Concetti Chiave
- Il Codice Civile italiano è fondamentale per definire il rapporto di lavoro subordinato, distinguendo tra azienda e impresa, e delineando i ruoli dell'imprenditore e del prestatore d'opera.
- Il Jobs Act e il Testo Unico dell’Apprendistato stabiliscono le forme contrattuali standard e le eccezioni che richiedono la forma scritta, come i contratti a termine e part-time.
- Diritti e doveri nel lavoro subordinato includono la retribuzione equa, la sicurezza sul lavoro, e le libertà sindacali, mentre il datore di lavoro esercita poteri direttivi, di controllo e disciplinari.
- I contratti collettivi nazionali del lavoro (CCNL) regolano i rapporti di lavoro a livello settoriale, imponendo condizioni minime e prevedendo l'indennità di vacanza contrattuale durante i periodi di mancato rinnovo.
- La sicurezza e salute sul lavoro sono garantite dal decreto legislativo n. 81/2008, che impone la valutazione dei rischi, la protezione dei lavoratori e la sorveglianza sanitaria, coinvolgendo tutte le figure aziendali.
Indice
L'azienda, il lavoro subordinato e le fonti normative
Per poter definire il rapporto di lavoro subordinato nel senso tradizionale del termine è indispensabile individuare il contesto all’interno del quale esso nasce, ovvero l’azienda. A tale scopo viene in nostro aiuto il Codice Civile. Una delle fonti primarie nell’ordinamento giuridico dello Stato italiano, il Codice Civile è composto da 6 libri. Fra questi, il libro quinto è interamente dedicato al lavoro. Tale macro-argomento è a sua volta suddiviso in undici titoli, e il titolo ottavo prende in esame precisamente l’azienda. L’art. 2555, cioè il primo articolo contenuto nel titolo ottavo, recita come segue: “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. In altri termini, potremmo immaginare l’azienda come una scatola vuota dove l’imprenditore individua e organizza, in maniera ottimale, le risorse da impiegare per poter svolgere l’attività d’impresa, allo scopo di realizzare il proprio progetto. Il Codice Civile ci aiuta ad approfondire ulteriormente questo aspetto spiegandoci chi è l’imprenditore. Nel titolo secondo del libro quinto troviamo infatti l’art. 2082, il quale afferma: “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi.” Va fatto un netto distinguo fra i concetti di azienda e d’impresa, due concetti che nel linguaggio colloquiale vengono spesso confusi. L’impresa è l’attività esercitata dall’imprenditore in maniera costante e sistematica (professionalmente). Quest’attività ha come scopo quello di soddisfare una specifica domanda presente nel mercato e può generare un guadagno, come può essere svolta limitandosi a recuperare i costi sostenuti.
Per poter fare questo l’imprenditore, che è la figura centrale, ha bisogno di delineare un business plan, ossia un piano che gli consenta di sviluppare il proprio progetto. Quali sono le risorse che gli servono? Come e da dove può procurarle? Come può organizzarle in modo tale da rispondere a un’esigenza di continuità dell’attività d’impresa? In quanto tempo, e con quanto sforzo produttivo potrà recuperare gli investimenti fatti? A seconda del tipo di attività che intende realizzare, potrebbero essergli necessari dei locali dove poter usufruire di acqua, luce, gas; delle materie prime e dei macchinari per trasformare queste ultime in prodotti finiti; un capitale (ossia una dotazione patrimoniale di partenza), un mercato di acquisizione e un mercato di sbocco.
