Concetti Chiave
- In Italy, the increasing number of immigrants, including families and children, highlights a shift towards a more permanent presence, necessitating policies focused on cultural integration rather than mere coexistence.
- The term "immigrants" is misleading for many as a significant portion of them are born in Italy, indicating the need for a more nuanced understanding of their identity beyond "second generations."
- Migration is driven by socio-economic conditions and conflicts in origin countries, with Italy becoming a key destination due to labor opportunities and family reunification, particularly from Morocco, Albania, and Romania.
- Minors, especially those unaccompanied or separated from their families, face significant psychological challenges, highlighting the need for social interventions to support their adaptation and integration.
- The Italian education system has embraced intercultural education, focusing on teaching Italian as a second language and maintaining cultural heritage, to better integrate foreign students and address their unique needs.
Indice
- Il fenomeno dell’immigrazione in Italia
- L'esplosione demografica dei paesi del Terzo Mondo
- Differenti realtà migratorie
- La migrazione dei minori: si può parlare di esperienza traumatica?
- Migrazione e crisi d’identità
- Le migrazioni richiedono organizzazione sociale e capacità d’intervento lungimirante
- Leggi italiane sull’immigrazione
Il fenomeno dell’immigrazione in Italia
La presenza in Italia di un consistente numero sia di immigrati singoli sia di vere e proprie realtà familiari, testimonia il fatto che il nostro Paese è posto nella seconda fascia del ciclo migratorio e che per molti versi si configura come un punto di arrivo sempre meno provvisorio per gli immigrati stessi.In Italia sono presenti circa due milioni e mezzo d’immigrati e di questi più del ventuno per cento è costituito da minori in età compresa tra gli zero e i diciotto anni.
Se in un primo momento, infatti, l’ondata migratoria verso il nostro Paese era costituita prevalentemente da uomini adulti, oggi si assiste da una parte all’arrivo dei figli dal paese d’origine, attraverso le procedure di ricongiungimento familiare, dall’altra alla loro nascita nel paese d’arrivo.
Tutto questo evidenzia una presenza sempre più stabile degli immigrati stranieri nel territorio italiano e porta inevitabilmente a riconsiderare una serie di esigenze alle quali è necessario che i servizi sociali sanitari ed educativi rispondano; ma soprattutto ci spinge a parlare sempre più dell’esigenza nel nostro paese di una politica, di un’educazione, di una didattica e di un atteggiamento sempre più rivolti al concetto di integrazione culturale.
Parlare di integrazione significa parlare di interculturalità e non di multiculturalità dove il secondo termine indica un modo di fare, un iter che porta alla coesistenza fredda e parallela di culture diverse che restano tali e distanti una dall’altra seppur reciprocamente rispettose, il secondo termine denota, invece, un processo di sincretismo, di incontro, di scambio e di unione a fini compensatori in modo tale che chi si trova in una terra diversa da quella d’origine abbia la possibilità di sentirsi a casa, possa, cioè, vivere la propria identità tra le identità altrui.
Il termine “immigranti”, inoltre, è, a mio avviso, fuorviante dal momento che circa la metà di loro è nata in Italia e conosce il paese d’origine solo indirettamente: definirli dunque “seconde generazioni” è errato e assegna loro un’etichetta rigida, quasi a voler sottolineare un’eredità che passa di padre in figlio e che finisce on il connotarne negativamente l’identità in maniera perenne.
Imprescindibile è inoltre considerare l’aspetto più specificamente psicologico ed emotivo del minore straniero che si trova, in Italia, ad affrontare tutta una serie di realtà influenzate dal pregiudizio e dallo stereotipo da cui, spesso, i docenti stessi e gli studenti italiani risultano essere dominati, in molti casi in modo inconsapevole. Allo stesso modo risulta necessario prendere in esame il disagio che incontrano anche tanti insegnanti in conseguenza di un atteggiamento errato da parte dell’istituzione stessa la quale frequentemente si trova a concepire ancora oggi, in contrasto con una giusta e declamata percezione della realtà, l’arrivo di un alunno straniero come un’emergenza, una situazione fuori dalla routine, laddove saprebbe opportuno un atteggiamento di accoglienza e interazione continuativo nell’arco di tutti gli anni scolastici.
Il bambino, in primis, e l’allievo, in secondo luogo, portatore di una cultura “altra” e perciò diversa, ha il diritto di vivere in mezzo agli altri la propria identità culturale e religiosa e per fare ciò deve essere considerato attraverso un decentramento dei punti di vista in modo tale che si rispetti anche la sua identità comportamentale, attitudinale, intellettuale. Per questo ritengo che gli insegnanti, per primi, debbano imparare ad affrontare e superare in tutta umiltà l’eventuale scoglio del pregiudizio e dello stereotipo, mettendosi in discussione e rendendosi disponibili a d apprendere un reale atteggiamento di apertura verso il prossimo.
La storia dell'uomo è da sempre una storia di spostamenti e di migrazioni, a volte per movimenti volontari a volte per bisogni di sopravvivenza: se ci voltiamo indietro ci rendiamo conto che i flussi migratori sono una costante della storia dell'umanità.
I processi migratori hanno sempre avuto origine nelle aree in cui l'economia risulta arretrata e dove l'evoluzione sociale rimane indietro. Le migrazioni riflettono, dunque, i mutamenti sociali in atto, i cambiamenti fisici ed economici dell'ambiente e la tendenza naturale degli uomini ad esplorare nuovi spazi.
Dagli inizi dell'età moderna sino alla seconda guerra mondiale le migrazioni andavano, per lo più, dall'Europa, che allora era al centro del sistema mondiale, alla periferia di tale sistema e cioè verso l'America, l'Africa e l' Asia. A partire dal '900, invece, avviene un significativo cambiamento: i flussi migratori iniziano a spostarsi dalla periferia verso l'Europa e verso l'America del Nord. Così l'Europa meridionale, con l'Italia in primo piano, diventa un'importante area di immigrazione.
La prima ondata di immigrati in Italia, diretti principalmente a Milano, Bologna e Roma, risale agli anni '20, quando diversi cinesi, che erano stati chiamati a lavorare in Francia durante la prima guerra mondiale, decisero di venire in Italia per lavorare come venditori di cravatte.
