’uomo è radicalmente malvagio, cattivo per natura, corrotto (riferimento alla Genesi->peccato originale). Alla base della cattiveria umana c’è la fragilità umana, cioè l’uomo non riesce a tradurre in pratica (cioè realizzare) i precetti morali, fa fatica ad obbedire alla legge morale, è fragile. E quando ci riesce a realizzarli, nelle buone azioni che può compiere c’è sempre un residuo egoistico, non riusciamo mai a sottomettere del tutto la nostra volontà alla legge razionale, ecco perché Kant nega che l’uomo sia capace di santità nella sua vita terrena. Quindi la sua azione morale è sempre caratterizzata da una certa impurità. All’interno delle sue azioni, che hanno tutta l’apparenza della moralità, sono sempre mescolate motivazioni di carattere egoistico, sensibile. Poi l’uomo è malvagio, cioè disobbedisce volontariamente alla legge morale, perché preferisce assecondare le proprie inclinazioni sensibili, fa il male volontariamente, non perché le nostre inclinazioni sensibili sono troppo forti e sono tali da spingerci necessariamente a sottostare ad esse, no. Noi possiamo opporci alle nostre inclinazioni sensibili, ma non lo vogliamo fare. Tuttavia è presente nell’uomo anche un’originaria disposizione al bene che può favorire un processo di conversione.
Cristo è secondo Kant il simbolo della conversione morale, della possibilità di rivolgersi al bene, abbandonando le proprie inclinazioni sensibili, dicendo no ai propri impulsi egoistici. Cristo come simbolo della perfezione morale a cui l’uomo aspira. Quindi per Kant Gesù non è tanto figlio di Dio o il Redentore, ma il simbolo della disposizione al bene che è presente nell’uomo. Anche in questo caso c’è un’interpretazione in chiave razionale delle verità della religione.

Contrasto tra chiesa invisibile e visibile

La chiesa invisibile è quella formata dalla comunità degli uomini giusti, che si sottomettono alla legge razionale del dovere, è una comunità governata da Dio, il legislatore morale onnipotente citato nella ragion pratica. La chiesa invisibile è insomma quel regno dei fini costituito da tutti i soggetti che sottomettono la loro volontà al dovere e così si rendono degni della benevolenza divina. Dio infatti ricompenserà i virtuosi rendendoli felici. Questa chiesa invisibile che non si vede perché ha a che fare con l'interiorità dell’individuo si oppone alla chiesa visibile, che è la chiesa come istituzione, fatta di riti, pratiche devote, gerarchie, dogmi, che deve modellarsi su quella invisibile. Perché ciò che conta è l’interiorità, non l’esteriorità.

Kant: diritto e politica

Il diritto, cioè la legalità ha a che fare con i comportamenti umani, le azioni che devono essere conformi alle leggi che esercitano una coazione (costrizione) esterna sui nostri comportamenti perché puniscono quelli non conformi ad esse.
La moralità, ci parla di una coazione interna, una costrizione esercitata dalla legge morale sugli impulsi sensibili, sulle motivazioni egoistiche dell’individuo.
Per Kant il diritto è la limitazione reciproca delle libertà individuali secondo una legge universale. Legge che afferma che la libertà di ognuno finisce dove inizia quella altrui, quindi il diritto consente la convivenza tra i singoli all’interno dello Stato. Non c’è diritto senza Stato. Infatti lo Stato emerge dalla condizione originaria che è la condizione naturale, caratterizzata dall’assenza dello Stato e dall’assenza delle leggi. Alla base dello Stato c’è un contratto. Kant fa sua la visione contrattualistica di Hobbes, Locke e Rousseau con una differenza: per Kant il contratto non è un fatto avvenuto storicamente, ma il contratto è un ideale regolativo: vale a dire chi governa deve governare come se le sue azioni necessitassero del consenso di tutti i cittadini. Chi governa deve avere l’approvazione dei propri sudditi. Perché il fondamento della sua autorità sta nel consenso dei cittadini. Quindi chi governa deve farlo come se fossero i cittadini a governare, non lui, perché il potere politico è al servizio dei cittadini. Quindi non importa che formalmente il potere sia gestito da un monarca, l’importante è che legiferi e governi come se fossero i suoi sudditi ad avergli conferito tale potere. Insomma Kant è un teorico della sovranità popolare come Rousseau.