In svariati casi, l’imprenditore potrebbe aver bisogno di avvalersi anche dell’aiuto di altre persone. Le risorse umane di un’azienda sono l’imprenditore stesso in primis (o gli imprenditori, se prendiamo in considerazione una società costituita da più di un socio), eventuali collaboratori esterni come, ad esempio, liberi professionisti ai quali l’azienda può chiedere una consulenza dietro compenso (es.: un commercialista, un notaio, un avvocato, un consulente del lavoro…) ed eventuali lavoratori subordinati che l’imprenditore, in qualità di datore di lavoro, può assumere rendendoli attivamente partecipi dei processi aziendali. Anche in questo caso il Codice Civile è di riferimento. Infatti nel titolo secondo del libro quinto, il quale si occupa del lavoro nell’impresa, troviamo la definizione di prestatore d’opera; più precisamente nell’art. 2094, il quale afferma: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.” Da questa definizione possiamo comprendere che il lavoratore, se assunto all’interno di un’azienda di comune accordo con l’imprenditore, si assume l’obbligo di collaborare nello svolgimento dell’attività imprenditoriale, senza però assumersi il cosiddetto rischio imprenditoriale – che rimarrà tipicamente in capo al datore di lavoro in quanto imprenditore. Al tempo stesso, il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una retribuzione nei confronti del dipendente, il quale avrà quindi diritto di riceverla. A seconda delle mansioni assegnate al lavoratore, il suo lavoro potrebbe richiedere l’impiego di forza fisica, di abilità manuale e di intelletto. L’ultima parte dell’articolo esprime il vincolo di subordinazione, ma anche il compito da parte dell’imprenditore di impartire direttive ai propri dipendenti. Per poter porre in essere un rapporto di lavoro subordinato, è quindi necessario stipulare un contratto. Ora, nell’ordinamento italiano i contratti possono in genere essere stipulati verbalmente, senza quindi la forma scritta e senza che questo ne provochi la nullità (cioè l’impossibilità di considerare valido l’accordo a causa della mancanza dei requisiti necessari).
Vi sono però dei casi in cui la legge obbliga i soggetti a stipulare determinate tipologie di contratti in forma scritta. Nell’ambito del lavoro subordinato, tra le fonti normative più significative abbiamo quella del Jobs Act, il quale ha individuato la forma comune di rapporto lavorativo come quello subordinato, a tempo indeterminato (cioè senza una data di fine rapporto prestabilita), a tempo pieno (cioè organizzato in 40 ore settimanali) e a tutele crescenti (vale a dire che se il lavoratore impugna il licenziamento, potrà ricevere un’indennità risarcitoria misurata sulla base della sua anzianità di servizio). Il nostro ordinamento prevede dunque l’obbligo di stipulare il contratto in forma scritta laddove si vada in deroga a tale tipologia di rapporto. Quindi è obbligatoria la forma scritta quando si instaura, ad esempio, un rapporto di lavoro a termine, cioè con una data di fine rapporto prestabilita. Anche il lavoro part-time va in deroga rispetto al contratto naturale, indipendentemente che si tratti di un part-time orizzontale il dipendente lavora per l’intera settimana con orario ridotto), di un part-time verticale (il lavoratore svolge la sua mansione per 8 ore solo in specifici giorni della settimana), di un part-time misto (il lavoro occupa la giornata piena in alcuni giorni ed è a orario ridotto in altri) o di
un part-time ciclico (dove il dipendente è attivo solo in determinati periodi dell’anno – si pensi, ad esempio, al lavoro stagionale). E’ derogatorio anche il contratto di apprendistato professionalizzante, perché pur essendo un contratto a tempo indeterminato, obbliga l’azienda alla formazione del dipendente per un periodo di tempo determinato – al termine del quale
l’azienda può decidere di recedere dal rapporto se gli obiettivi formativi non sono stati raggiunti, ma anche il dipendente ha la facoltà di interrompere il contratto. Diversamente, per silenzio assenso del datore di lavoro e per natura del contratto stesso, questo si trasforma in un rapporto a tempo indeterminato. Ben prima del Jobs Act, il Testo Unico dell’Apprendistato (d.lgs. n. 167/2011) rese la forma scritta obbligatoria non soltanto per il contratto e per l’eventuale patto di prova, ma anche per il piano formativo individuale.