A questa prima fase ne segue una seconda tra gli anni '50 e '70: si trattava sempre di cinesi, che però si avviarono verso un altro mestiere, quello della lavorazione della "finta pelle": lo skai. Nascono, in questo modo, i primi quartieri cinese. Il rapporto con la scuola italiana, anche se problematico, viene già allora affrontato in un'ottica multiculturale attraverso corsi di insegnamento della lingua madre.
Molto significativo per l'Italia è il periodo che va dal 1985 al 1994, quando la popolazione straniera aumenta con un ritmo di 100.000 unità all'anno. Tale aumento dipende da diverse variabili:
L'esplosione demografica dei paesi del Terzo Mondo
la crisi economica che ha colpito moltissimi paesi in via di sviluppo negli anni '70 e negli anni '80;la crisi economica, ma anche politica dei paesi dell'Est tra gli anni '80 e '90.
Un momento significativo è rappresentato, nel 1993, dalla costituzione della Comunità Europea. A partire da tale data la popolazione di stranieri (gli extracomunitari) è aumentata ogni ogni anno 500.000 unità. Le migrazioni dai Paesi terzi negli stati dell'Unione Europea sono tra i fenomeni sociali più difficili da affrontare. Lo sviluppo economico dei Paesi ricchi, legato alla crescita intensiva delle nuove tecnologie e a quel complesso processo definito di globalizzazione, ha ulteriormente aggravato gli squilibri con i paesi in via di sviluppo, creando le premesse per l'accentuarsi dei flussi migratori.
Ma questa non è l’unica ragione alla base di questo fenomeno, spesso i motivi sono legati anche ai conflitti etnici e regionali, alle persecuzioni politiche e, più in generale, a condizioni che non solo
non garantiscono una buona qualità della vita, ma spesso neanche una soglia minima vitale. I fattori di spinta ( push-factor) e i fattori di attrazione (pull-factor) sono quindi determinati da fenomeni macrosociali che influenzano i legami tra le diverse aree del mondo.
In particolare le spinte espulsive sono costituite da situazioni economiche e sociali precarie, in alcuni casi aggravate da conflitti bellici o da regimi governativi dittatoriali. A questo si aggiunge la forte pressione demografica che si è verificata nella seconda metà degli anni ’90. Basta pensare che tra
il 1950 e il 1990 la popolazione mondiale è quasi raddoppiata e che tale aumento, là dove non è stato compensato da un corrispondente sviluppo economico, ha determinato un incremento del livello di povertà. E’ interessante sottolineare come già dieci anni fa Layard avesse pronosticato la migrazione dell’Est verso l’Ovest, migrazione a suo avviso dovuta alla differenza dei salari tra queste due aree: “Il flusso migratorio sarà direttamente proporzionale alla differenza di reddito e inversamente proporzionata alla resistenza”.
Le opportunità di lavoro, soprattutto nel settore terziario e le differenze retributive delle società occidentali costituiscono le spinte attrattive del processo migratorio.
In ultima analisi il comportamento migratorio scaturisce da un confronto fra le condizioni di partenza rispetto a quelle d’arrivo. Il fenomeno dell’immigrazione si delinea infatti come eterogeneo. Si assiste
ad una differenziazione sempre maggiore per quanto concerne non solo l’origine culturale, ma anche il livello sociale e il genere degli immigrati; oggi c’è una tendenza alla “femminilizzazione” del fenomeno, attestata dal numero sempre maggiore di presenze femminili straniere sul nostro territorio. L’aumento della componente femminile all’interno dei flussi migratori è dovuta principalmente a due processi: da una parte abbiamo la strada che è stata aperta con i ricongiungimenti
famigliari, e dall’altra troviamo le scelte di emigrare effettuate in prima persona.
Accanto alla differenziazione di genere dei flussi migratori e all’allargamento dello spazio geografico dovuto alla globalizzazione, si evidenzia in parallelo una diversificazione della durata della permanenza. Aumenta notevolmente l’emigrazione di tipo stabile, famiglie intere che decidono di fermarsi in Italia per un tempo indeterminato, che hanno progetti molto ben definiti per il futuro.
In questo contesto, l'arrivo dei figli dal paese d'origine, attraverso le procedure di ricongiungimento familiare, o la loro nascita nel paese d'arrivo, ha contribuito in modo significativo alla ridefinizione del progetto migratorio poiché è iniziata ad emergere la necessità di un inserimento meno marginale nella società e, in seno alle comunità immigrate di primo arrivo, sono nate nuove aspirazioni e aspettative per la “ riuscita sociale ” dei figli. Se tutto questo da un lato risponde ad un effettivo bisogno di ringiovanimento della nostra popolazione, dall'altro ci pone di fronte a sfide e riflessioni diverse, che vedono come “soggetto motorio” l' integrazione e più in particolare l' integrazione sociale.
Nove immigrati su dieci sono in Italia per lavoro o per ricongiungimento famigliare. Una novità in questo fenomeno migratorio è rappresentato proprio dai ricongiungimenti famigliari, che vedono saldamente in testa gli immigrati dal Marocco e dall’Albania (ciascuno con 13.000 visti), seguiti a quelli provenienti dalla Romania (8.000 visti), Cina (7.000 visti) e, infine, (3.000 visti), dall’India,
dall’Ucraina, dalla Serbia-Montenegro, dal Bangladesh e dalla Macedonia (Caritas,2005). La legge Bossi- Fini, l’ultima sanatoria avvenuta nell’2008, ha giocato un ruolo importante nel favorire il ricongiungimento degli immigrati con i loro figli, nella maggioranza minori, comportando di conseguenza il problema del loro inserimento nel sistema scolastico italiano.
Molto efficacemente, l’Italia ha preso in carico questo recente fenomeno migratorio, che configura un nuovo bisogno sociale e necessita di nuovi progetti e di nuovi strumenti di intervento. L’Italia ha scelto la piena integrazione di tutti nella scuola e, con una circolare, relativa a “La scuola d’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale”, ha introdotto per la prima volta il concetto di educazione interculturale.
In seguito con la legge n. 40/ 1998, ha posto particolare attenzione sugli aspetti organizzativi della scuola, in particolare relativi all’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, sulla formazione dei docenti e sul mantenimento della lingua e cultura d’origine.