Kant contro la Rivoluzione francese

Quando scoppia la rivoluzione Kant manifesta entusiasmo verso essa perché è una dimostrazione concreta del fatto che gli uomini possono cambiare il corso della storia, cioè alla base della storia c’è la libertà umana. Però Kant nega che un popolo possa ribellarsi a un potere legittimamente costituito. Non esiste un diritto alla ribellione da parte dei sudditi. Meno che mai esiste un dovere alla ribellione. Esiste invece un dovere all’obbedienza nei confronti del potere costituito. Potere costituito che però deve lasciare piena libertà di opinione ai propri sudditi. Non è il popolo che può costringere il sovrano a introdurre riforme nel proprio Stato. Le riforme devono essere attuate dal sovrano che però deve stare a sentire l’opinione pubblica. Quindi piena libertà di parola, opinione ed espressione. Mai diritto alla ribellione.
Inoltre Kant è molto critico nei confronti di Robespierre e dei giacobini. Secondo Kant, Robespierre, ha imposto la dittatura della minoranza sull’intera società francese. La dittatura di Robespierre è consistita proprio in questo: nella volontà di imporre all’intera nazione francese il punto di vista di un partito politico, di una minoranza politica, quella giacobina, che ha governato col terrore.
Lo Stato di Kant è uno Stato di diritto, cioè basato sul diritto, non all'arbitrio di chi sta al governo. Ed è uno stato liberale perché deve concedere ai propri cittadini la massima libertà possibile, la quale però deve essere compatibile con la libertà di tutti gli altri.

Kant e Federico II

Kant era una grande ammiratore di Federico II, però non sarebbe stato d’accordo con la concezione che dello Stato aveva Federico II, una concezione paternalistica, vale a dire: secondo Federico II il sovrano deve fare il bene, cioè la felicità dei propri sudditi, come farebbe un buon padre di famiglia nei confronti dei propri figli. Kant però non accetta questo discorso perché non accetta che i cittadini siano come dei figli rispetto al sovrano. Lo Stato non ha quale suo fine quello di realizzare la felicità dei cittadini, ma ha il compito di lasciar libero ciascuno, di seguire la propria strada nella vita, sempre però nel pieno rispetto delle leggi. Lo Stato insomma deve favorire l’autonomia dei singoli, la libertà dei singoli, ma questo è possibile solo all’interno di un quadro normativo, cioè di un sistema di leggi razionale.

Contro anarchismo e positivismo giuridico

Kant contro l’anarchismo, cioè contro quella filosofia politica che predica l’estinzione dello Stato. Se non ci fosse lo Stato non ci sarebbero le leggi, ci sarebbe l’anarchia cioè una condizione di totale disordine, in cui a prevalere sarebbe la legge del più forte, come accadeva nello Stato di natura.
Kant contro il positivismo giuridico, cioè contro la superiorità del diritto sulla morale, vale a dire: una legge non è giusta per il fatto stesso di esistere, ma una legge è giusta se è moralmente buona.

Filosofia della storia: l’insocievole socievolezza dell’uomo

Kant ci presenta la sua visione complessiva della storia, cioè la sua filosofia della storia. Infatti è importante distinguere la scienza della storia o storiografia, dalla filosofia della storia che è una visione complessiva e globale dei fenomeni storici. La scienza della storia si occupa di un determinato fenomeno storico riconducendolo alle cause che l’hanno prodotto. La filosofia della storia invece vuole indicare qual è il fine ultimo del processo storico considerato nel suo complesso. Ma allora la filosofia della storia non è una vera e propria scienza perché non utilizza la spiegazione causale ovvero deterministica che vale per tutti i fenomeni. La filosofia della storia si avvale invece di giudizi riflettenti, proprio come il giudizio estetico o il giudizio teleologico, i quali non hanno valore scientifico ma hanno un valore sentimentale, sono giudizi scientifici non interpretativi. Alla base della storia c’è però l’azione umana, un’azione umana che è come presa tra due tendenze opposte: alcuni ritengono che l’uomo sia un essere egoista (come Hobbes), altri che sia incline alla socievolezza (come Aristotele). Kant occupa una posizione intermedia: le azioni umane nella storia sono caratterizzate da questa duplice inclinazione dell’uomo ad essere egoista da un lato e socievole dall’altro. Kant parla, usando un ossimoro, di insocievole socievolezza dell’uomo. Però non sempre l’egoismo è qualcosa di negativo, infatti se non ci fosse l’egoismo, cioè la competizione tra i vari esseri umani, tutte quelle potenzialità che l’uomo racchiude dentro di sé, resterebbero inespresse, noi diamo il meglio quando dobbiamo competere con gli altri, quindi l‘egoismo in qualche modo ha prodotto anche il progresso dell’umanità. E qui ritorniamo al fine della storia: il fine della storia, ma questo è un giudizio riflettente, consiste nel pieno dispiegamento, nella piena realizzazione, di tutte le potenzialità dell’uomo. Il pieno sviluppo della libertà e razionalità umana. Questo è il fine ultimo della storia, a questo tende il processo storico. Questo sviluppo però riguarda l’umanità nel suo complesso, non tanto il singolo individuo. E giungerà a compimento nella creazione di una società perfettamente giusta in quanto governata dal diritto. Quando gli uomini avranno realizzato tutte le loro migliori potenzialità, allora tutto il mondo sarà come un’unica società governata dal fine ultimo della storia. E questo tema Kant dedica la più nota delle sue opere di taglio politico, lo scritto Sulla pace perpetua (1795). E’ un progetto filosofico, una sorta di utopia realizzabile. Kant si chiede: sarà mai possibile giungere a un futuro senza mai più guerre? Lui ritiene di sì, però a certe condizioni.