Sulla base della normativa, il contratto lavorativo naturale potrebbe quindi essere stipulato verbalmente. Ma il rapporto lavorativo è di per sé particolarmente delicato perché innesca una serie di diritti e doveri sia in capo al datore di lavoro, sia in capo al lavoratore. Laddove i termini del contratto non vengano rispettati, potremmo trovarci di fronte a una situazione in cui il lavoratore viene sfruttato iniquamente, o viceversa dove il lavoratore non svolge il suo compito con diligenza. Oppure potremmo trovarci di fronte ad un contesto lavorativo non in condizioni di sicurezza per i lavoratori. E quindi, anche laddove la forma scritta non è espressamente obbligatoria, è comunque la forma privilegiata perché nel patto verbale risulta molto più difficile l’onere della prova. Con un atto scritto stipulato a monte, il datore di lavoro e il lavoratore possono far valere i loro diritti molto più facilmente, in caso di inadempienza e di un contenzioso fra essi.
Quali sono dunque, più nello specifico, i diritti e i doveri che nascono nell’ambito di questo rapporto? Dall’art. 2094 sopracitato ricaviamo che il lavoratore si obbliga ad eseguire delle prestazioni lavorative, l’art. 2104 invece afferma che: “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”. Deve osservare anche un obbligo di fedeltà, il quale si traduce in un divieto di concorrenza e di divulgare informazioni che possano avvantaggiare i competitor sul mercato. Il contratto lavorativo in forma scritta può includere una clausola di non concorrenza che estenda questo divieto anche oltre la fine del rapporto di lavoro, dunque per un periodo prestabilito il lavoratore non potrà lavorare per un’azienda concorrente. Tra i diritti del lavoratore invece possiamo individuare il diritto a percepire una retribuzione, di cui troviamo disposizione nel Codice Civile, come abbiamo visto, ma che ancor prima è sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana, che in qualità di fonte primaria del nostro ordinamento giuridico detta i principi guida sui quali tutte le altre fonti del diritto si devono basare. L’art. 36 afferma:
“il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”
Il lavoratore ha anche il diritto di svolgere le proprie prestazioni in un ambiente igienizzato e sicuro e ha il diritto di salvaguardare la propria salute; da quest’ultimo diritto ne deriva che l’orario normale di lavoro è di 40 ore settimanali, estendibile in alcuni casi ad un totale di 48 ore settimanali (se il datore di lavoro porta il dipendente a lavorare di più diventa sfruttamento iniquo).
Se il lavoratore svolge due o più lavori part-time, la somma delle ore settimanali lavorate può raggiungere un massimo di 48. Tuttavia, può essere determinante anche il settore e il ruolo ricoperto: un addetto alle vendite in un’azienda che opera nel commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli è assunto con un contratto che prevede un lavoro notturno e mattutino di 8
ore dal Lunedì al Sabato.
Il lavoratore gode anche della libertà sindacale, il cui principio è stato espresso nella Costituzione ma successivamente realizzata con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, ovvero la legge 300 del 1970 che è stata una delle leggi fondanti per quanto riguarda il lavoro subordinato in Italia.
Il datore di lavoro ha un potere direttivo, attraverso il quale organizza l’attività imprenditoriale; dal potere direttivo deriva il potere di controllo, con il quale verifica che l’attività sia svolta secondo le sue direttive; ha un potere disciplinare, con il quale può applicare delle sanzioni qualora il lavoratore dipendente commetta delle infrazioni rispetto ai suoi obblighi contrattuali. Nei casi d’infrazione più gravi, la sanzione può tradursi nel licenziamento. Il diritto a percepire una retribuzione si traduce nell’obbligo, in capo al datore di lavoro, di corrispondere la retribuzione al dipendente – retribuzione che può avere varie forme: in denaro, in natura (ad esempio il servizio