La realtà scolastica italiana è molto eterogenea e, le risposte fornite a questo problema si sono articolate a partire dallo specifico bisogno del territorio. Nelle grandi città, dove il numero di minori stranieri è consistente, sono già stati avviati diversi progetti all’interno del sistema scolastico, mentre nelle piccole realtà provinciali si respira ancora un’aria di preoccupazione dovuta al fatto di non saper
come affrontare queste nuove esigenze. Ma come avvengono questi nuovi arrivi?
Le tipologie dei percorsi che portano i minori stranieri ad arrivare nel nostro paese sono diverse, e dietro ad ogni percorso si celano realtà differenti in termini di bisogni e problemi da affrontare.
Parlare di integrazione sociale significa concepire l'immigrazione come un fenomeno di lungo respiro, che attraverso varie generazioni e fasi, giunge ad una piena cittadinanza sociale basata sul rispetto reciproco tra culture diverse e sulla possibilità reale per l'immigrato di partecipare e contribuire attivamente alla vita della società in condizioni di parità rispetto agli autoctoni.
Il bambino e l'adolescente straniero costituiscono il momento più avanzato del processo di confronto culturale dell'intera famiglia nella società, poiché sono proprio loro ad avere il primo contatto con le istituzioni e con i primi luoghi di socializzazione.
I servizi sociali, le scuole, i tribunali, gli ospedali, ma anche la stessa società civile si trovano improvvisamente a dover gestire e a convivere con una nuova figura, un nuovo cittadino, una nuova persona: il minore straniero. La stessa definizione del termine appare complessa e ricca di ambiguità: solitamente viene utilizzato il termine “minore straniero” perché termine “neutro”, che rimanda alla situazione giuridica, piuttosto che alla storia diretta o familiare di migrazione.
Sarebbe improprio definirli “immigrati” dal momento che circa la metà di loro è nata in Italia e conosce il paese d'origine solo indirettamente, d'altra parte, definirli “seconde generazioni” assegna loro un'etichetta rigida, quasi a sottolineare un'eredità che passa di padre in figlio e che sembra connotare l'identità in maniera perenne.
Con questa breve distinzione di termini non voglio spiegare quale sia quello più o meno appropriato, ma fornire la dimostrazione di quanto sia complessa ed eterogenea la figura del minore straniero e di quante realtà siano nascoste dietro quel termine. Questo pone anche delle difficoltà nei proponimenti d'integrazione dello stesso. Ogni minore ha un mondo alle spalle, una situazione diversa da caso a caso, un percorso migratorio diretto o indiretto, vissuto, subìto o semplicemente respirato in famiglia per essere figlio d'immigrati.
Differenti realtà migratorie
Il fenomeno dell’immigrazione è ormai un dato consolidato nel nostro paese, ma è la presenza estremamente elevata dei minori, soprattutto nelle grandi città, che disegna un nuovo quadro della situazione.La realtà dei minori immigrati non è omogenea, al suo interno possiamo trovare varie tipologie di soggetti con storie e biografie molto diverse tra loro, che giungono in Italia per motivi e attraverso percorsi differenti. All’interno di questogruppo eterogeneo possiamo distinguere diverse categorie. La prima riguarda i ragazzi che si sono ricongiunti con la famiglia in seguito alla legge Bossi- Fini, ultima sanatoria del 2002. Tali soggetti vengono definiti “ generazione uno e mezzo”, termine che ben dipinge la condizione di una vita sospesa tra diversi riferimenti, a metà strada fra il contesto d’origine e il luogo di accoglienza.
Questi adolescenti hanno vissuto in prima persona il viaggio di migrazione, portando con sé memorie e nostalgie. In questa situazione un elemento importante da prendere in considerazione è la distanza temporale tra la migrazione dei genitori e quella dei figli: se la distanza nel tempo è minima non si crea una situazione di particolare disagio, soprattutto se la separazione è avvenuta da un solo genitore, mentre l’altro ha continuato a fornire un senso di continuità alla vita familiare. Difficile è invece la situazione in cui i ragazzi rimangono per un lungo periodo insieme ai nonni, che diventano i “genitori affettivi”, per poi essere sottratti improvvisamente e portati via dai genitori naturali. Tale situazione è ancora più problematica nei casi in cui l’allontanamento dei genitori sia avvenuto nei
primi mesi di vita del bambino. Questi ragazzi infatti subiscono un trauma iniziale difficilmente quantificabile, in un momento evolutivo in cui si dovrebbe costruire una efficacia relazione con la figura di attaccamento.
A questo primo strappo se ne aggiunge un secondo, questa volta dalla famiglia che li ha cresciuti. “L’adozione” da parte dei genitori biologici può infatti costituire un ulteriore esperienza traumatica, e come se tutto questo non fosse abbastanza, a tutte le difficili richieste di adattamento alla nuova vita famigliare e alnuovo contesto sociale, si aggiunge anche la necessità di adattarsi ad un nuovo sistema scolastico. Una quantità spropositata di richieste in un momento di così difficile riorganizzazione su diversi piani, affettivo, cognitivo e sociale. Si tratta di una situazione che comporta una condizione di altissimo rischio per lo sviluppo e quasi tutti i bambini che vivono una tale esperienza vanno incontro
a una profonda sofferenza e ad un conseguente disagio psicologico. E’ evidente che il miglior intervento cui si potrebbe auspicare è rappresentato dalla prevenzione di questa separazione, ma si tratta di un obiettivo utopico, per nulla facile da raggiungere. Quello che invece si può fare è strutturare un intervento ditipo sociale, rivolto sia ai genitori che alla scuola, finalizzato a sostenere il minore in questa difficile fase di adattamento.