1)La pace perpetua, un mondo senza più guerre, si realizzerà solo dopo che sarà stato attuato un ordine giuridico mondiale, quando cioè sarà stato realizzato un diritto internazionale a cui tutti gli stati dovranno sottostare. Perché questo avvenga è necessario innanzitutto che la Costituzione di ogni Stato sia repubblicana, cioè basata sulla sovranità popolare. Solo a questa condizione non ci saranno più guerre. Quando cioè dovrà essere il popolo a decidere se entrare in guerra o no contro un altro Stato. E se a decidere sarà il popolo, esso si guarderà bene dal dichiarare guerra a un altro Stato, poiché è il popolo che dovrà andare a combattere questa guerra, non i governanti. Quindi se la decisione ultima spetterà al popolo, allora non vi saranno più guerre. Repubblicana fa proprio riferimento all’etimologia “res publica” = “cosa pubblica”: se lo Stato è cosa di tutti, allora non ci saranno più guerre.
2)Quando tutti gli Stati saranno repubblicani dovranno unirsi all'interno di una confederazione, ciascuno stato avrà la sua autonomia, però tutti obbediranno ad alcune leggi fondamentali. Un'unione di tutti gli Stati secondo alcuni principi fondamentali comuni, è la nascita del diritto internazionale di cui Kant è stato il primo ideatore.
3)Universale ospitalità: tutti hanno diritto di essere accolti in un Paese straniero. Tutti hanno il diritto di non essere accolti in maniera ostile dal Paese in cui si recano, però l’ospite non deve approfittare dell’ospitalità, cioè non deve, una volta ospitato all’estero, sconvolgere l’ordinamento politico e la struttura sociale del Paese ospitante.
Queste tre condizioni sono alla base di un futuro ordinamento politico basato sulla pace.

Domande da interrogazione

  1. Dove è nato Kant?
  2. Kant è nato a Königsberg, oggi Kaliningrad, enclave della Russia quindi è territorio Russo compreso tra Lituania e Polonia.

  3. Quali erano gli interessi di studio di Kant all'università?
  4. Kant prediligeva gli studi di fisica all'università di Königsberg.

  5. Cosa faceva Kant durante la sua routine quotidiana?
  6. Durante la sua routine quotidiana, Kant si alzava alle 05:00 del mattino, faceva colazione con del tè, fumava la pipa e meditava, poi scriveva, teneva lezioni all'università, pranzava, faceva una passeggiata, faceva visite ai suoi conoscenti, cenava, leggeva e si coricava.

  7. Quale era il numero ideale di commensali durante i pranzi di Kant?
  8. Kant preferiva avere tra 3 e 9 commensali durante i suoi pranzi, perché credeva che solo così ci potesse essere una conversazione ricca e fluente.

  9. Quali sono le domande che Kant cerca di rispondere con il suo criticismo?
  10. Kant cerca di rispondere a domande come: quali sono le condizioni di possibilità della conoscenza scientifica? Quali sono le condizioni di possibilità dell'agire morale? Quali sono le condizioni di possibilità dell'esperienza religiosa?

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