mensa, la possibilità di utilizzare mezzi di trasporto aziendali, l’offerta di beni o servizi aziendali a condizioni agevolate) o mista. Inoltre il datore di lavoro ha obblighi di natura previdenziale, assicurativa e sanitaria. Quest’ultimo si traduce nell’obbligo di sottoporre i lavoratori ad accertamenti sanitari per verificare che siano idonei alla mansione da svolgere. Approfondirò i principali diritti e obblighi inerenti al rapporto di lavoro nel corso di questa tesina. Altra fonte normativa importante è la contrattazione collettiva: i CCNL (=contratti collettivi nazionali del lavoro). Si tratta di contratti stipulati tra l’organizzazione datoriale e le organizzazioni sindacali. Potremmo definirlo una trasposizione del contratto di lavoro sul piano nazionale, e non più sul piano individuale. Sono destinati a specifiche categorie che possono corrispondere, ad esempio, all’industria, al commercio o al turismo. Servono dunque a regolare i rapporti di lavoro che rientrano in uno specifico settore imprenditoriale. Hanno una validità temporanea (di norma durano 3 anni) e trascorso questo tempo devono essere rinnovati. Il rinnovo ha l’obiettivo di adeguare le condizioni economiche al momento storico, perché la qualità della vita e le condizioni del paese a livello macroeconomico evolvono, quindi i CCNL devono essere in grado di seguire questo andamento. Il CCNL stabilisce le condizioni contrattuali minime alle quali può essere assunto un lavoratore, perciò il contratto individuale non può essere caratterizzato da condizioni inferiori. Nella maggior parte dei casi succede che i CCNL non vengono mai rinnovati in tempo utile, nel qual caso si parla di “vacanza contrattuale” e trovano applicazione le regole del precedente contratto. Proprio perché di solito il contratto rinnovato prevede delle condizioni di maggior favore rispetto al contratto precedente, il lavoratore che si trova per un certo periodo senza contratto rinnovato (es. i contratti del pubblico impiego, i medici e gli infermieri hanno atteso il rinnovo dei contratti per molti anni) perde i benefici di cui avrebbe goduto grazie al rinnovo. Quando si procede al rinnovo del CCNL, il contratto stesso prevede una indennità di vacanza contrattuale, cioè una forfettizzazione degli aumenti di stipendio che il lavoratore avrebbe dovuto ricevere negli anni di vacanza contrattuale.
La risoluzione del rapporto di lavoro
Per risoluzione del rapporto di lavoro intendiamo quel processo che interrompe il periodo di collaborazione tra datore di lavoro e dipendente. L’interruzione può avvenire in vari modi, per diversi motivi e può dipendere dalla natura stessa del contratto stipulato. Se prendiamo in esame il contratto di lavoro a tempo indeterminato, la cessazione del rapporto può avvenire per dimissioni, ovvero il lavoratore esprime la volontà di interrompere il rapporto; attualmente la procedura è telematica, ed è previsto un obbligo di preavviso che intercorra tra la comunicazione del lavoratore e l’effettiva interruzione del rapporto. Questo lasso di tempo è stabilito dalla contrattazione collettiva ed è quantificato in base al livello, alla mansione e all’anzianità di servizio; la comunicazione viene acquisita direttamente dal ministero del lavoro, dall’ispettorato nazionale del lavoro e dal datore di lavoro; la cessazione può avvenire anche per licenziamento, ovvero il datore di lavoro esprime la volontà di interrompere il rapporto; l’imprenditore può essere legittimato a procedere con il licenziamento per molteplici motivi. Può licenziare immediatamente il lavoratore quando questi assume un comportamento talmente grave da danneggiare i rapporti di fiducia che intercorrono tra le parti (licenziamento per giusta causa). Può licenziare qualora il lavoratore non adempia agli obblighi contrattuali (licenziamento per giustificato motivo soggettivo): in questo caso il lavoratore ha diritto al periodo di preavviso previsto. Nel caso il datore di lavoro non osservasse tale obbligo, dovrà corrispondere