Una seconda categoria comprende i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri: si tratta della cosiddetta “seconda generazione”. Da un punto di vista quantitativo questo gruppo ha dimensioni ridotte, vista la stabilità piuttosto recente degli immigrati nel nostro paese. Si tratta di ragazzi che dal punto di vista giuridico sono stranieri fino alla maggiore età, ma di fatto sono italiani, dal momento che il loro percorso di crescita e di socializzazione, di acquisizione linguistica e di acculturazione avviene dentro gli spazi educativi del paese di accoglienza. Questi ragazzi non hanno vissuto direttamente la migrazione, il viaggio e la fase di sradicamento e di successivo riorientamento nel nuovo contesto; alcuni di loro hannofatto raramente conoscenza del loro paese d’origine e dei contesti di provenienza della famiglia. Questa è senz’altro una condizione più favorevole, rispetto alla precedente. Questi adolescenti infatti non hanno subìto traumi di separazione e di dislocazione spaziale, ma, nonostante questo, soffrono di “ discontinuità culturale”, in quanto sono “diversi”, sia nel contesto famigliare che in quello scolastico e sociale, in quanto ricevono indicazioni, regole e valori contrastanti.
Questi ragazzi diventano, spesso, di fatto, dei veri mediatori culturali e linguistici tra la famiglia che mantiene ancora le tradizioni e i valori culturali del paese d’origine, e la cultura del paese d’accoglienza che il ragazzo fa sua. Si tratta di un compito non facile da gestire, vista l’asimmetria nella relazione tra il ragazzo e i suoi genitori. All’interno della famiglia si possono così determinare una serie di dinamiche interattive assai complesse dove le asimmetrie possono anche evolversi in direzione inversa rispetto a quella originaria. I genitori, i quali hanno più difficoltà ad adattasi al nuovo ambiente e ad imparare la nuova lingua, si trovano ad apprendere e ad essere corretti dai loro figli, ricevendo da questi degli insegnamenti che possono riguardare appunto la lingua, gli usi e i costumi della nuova comunità che li accoglie. Molti genitori impediscono ai loro figli di evolvere in questa asimmetria relazionale perché non sono in grado di “mettere in crisi” le loro certezze e vivono questa “differenza” con i loro figli come una frattura, una perdita dei valori del proprio paese.
Una terza categoria è quella che dei minori stranieri non accompagnati, fenomeno che solo recentemente ha ricevuto attenzione in ambito scientifico e che è in costante aumento non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Si tratta di minori che arrivano da soli, privi del sostegno di figure genitoriali, oppure di adulti che possano fare le veci dei genitori. La situazione italiana si differenzia da quella degli altri paesi europei per il fatto che i minori richiedenti asilo o per i quali sono previste misure di protezione temporanea sono pochi, mentre prevale quella realtà più problematica che coinvolge i ragazzi maschi con un età superiore ai 14 anni, che arrivano per mezzo della malavita organizzata. Sono i più segnati da esperienze dolorose, da traumi, da sofferenze quotidiane e nella maggior parte dei casi si trovano costretti a mendicare, a spacciare droga, a prostituirsi o a essere coinvolti nella criminalità.
Un’ultima categoria riguarda i figli delle coppie miste, ovvero quelli facenti parte delle famiglie formate da persone straniere che si sposano o convivono con cittadini italiani. Si tratta in questo caso di minori provenienti da una situazione famigliare problematica (monoparentale, oppure segnata da una separazione fra i genitori), che conoscono un “prima”, rappresentato da un percorso doloroso segnato da separazioni sia dalle persone care che dal contesto in cui sono cresciuti, e un “dopo”, dove, oltre alle problematiche connesse all’inserimento sociale e scolastico devono affrontare anche le difficoltà che scaturiscono dalle dinamiche inerenti la ricostruzione famigliare. Famiglie miste quindi, con situazioni complesse, modelli famigliari diversi che a volte si trovano in grande contrasto e tensioni, in cui il minore si trova spesso a vivere con grande disagio.
Oltre a quelle sopra descritte, esistono altre due tipologie di minori stranieri che giungono in Italia, di cui spesso non ci si preoccupa perché vengono immediatamente considerati italiani, anche se di fatto non lo sono. Questi bambini vivono problematiche non dissimili a quelle dei figli di immigrati.
La prima di queste tipologie comprende i ragazzi che arrivano in Italia per adozione internazionale, portatori di una sofferenza psichica di notevole entità, legata alla loro precedente storia di vita e alle condizioni che hanno portato al loro stato di adottabilità. Il secondo gruppo è rappresentato dai minori rom, spesso con cittadinanza italiana, poiché nati e cresciuti in Italia. Si tratta, in questo caso, di un gruppo difficile da raggiungere da parte dell’assistenza medica e sociale, ma formato da soggetti che possono presentare un buon equilibrio psicologico all’interno della propria comunità.
Le tipologie fino ad ora descritte non sono mutuamente escludenti, in alcune situazioni possiamo trovare ragazzi che appartengono a più di una tipologia (un minore non accompagnato che chiede asilo, un minore rom profugo di guerra).
Inoltre, alcune delle tipologie elencate comprendono minori che non potrebbero essere definiti a buon diritto né “immigrati”, né “stranieri”, come ad esempio i minori nati in Italia da genitori immigrati, oppure i nati in Italia o all’estero figli di uno o di entrambi genitori cittadini italiani (mi riferisco ai ragazzi rom oppure i ragazzi che hanno acquisito la cittadinanza italiana). Ci sembra tuttavia opportuno includere anche queste tipologie di minori nella macrocategoria dei “minori stranieri” perché si tratta per lo più di soggetti accomunati da una serie di problematiche che vanno da condizioni di marginalità sociale a difficoltà di inserimento scolastico, dall’essere esposti a discriminazioni e pregiudizi all’incontrare difficoltà di apprendimento della lingua italiana in quanto lingua seconda, ecc...
C’è da tener presente, inoltre che, nella maggioranza dei casi, è un adulto che decide della migrazione di un minore; magari si tratta di una decisione necessaria e comunque pensata per il suo bene, per assicurargli un futuro migliore, ma non è mai un progetto che il ragazzo elabora in prima persona. Per lui la migrazione può rappresentare un vero e proprio distacco traumatico da quello che era il suo universo famigliare e sociale. Questo fa capire l’importanza di poter contare su solide figure di riferimento nel nuovo ambiente, la famiglia in primis (dove c’è), l’ambiente scolastico e non ultimo come importanza le istituzioni sul territorio.
Si fa spazio così una grande richiesta sociale dove il ruolo della scuola appare cruciale, non solo per la sua funzione educativa, ma anche perché rappresenta in molti casi per il minore il primo luogo dell’incontro e di confronto con la differenza.