al lavoratore un’indennità sostitutiva. Il datore di lavoro può inoltre licenziare il dipendente per esigenze oggettive legate all’organizzazione e al funzionamento della sua attività (licenziamento per giustificato motivo oggettivo); anche in questo caso sussiste l’obbligo di preavviso in capo all’imprenditore. Il licenziamento può avvenire anche laddove il contratto preveda un periodo di prova iniziale che il lavoratore non ha superato, e laddove sia previsto un periodo di apprendistato (generalmente di tre anni) al termine del quale la formazione del lavoratore non giunga a compimento. Se il datore di lavoro licenzia il lavoratore senza giusta causa o giustificato motivo, il lavoratore può impugnare il licenziamento e in base al decreto legislativo 23/2015 il datore può essere condannato a corrispondere un indennizzo al lavoratore stesso, oppure a reintegrare il dipendente in azienda nei casi in cui si tratti di licenziamento discriminatorio, intimato in forma orale, quando vi è un difetto nella giustificazione causa disabilità fisica o psichica del lavoratore oppure quando è dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Il datore di lavoro può però licenziare il dipendente senza obbligo di motivazione in un caso: nel momento in cui questi raggiunga i requisiti previsti per ottenere la pensione di vecchiaia ordinaria. Il rapporto di lavoro può cessare anche per naturale scadenza del termine, qualora il contratto stipulato sia a tempo determinato, cioè sia stata prefissata una data di fine rapporto. Il rapporto di lavoro a tempo determinato vincola maggiormente il lavoratore, poiché non è libero di presentare dimissioni volontarie prima della naturale scadenza. E’ però possibile che il rapporto inizi con un periodo di prova, entro il quale entrambe le parti hanno la possibilità di rescindere liberamente dagli accordi, se il contratto prevede tale possibilità. Un altro caso di interruzione del rapporto consiste nel mutuo consenso tra datore di lavoro e lavoratore. Questo è fattibile sia con i contratti a tempo indeterminato, sia con i contratti a termine e ha effetto immediato. Come nel caso delle dimissioni, il lavoratore deve effettuare una comunicazione telematica, pena l’inefficacia della procedura. A prescindere dalla ragione che ha portato il rapporto di lavoro a cessare, il lavoratore ha diritto a percepire il trattamento di fine rapporto, una componente retributiva che il lavoratore matura nel corso del periodo in cui presta la sua opera in favore dell’azienda e che viene quantificata in maniera proporzionale alla retribuzione prevista dall’inquadramento contrattuale. Laddove il lavoratore perde involontariamente la sua posizione in azienda, qualsiasi sia il motivo dell’involontaria perdita ha diritto a percepire un’indennità di disoccupazione (Naspi). Si tratta di una somma sostitutiva al reddito erogata dall’INPS (Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale) e finanziata dalla quota dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro.
Il contratto di lavoro: un breve excursus storico
Possiamo individuare le origini del rapporto di lavoro subordinato, così come lo intendiamo oggi, all’epoca delle rivoluzioni industriali: nel XIX secolo. Parliamo di un’epoca in cui artigiani e contadini furono costretti a spostarsi nelle città laddove erano presenti le grandi industrie e quindi dove c’era una maggior concentrazione di lavoro. Siamo agli inizi dell’unità d’Italia, e in questo contesto storico il rapporto di lavoro subordinato è scarsamente regolamentato. Il codice civile del 1865 affermava, nell’art. 1628: “Nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa”; vietava cioè di instaurare rapporti a tempo indeterminato, che secondo la sensibilità dell’epoca richiamavano a vincoli di stampo servile e schiavista, a retaggi dell’epoca feudale. In generale, il contratto di lavoro era unicamente disciplinato dai liberi accordi delle due parti interessate, e questo generava uno squilibrio di forze. Il datore di lavoro aveva un potere contrattuale tale da porre il lavoratore nelle condizioni di essere sfruttato senza alcun tipo di tutele. La giornata lavorativa poteva durare dalle 12 alle 15 ore, i salari erano bassi ed era molto diffuso il lavoro minorile. In più, il diritto penale dell’epoca vietava la formazione di organizzazioni sindacali che potessero fare da intermediarie fra il lavoratore e lo Stato. Si veda ad esempio l’art. 386 del Codice Penale Sardo del 1859, il quale affermava: “ogni concerto di operai che tenda senza ragionevole causa a sospendere, impedire, o rincarare i lavori, sarà punito col carcere estensibile a tre mesi, semprechè il concerto abbia avuto un principio di esecuzione”. Tuttavia, le condizioni disumane alle quali i lavoratori erano sottoposti portarono, verso la fine del XIX secolo e agli inizi del ‘900, alla nascita di una prima regolamentazione che potesse indirizzare ad un rapporto più equo tra la classe datoriale e quella dei lavoratori. Il codice Zanardelli del 1889 consentì ai lavoratori di dar vita alle proprie associazioni, di stipulare contratti collettivi con i datori di lavoro e di scioperare. Vennero varate delle prime leggi a tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne. Nel 1898 nacque l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, venne istituita una Cassa di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità dei dipendenti. Nel 1902 fu introdotto per la prima volta il congedo di maternità. Nel 1907 venne introdotto il riconoscimento del riposo settimanale e festivo. Ogni norma sociale finalizzata al riequilibrio delle forze in sede contrattuale era caratterizzata dal requisito dell’inderogabilità: non poteva cioè essere annullata per mezzo di accordi individuali tra le parti.Le crescenti rivendicazioni da parte della classe operaia subirono una battuta d’arresto con l’avvento del fascismo, il quale era per sua natura di stampo autoritario. Venne abolito il diritto allo sciopero, e i sindacati divennero organizzazioni statali che rappresentavano indistintamente un’intera categoria, a prescindere che il lavoratore vi aderisse o meno; di conseguenza i contratti collettivi assunsero la valenza di leggi erga omnes. Le donne vennero progressivamente allontanate dal mondo del lavoro, con leggi e decreti che limitavano o vietavano espressamente le assunzioni femminili, oppure precisavano in maniera dettagliata per quali tipologie di impieghi fosse ammissibile assumere una donna: la legge Sacchi del 1919 fu la prima di una lunga serie che si protrasse nel corso degli anni ‘20 e ‘30, arginando il lavoro femminile in svariati ambiti, ma in particolar modo nel settore dell’istruzione. L’introduzione delle leggi razziali nel 1938 ebbe effetto anche sul diritto del lavoro, poiché allontanò di fatto gli ebrei da ogni prospettiva lavorativa. Si trattò di un regime che sul piano propagandistico si rifaceva a un modello d’ispirazione corporativa, che poneva cioè al di sopra di ogni altro interesse quello dello Stato e della produzione nazionale ma che al tempo stesso, conservava sostanzialmente una gestione di stampo privatistico nel rapporto di lavoro. Il datore di lavoro, ad esempio, era pienamente libero di licenziare i dipendenti secondo le proprie esigenze, senza dover dare una motivazione, senza preavviso, senza dover corrispondere alcun tipo di indennizzo e senza che vi fosse alcun tipo di accertamento.
La fine del regime fascista e della monarchia, e l’inizio della repubblica diedero una svolta: la Costituzione del 1948 infatti definisce il paese, fin dal suo primo articolo, una repubblica democratica fondata sul lavoro. Prefigura un mercato del lavoro maggiormente regolamentato, ma anche diametralmente opposto rispetto alle direzioni razziste e maschiliste intraprese durante il ventennio. Prefigura una Repubblica dove ogni cittadino è libero di manifestare il proprio pensiero, e dove l’obiettivo è quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 co. 2).