La migrazione dei minori: si può parlare di esperienza traumatica?
Sentimenti nostalgici e vissuti di perdita accompagnano spesso il viaggio di migrazione dei bambini e dei ragazzi nel paese d'accoglienza; sono più acuti nelle fasi iniziali dell'arrivo e sfumano con il tempo per lasciare il posto ai ricordi e alle immagini confuse della memoria. Sono viaggiatori non per scelta, che si trovano spesso catapultati in una parte del mondo all'improvviso e spesso senza che vi sia una preparazione al distacco.Una generazione involontaria che, nei paesi europei, è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, rendendo il fenomeno di difficile gestione. La precarietà, la condizione psicologica e sociale del minore immigrato o di origine straniera sono tratti che sembrano intrinsecamente connessi al fatto che questi soggetti sono come ingabbiati da una scelta subita, o meglio, coinvolti negli esiti di una scelta che essi, proprio in quanto minori, hanno subito più di altri soggetti.
I minori immigrati si trovano coinvolti in molteplici passaggi: dal paese di origine a quello che li ospita, dalla cultura familiare a quella della scuola, dal mon-do interno della dimora a quello esterno, dai suoni familiari e affettivi della lingua madre alle parole indecifrabili della seconda lingua.
Gli studi psicologici, psichiatrici e sociologici hanno mostrato gli effetti traumatici prodotti dall'immigrazione nei minori che ne sono, più o meno direttamente, protagonisti. Si sono voluti mettere particolarmente in luce gli effetti che permangono anche dopo il passaggio dalla prima alla seconda generazione. Si è parlato di separazione, di elaborazione del lutto e di processi di rimodellamento identitario, ponendo l'accento sul clima di conflitto interetnico e interculturale in
cui essi avvengono. Questi studi hanno anche evidenziato gli aspetti per così dire "positivi" dell'immigrazione, intesa come evento che mette alla prova le capacità degli individui di superare i traumi che ogni cambiamento, ogni "momento di passaggio" inevitabilmente comporta.
Negli studi sulla migrazione infantile, viene utilizzato di frequente il concetto della vulnerabilità declinandolo in maniera specifica di analisi di caso e consultazioni psicologiche ed etnopsichiatriche. La vulnerabilità starebbe ad indicare uno stato di minore resistenza a fattori nocivi ed aggressivi; è un concetto dinamico poiché riguarda il processo di sviluppo del minore. Una variazione, interna o esterna, del funzionamento psichico del bambino vulnerabile è tale da provocare una significativa disfunzione, un dolore intenso, un arresto o uno sviluppo minimo delle sue potenzialità. Questa fragilità si manifesta sul piano psicologico attraverso sensibilità o debolezze, reali o latenti, immediate o differite, stagnanti o esplosive. Il concetto di vulnerabilità sta ad indicare un rischio, ma anche una possibilità, sottolineando la responsabilità e il ruolo della famiglia e dei servizi nel creare le condizioni che prevengano ed attenuino tale rischio. Questo termine non può essere compreso appieno se non viene messo a confronto con il suo opposto, la resilienza, che indica proprio la capacità di resistere, di difendersi, e di reagire.
Alcuni bambini sembrano sviluppare risorse interne straordinarie per far fronte ad eventi e sfide imprevisti; hanno la capacità di attraversare eventi importanti e cambiamenti profondi mobilitando risorse per non farsi sommergere dalle difficoltà.
Le migrazioni dei bambini e dei ragazzi si traduce per molti in un evento faticoso che segna in maniera profonda la loro storia e l'identità personale. I cambiamenti sono molteplici ed improvvisi, le fratture laceranti ed inevitabili, i compiti ai quali devono far fronte nel paese d'accoglienza appaiono in un primo tempo ardui e al di fuori della loro portata. La migrazione è per tutti un evento cruciale, da non sottovalutare, da preparare con cura, poiché segna l'avvio di un nuovo capitolo nella storia familiare e l'inizio del nuovo viaggio nel mondo che li accoglie. Viaggio da sostenere nelle sue tappe, da facilitare nelle conquiste e da aiutare nelle soste, poiché comporta per i minori che ne sono coinvolti fatiche aggiuntive, ostacoli e sfide da superare.
È opportuno a questo punto valutare quelli che rappresentano i potenziali ostacoli all’integrazione. I fattori che possono creare ostacoli all'integrazione sono numerosi, tra cui il principale e più influente, è quello della condizione di clandestinità. Ad esso sono associate conseguenze di grave portata, come le precarie e inadeguate condizioni alloggiative, la povertà, la scarsa attenzione per la salute, nonché l'insufficiente o nulla affluenza scolastica. In conseguenza della situazione di irregolarità, nonché delle precarie condizioni economiche, le famiglie cambiano spesso la loro abitazione creando forti disgregazioni all'interno di tutto il nucleo familiare, e in particolare ai figli. La regolarizzazione diventa il punto di partenza per proseguire nel percorso d'integrazione, sia per gli adulti, che per i
minori.
Solo a titolo di esemplificazione cito il caso emblematico dei minori che giungono in Italia soli (minori non accompagnati), privi di permesso di soggiorno, e privi di una qualsiasi figura di riferimento. Questi ragazzi, che partono con un percorso di clandestinità, vivono in una condizione di precarietà estrema. In loro si è visto come è più difficile instaurare dei processi d'integrazione a lungo termine. Un altro fattore importante è la discriminazione che relega il minore immigrato in una specifica condizione di svantaggio, che va distinta da quella di altre categorie di minori "a rischio", anch'essi svantaggiati ma non "diversi" per la loro origine etnica o di immigrazione. La diversità dovuta all'origine può certo sommarsi, come spesso avviene, allo svantaggio socioeconomico ma permane come stigma che, in quanto tale, conferisce un carattere specifico alla condizione del minore immigrato.
Oltre all'ostilità di un contesto inospitale e al relativo clima di conflitto e violenza - esiti tipici delle pratiche discriminatorie - bisogna poi tener conto di un altro aspetto, per così dire "soggettivo", potenziale rischio di non integrazione del minore immigrato.