Gli anni ‘50 furono anni di ricostruzione per un paese fortemente provato dalla seconda guerra mondiale, anni in cui nonostante l’introduzione della Costituzione, all’interno dell’azienda i poteri dell’imprenditore restavano di gran lunga prevalenti sui diritti del dipendente. Il decennio successivo fu l’età del boom economico e della contestazione. Furono gli anni della svolta garantista. La legge 230 del 1962 poneva dei limiti alla stipula del contratto a tempo determinato. La legge 604 del 1966 introdusse per la prima volta l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di motivare il licenziamento per mezzo di comunicazione scritta. Nel 1970 venne introdotta la legge 300: lo Statuto dei Lavoratori. Si tratta di una legge che nel corso di decenni è rimasta il riferimento per la tutela degli interessi della classe lavoratrice. D’altra parte nel 1973 – anno della crisi energetica – si presentò la necessità di flessibilizzare i rapporti di lavoro e di dare maggior respiro alle imprese. E a partire dagli anni ’80, la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione dei mercati incentivarono ulteriormente questa tendenza. Il progresso della tecnologia ha profondamente modificato i processi produttivi e ha rivoluzionato numerose professioni, in particolare nel settore terziario. Nel corso degli anni ‘90 vi fu qualche tentativo, da parte del legislatore, di introdurre leggi che perseguivano gli obiettivi prefissati dalla Costituzione: pensiamo alle leggi sull’occupazione femminile, sugli ammortizzatori sociali e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Andava tuttavia affermandosi sempre più la logica del liberismo economico e della liberalizzazione delle imprese. La legge Biagi del 2003 introdusse una serie di tipologie contrattuali che rendevano il lavoro più flessibile, come ad esempio il cosiddetto lavoro “intermittente” o “a chiamata”, nel tentativo di sbloccare un mercato del lavoro profondamente segnato dalla disoccupazione. Effettivamente, questi interventi diedero una spinta significativa all’occupazione, ma al tempo stesso precarizzarono la classe lavoratrice. In particolare, i contratti di collaborazione consentivano sicuramente l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani da poco usciti dall’ambiente scolastico/universitario, consentendo così di rispondere alle esigenze delle aziende senza però obblighi e garanzie in favore dei collaboratori, tipici del contratto di lavoro subordinato. Nel decennio successivo (anni di profonda crisi per l’Europa) seguirono la riforma Fornero e il Jobs Act, i quali si proponevano di svecchiare una normativa sul lavoro che era stata concepita in un contesto socioeconomico totalmente diverso, e che perciò non teneva conto dei rapidi cambiamenti avvenuti nei decenni successivi. Lo Statuto dei Lavoratori aveva disciplinato il licenziamento illegittimo prevedendo l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di reintegrare il dipendente in azienda. Le riforme dei governi Monti e Renzi modificarono tale tendenza, concependo un sistema sanzionatorio meno rigido e più orientato verso l’applicazione di un’indennità risarcitoria. I governi successivi si limitarono ad applicare solo alcuni ritocchi (es.: Decreto Dignità nel 2018) ad un mercato del lavoro che oggi nella sostanza è profondamente e inevitabilmente dinamico, problematico sotto vari aspetti e non sempre sensibile al benessere del lavoratore – fino ad arrivare al caso limite, in cui il lavoro subordinato diventa sfruttamento di manodopera. Come quello del bracciante indiano Satnam Singh, il quale ha svolto un lavoro senza regolare contratto e quindi privo di tutele di alcun tipo, ma che in più – in seguito al grave infortunio subito – viene abbandonato in condizioni disumane. Allora nel panorama contemporaneo si presenta una grande necessità, quella di raggiungere e mantenere un equilibrio complesso: evolvere secondo gli andamenti di un mercato globalizzato sempre più all’avanguardia, ma garantendo al tempo stesso rapporti di lavoro che valorizzino la dignità, la sicurezza, la salute e il rispetto di tutte le parti coinvolte.
Sicurezza e salute del lavoro
La normativa in materia di sicurezza e salute sul lavoro scaturisce dalla necessità di prevenire e risolvere una serie di problematiche inerenti ai contesti lavorativi, e dall’obiettivo di migliorare la qualità della vita nelle aziende. Oggi la principale normativa di riferimento è il decreto legislativo n. 81 del 2008, conosciuto anche come “Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro”. Per poter trattare quest’argomento è necessario prima di tutto individuare i concetti fondamentali, che la stessa normativa chiarisce.Sicurezza sul lavoro significa mettere in atto tutte quelle procedure volte a garantire misure di prevenzione e di protezione, procedure che coinvolgono il datore di lavoro e i lavoratori e che servono a promuovere una condizione di salute, cioè di benessere fisico, psichico e sociale dei lavoratori stessi – un diritto fondamentale dell’individuo e un interesse della collettività, sancito e tutelato dalla