È noto come l'origine immigrata o l'appartenenza a una minoranza etnica si associno a maggiori difficoltà nel dare pieno e libero sviluppo alle "capacità" del minore. Ne sono esempi emblematici: l'influenza delle barriere linguistiche e culturali; l'azione negativa di stereotipi e pregiudizi su base etnica e razziale; la non condivisione con i valori delle componenti sociali maggioritarie. Esempi peraltro supportati dalle evidenze statistiche che mostrano le difficoltà scolastiche cui questi soggetti vanno incontro; oppure la loro minore rappresentanza nelle posizioni di maggior rilievo in ambito lavorativo, artistico o, comunque, nelle professioni per le quali è richiesto un più alto grado di formazione.
Anche da questo punto di vista, il portato di diversità culturale - seppure, per altri versi, rappresenti una ricchezza - si traduce in una sorta di handicap (in rapporto ai livelli di performance imposti dal contesto ospite o maggioritario) che caratterizza in modo specifico i minori immigrati (rispetto ad altre categorie di soggetti) e configura ulteriori elementi di difficoltà e svantaggio per poter raggiungere quel grado d'inserimento auspicabile in una società democratica fondata sul rispetto
dei diritti.
Migrazione e crisi d’identità
La migrazione è un cambiamento di tale entità che può mettere in difficoltà l’identità di ciascuno di noi.Determina una scomparsa massiccia di riferimenti oggettuali, come la casa, una perdita di abitudini, di ricordi, di affetti, di tradizioni, che rimangono nella terra d’origine. Tutto questo materiale perduto, che fa parte del senso della propria identità, può dare origine a fantasie inconsce e a sensi di colpa relativi al paese che si è dovuto abbandonare.
Parallelamente il paese d’arrivo può essere vissuto in modo idealizzato, come magico e seduttivo, oppure, al contrario, sentito come un’entità persecutoria. Migrare è un esperienza difficile, e ancora di più lo è in adolescenza perché comporta il dover affrontare sfide ed esperienze nuove in un momento del percorso evolutivo già di per sé complesso.
L’adolescenza è un periodo caratterizzato da bruschi cambiamenti: si trasformano l’aspetto fisico, i modi di pensare e di relazionarsi, per cui, in questo momento, assume particolare rilevanza poter contare su quei punti di riferimento che la società, la cultura e la famiglia normalmente assicurano, fornendo quel senso di stabilità necessario per la costruzione dell’identità. Questi punti di riferimento nell’esperienza dell’immigrazione vengono perduti, determinando grosse difficoltà a mantenere la stabilità emotiva. Per definizione l’adolescenza è sospesa fra due mondi, quello dell’infanzia e quello dell’età adulta: l’adolescente che vive l’esperienza della migrazione si trova a dover ricominciare tutto da capo in un momento in cui dovrebbe impegnarsi nella costruzione della propria identità. Le difficoltà più grandi le incontrano i giovani immigrati che hanno vissuto la prima infanzia nel paese d’origine e che si trovano implicati nel confronto tra le due culture.
La migrazione porta con sé una regressione forzata, all’improvviso niente più di quello che si è appreso ha valore, non si sa più parlare, non si conoscono più gli ambienti di vita, non si sa più come esprimere diversi stati d’animo, bisogni, scherzi, ironie, provocazioni. Perdere la propria identità culturale in un momento in cui si cerca identità personale, porta ad una terrificante sensazione di smarrimento, non si ha più un punto di partenza e non si sa più dove andare. Questo nuovo mondo, opaco e sconosciuto, conduce ad un profondo senso di incapacità e di inadeguatezza. Troppe frustrazioni, troppe paure che possono portare, in alcuni casi, ad angoscianti chiusure o isolamenti. L’adolescenza rappresenta per il ragazzo immigrato un periodo di particolare vulnerabilità, in quanto i fattori di rischio connessi a tale esperienza e le condizioni socioeconomiche difficili hanno effetti cumulativi.
Come suggerisce Mirski, ci sono evidenti somiglianze tra migrazione e adolescenza. Questi due processi sono accomunati infatti dagli aspetti traumatici che comportano, come per esempio la perdita delle proprie radici. “Partire è un po’ come morire”, afferma un detto italiano, la sfida è “come far diventare questo cambiamento una seconda nascita e non una morte?” In questa fase così delicata in cui necessariamente si perdono delle parti di sé, bisogna permettere ad altre di modificarsi, ma soprattutto, bisogna permettere ad altre parti di sopravvivere. Una piccola base da cui partire è indispensabile, un punto fermo a cui aggrapparsi per non perdere l’equilibrio psicologico.
Frasi del tipo: ”non ci pensare più al passato”, “ora qui va cambiato tutto”, “guardiamo solo al futuro”, non facilitano un adeguato processo di integrazione, determinando solo una sovrapposizione di stili di vita basata sulla negazione del passato che non porta ad una reale integrazione delle diversi parti di sé. In questa condizione di fragilità possiamo incontrare una serie sintomi che includono ansia, paura, disperazione, e diversi disturbi di adattamento soprattutto di tipo comportamentale.
Un punto di riferimento utile per affrontare il confronto con identità culturali diverse, è l’identità etnica, e partendo da qui, l’adolescente mette in atto diverse strategie di adattamento: la resistenza culturale, l’assimilazione, la marginalità, la doppia eticità. La resistenza culturale permette il mantenimento di una base sicura, che consente una maggiore stima di sé attraverso il rafforzamento dell’identità originaria. Tra i comportamenti manifesti messi in atto troviamo la formazione di sottogruppi di connazionali, il riferirsi esclusivamente ai valori di appartenenza etnica, l’isolamento.
L’isolamento funge da meccanismo di protezione contro l’interiorizzazione di stereotipi negativi, mantenendo un concetto positivo di sé che può essere svalutato o perduto nel confronto con altri gruppi. L’assimilazione permette all’adolescente di conformarsi alla nuova identità che la società ospitante gli offre, rinnegando la cultura d’origine.
Questo processo porta alla perdita totale di punti di riferimento e di conseguenza ad un aumento dell’insicurezza. Ci sono però adolescenti che di fronte ad una scelta di appartenere ad una o ad altra cultura, non si sentono in grado di prendere una decisione attivando così un processo di marginalità. Questa scelta ha però un tempo di breve durata, è più che altro un passaggio che conduce da un’identità già costituita ad una nuova.
La doppia identità è una strategia che permette, da una parte, di mantenere la propria tradizione etnica, e dall’altra, di creare un contatto con la cultura di accoglienza, e attraverso un processo di confronti, di selezioni e di adeguamenti si costruisce un doppio senso di appartenenza. Per l’adolescente straniero, come per tutti gli stranieri, l’integrazione dei vecchi e dei nuovi modelli culturali implica dunque un difficile lavoro cognitivo e affettivo e, come abbiamo visto, diverse
possono essere le strategie da mettere in atto.
Ma quali sono i bisogni sottostanti che guidano le diverse strategie di adattamento nella ricostruzione dell’identità dei giovani immigrati? Il processo identitario passa attraverso diversi momenti di crisi e di revisione, attraverso una serie di fasi psicosociali che vanno dalla fiducia primaria, all’autonomia, all’iniziativa e all’apertura verso l’ambiente circostante. Nel 1997, Portera ha condotto una serie di ricerche per indagare sulle condizioni psicosociali degli adolescenti in un nuovo contesto multiculturale. Sulla base di questi studi e in riferimento agli studi di Erikson, egli ha individuato alcuni fattori essenziali per lo sviluppo della personalità, definiti come bisogni dello sviluppo umano sottostanti a un processo dinamico tra l’individuo e l’ambiente.
Riscontriamo tra questi:
- il bisogno di rapporti sociali e di appartenenza, ossia di sentirsi far parte di un determinato gruppo di individui;
- il bisogno di attenzione emotiva positiva, ovvero di essere accettato a prescindere dalla, lingua, dalla cittadinanza o dal colore dalla pelle;
- il bisogno di attaccamento, cioè di legami con persone di riferimento primario;
- il bisogno di separazione, non più visto come una perdita ma come un’opportunità di crescita;
- il bisogno di partecipazione attiva, che introduce la probabilità di avere un
influenza sul mondo in cui si vive.
Gli studi di Portera sono importanti per due ordini di motivi. In primo luogo perché mostrano quelle che sono le somiglianze tra gli immigrati e la popolazione autoctona, ovvero quelli che sono i bisogni dello sviluppo umano che vanno oltre le differenze culturali o fisiche.
In secondo luogo perché evidenziano che la differenza principale sta nelle strategie che possiede la popolazione immigrata, che spesso sono inadeguate a far fronte al nuovo ambiente. E’ necessario dunque un lungo periodo di elaborazione, che possa permettere alla persona di ritrovare la stima di se stessa e nella migliore delle ipotesi, sviluppare anche un senso di appartenenza. Questo aspetto è importante non solo per i ragazzi stranieri ma anche per gli autoctoni. Pensiamo ad esempio a quanto
possa essere importante, all’interno della scuola, un’adeguata educazione inter-culturale che insegni ai ragazzi la possibilità di una sana convivenza tra culture diverse del mondo, il rispetto e la solidarietà grazie all’incontro con l’altro.
Imparare a vivere insieme, con le nostre diversità e con le nostre somiglianze, vuol dire dare elasticità e libertà di trasformazione alla nostra mente. Accettare l’altro è anche accettare noi stessi.
L’immigrazione è una realtà sociale che pone problemi di vario tipo all’Europa, ma ancor più all’Italia, per lunghi decenni paese di emigrazione. Il giusto approccio, per un’Italia aperta, è quello basato sul rispetto dei diritti e della dignità degli immigrati, come fanno sperare gli accenni ad un approccio unitario, regolamentato e solidale che da più parti viene richiesto a livello europeo.
Le migrazioni richiedono organizzazione sociale e capacità d’intervento lungimirante
e non strumentale e devono essere affrontate globalmente per il bene di tutti, prima ancora che per motivi di solidarietà.A dirla con le parole di Mall: “più che essere cercata, l’interculturalità ci è venuta incontro”. Oggi infatti gli incontri e le mescolanze tra culture si verificano con una misura incomparabilmente maggiore rispetto alle epoche precedenti. Si fa così spazio la necessità di una nuova base teorica, di un passaggio che possa aiutarci nella progettazione di nuovi strumenti per facilitare l’integrazione.Si tratta di un compito che riguarda tutte le scienze umanistiche e la psicologia del nuovo millennio è senza dubbio una di quelle che maggiormente si deve impegnare a mettere a punto strumenti utili al trattamento di queste problematiche.
La sfida è molto grande, e come punto di partenza comporta un primo passaggio teorico e pragmatico in grado di trasformare una società multiculturale in una
società interculturale.
Leggi italiane sull’immigrazione
Uno sguardo alle principali modifiche apportate dalla nuova legge su immigrazione e asilo n. 189/2002 Le recenti modifiche alla legge 40 del 1998 dimostrano come, nonostante sia urgente una normativa adeguata che possa facilitare il percorso d'integrazione degli immigrati entranti e già presenti sul territorio italiano, tali emendamenti rischiano di rendere sempre più precaria la presenza del cittadino straniero in Italia.Per avere un riferimento normativo, quasi d'obbligo se si vuole inquadrare il modello d'integrazione nel nostro Paese, vediamo brevemente quali sono le modifiche apportate dalla nuova legge n. 189 del 2002. Una prima modifica consiste nell'ideazione di una nuova terminologia legata al permesso di soggiorno, che viene definito ora “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”. Questo prevede, come la precedente legge, il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno sulla base di un contratto di lavoro.
Un'altra novità all'interno di tale clausola specifica l'obbligo da parte del datore di lavoro, che intenda assumere un lavoratore extracomunitario residente all'estero, di sobbarcarsi l'impegno del pagamento delle spese di rientro nel paese di provenienza, rendendo così meno appetibile l'assunzione di lavoratori extracomunitari.
Il permesso di soggiorno verrà poi rinnovato, se ne sussistono i requisiti, per una durata massima non superiore a quella stabilita col rilascio iniziale e non più per una durata pari al doppio di quello precedente. Questi emendamenti rendono precario il soggiorno dei regolari.
La nuova legge prevede inoltre la raccolta dei rilievi fotodattiloscopici dei cittadini extracomunitari nei casi di richiesta e rinnovo del permesso di soggiorno e rende operativa, nella quasi totalità dei casi, l'espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera riservando l'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni a casi circoscritti (ex. cittadino straniero fermato con un permesso di soggiorno scaduto da più di 60 g .).
Il periodo di divieto al reingresso passa da 5 a 10 anni con facoltà dell'autorità amministrativa di disporre discrezionalmente un'eventuale riduzione del periodo di rientro. Viene poi allungato il periodo di detenzione nei Centri di Permanenza Temporanea da 30 a 60 giorni, quando contemporaneamente non si incentivano gli accordi di riammissione con gli Stati di provenienza per accelerare l'espletamento degli accertamenti d'identità e il rilascio dei documenti di viaggio da parte delle autorità diplomatiche del paese d'origine dello straniero espulso.
Il trattenimento in questo caso risulta vano se non si trovano le vie di collaborazione con le autorità diplomatiche straniere, in grado di svolgere un ruolo chiave nel dare certezza all'identità dello straniero espulso, requisito essenziale per poter rinviare lo stesso nel paese di effettiva provenienza.
Per quanto concerne le disposizioni per il ricongiungimento familiare, vengono poste restrizioni con l'abrogazione dell'articolo della vecchia normativa per cui erano dichiarati come aventi diritto al ricongiungimento familiare i parenti (tutti) a carico entro il terzo grado, inabili al lavoro secondo la legislazione italiana.
L'abrogazione di tale articolo si pone in netto contrasto con la proposta di direttiva della Commissione Europea che consente invece il ricongiungimento anche a tale categoria. Il campo viene ristretto ai soli figli maggiorenni a carico che non possono provvedere al proprio sostentamento a causa del loro status di salute che comporti invalidità totale.
Si escludono anche dalla possibilità di ricongiungimento i genitori a carico che hanno altri figli.
Inoltre si impone al familiare presente in Italia di includere nella documentazione da presentare in Questura, per l'ottenimento del nulla-osta, la documentazione attestante i rapporti di parentela, coniugio e minore età, autenticata dall'autorità diplomatica italiana.
La Legge 40/1998 prevedeva invece che tale documentazione dovesse essere allegata alla domanda di visto d'ingresso e fosse di competenza del solo consolato italiano. L'emendamento introdotto comporta un consistente allungamento dei tempi per i ricongiungimenti familiari e un notevole aggravio della procedura per l'ottenimento del nulla-osta. Viene abrogato l'articolo relativo alla procedura della “prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro”, le cosiddette “sponsorizzazioni”, che rende minore la possibilità di ingresso legale in Italia per lavoro e annulla l'opportunità d'incontro diretto tra domanda e offerta sul mercato, condizione fondamentale per l'instaurarsi di rapporti fiduciari tra lavoratore e datore di lavoro.
La nuova normativa restringe inoltre l'accesso all'edilizia residenziale pubblica con l'abrogazione dell'articolo che dava la possibilità alle Regioni di concedere contributi a Comuni, Province, Consorzi di comuni o Enti morali pubblici e privati per opere di risanamento igienico-sanitario di alloggi di loro proprietà o di loro disponibilità legale, da destinare ad abitazioni di stranieri titolari di carta o permesso di soggiorno.
Il nuovo articolo 63 prevede che “hanno diritto all'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, a parità con i cittadini italiani, gli stranieri titolari di carta di soggiorno e quelli regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale, che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o autonomo”. Ciò significa che non potranno più accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica coloro che sono iscritti al collocamento e nulla è dato di sapere su cosa possa succedere nel caso in cui un cittadino extracomunitario, titolare di un contratto di locazione presso una di queste strutture, perda il posto di lavoro o si dimetta. A fronte di queste osservazioni, non si può fare a meno di notare che sebbene l'obiettivo principale della nuova legge è quello di incrementare la prevenzione e la repressione dell'immigrazione illegale, sostanziali modifiche apportate a numerosi articoli della Legge 40/1998 rendono più precaria la presenza dello straniero già presente regolarmente sul territorio, mettendo in crisi il concetto d'integrazione sociale fondamentale per l'inserimento delle seconde generazioni d'immigrati.
Domande da interrogazione
- Qual è il numero approssimativo di immigrati presenti in Italia e quale percentuale di questi è costituita da minori?
- Come si è evoluto il fenomeno dell'immigrazione in Italia nel corso degli anni?
- Qual è la differenza tra interculturalità e multiculturalità nel contesto dell'integrazione degli immigrati?
- Quali sono le principali sfide che i minori stranieri affrontano nel sistema scolastico italiano?
- Come viene affrontato il tema dell'educazione interculturale nelle scuole italiane?
In Italia sono presenti circa due milioni e mezzo d’immigrati, di cui più del ventuno per cento è costituito da minori in età compresa tra gli zero e i diciotto anni.
L'immigrazione in Italia ha visto una prima ondata di immigrati negli anni '20, seguita da un aumento significativo della popolazione straniera tra il 1985 e il 1994. Da allora, il fenomeno migratorio è diventato sempre più complesso, con un aumento della presenza femminile e una diversificazione delle origini culturali, sociali e di genere degli immigrati.
La multiculturalità indica una coesistenza parallela di culture diverse che rimangono distanti, mentre l'interculturalità denota un processo di sincretismo e scambio, che permette agli immigrati di sentirsi a casa e vivere la propria identità tra le identità altrui, promuovendo un'integrazione più profonda.
I minori stranieri si trovano ad affrontare sfide legate al pregiudizio e allo stereotipo, oltre al disagio di alcuni insegnanti e alla percezione dell'arrivo di un alunno straniero come un'emergenza. Questo richiede un cambiamento di atteggiamento da parte delle istituzioni educative verso un'accoglienza e interazione continuativa.
L'Italia ha introdotto il concetto di educazione interculturale con una circolare relativa a "La scuola d'obbligo e gli alunni stranieri", e successivamente con la legge n. 40/1998, che pone attenzione sull'insegnamento dell'italiano come lingua seconda, sulla formazione dei docenti e sul mantenimento della lingua e cultura d'origine, rispondendo così alle esigenze di un'educazione che promuova l'integrazione e il rispetto reciproco tra culture diverse.