Costituzione della Repubblica. Quando parliamo di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, parliamo dunque di eliminazione dei rischi e, laddove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo sulla base delle conoscenze che derivano dal progresso tecnico. Per rischio intendiamo la probabilità che si verifichi un evento capace di causare un danno al lavoratore e va distinto dal concetto di pericolo, nonostante nel linguaggio comune vengano equiparati. Mentre il rischio è un fattore probabilistico e dunque un concetto più ampio, il pericolo invece è la proprietà intrinseca alla situazione o all’oggetto che può causare un danno. Il DPR n.1124 del 1965 ha indicato che se il danno che il lavoratore subisce proviene da una causa violenta (cioè da un fattore esterno, rapido e intenso che comporta la morte o un’inabilità al lavoro dalla quale derivi un’astensione al lavoro per più di tre giorni), allora si configura un caso di infortunio. Caso diverso è quello della malattia professionale, dove la causa scatenante agisce lentamente e per gradi sull’organismo del lavoratore. La malattia professionale può essere rilevata anche postuma all’interruzione del rapporto di lavoro. In quel caso si rivela importante conservare le cartelle cliniche e gli accertamenti fatti durante il periodo lavorativo. L’incidente sul lavoro, invece, è un evento non voluto potenzialmente in grado di provocare danni a cose o persone, ma che non ha provocato alcun infortunio, né malattia. Va chiarita anche la differenza tra prevenzione e protezione. La prima consiste in un insieme di azioni dirette a impedire che si verifichino effetti non desiderati o dannosi. La seconda invece consiste in tutto ciò che può difendere la persona da un’esposizione ai pericoli. Mentre la prevenzione è un’azione che si compie prima che l’evento dannoso si possa verificare, la protezione è una misura a cui il lavoratore ricorre nel momento stesso in cui è esposto ai pericoli. Il d.lgs. 81/2008 definisce anche il datore di lavoro, individuandolo come “il soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. All’interno dell’azienda è il primo garante della sicurezza sul lavoro. Il lavoratore invece è la “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione”. Questa definizione va di fatto ad ampliare le tutele sulla sicurezza e sulla salute anche a chi è lavoratore irregolare, perché nell’ottica del Testo Unico, l’unico requisito fondamentale per essere lavoratore è l’inserimento nell’organizzazione dell’imprenditore. Nella normativa precedente invece essere lavoratore presupponeva un requisito in più, e cioè il rapporto di lavoro subordinato.
Nel 1994, attraverso il decreto legislativo n. 626 l’Italia ha recepito otto direttive europee, successivamente confluite nel Testo Unico il quale ne ha confermato le innovazioni più rilevanti: l’istituzione in ogni azienda di un Servizio di Prevenzione e Protezione; la consultazione dei lavoratori in materia di sicurezza sul lavoro attraverso il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, una persona eletta o designata all’interno delle rappresentanze sindacali che ha il potere di effettuare dei sopralluoghi in azienda per analizzare le misure di prevenzione e protezione da prendere; l’obbligo per il datore di lavoro di redigere il Documento di Valutazione dei Rischi e pianificare le misure di prevenzione e protezione; l’individuazione di due rischi rispettivamente legati alla movimentazione manuale dei carichi e all’utilizzo di videoterminali. Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione viene nominato dal datore di lavoro. Ha il compito di valutare i rischi lavorativi e di informare adeguatamente i lavoratori, di selezionare i dispositivi di protezione individuale e di elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività. I lavoratori vengono sottoposti a sorveglianza sanitaria del medico competente, anch’esso nominato dal datore di lavoro. Il suo compito è effettuare visite specialistiche periodiche dei lavoratori e valutare se questi siano idonei a svolgere la loro specifica mansione. Il medico competente svolge anche una serie di accertamenti e indagini con l’obiettivo di prevenire l’eventuale insorgere di malattie professionali. Il documento di valutazione dei rischi redatto dal datore di lavoro deve contenere una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, indicando quali criteri sono stati adottati per effettuare la valutazione stessa. Deve poi indicare quali misure di prevenzione sono state intraprese di conseguenza, e quali dispositivi di protezione vengono utilizzati. Il datore di lavoro deve anche pianificare, stilando un apposito programma, le misure opportune a garantire che i livelli di sicurezza dell’azienda migliorino nel tempo; deve accompagnare al documento ogni utile documentazione aggiuntiva e dare indicazione dei nominativi del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del medico competente e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con i quali il datore di lavoro ha necessariamente collaborato per redigere il documento di valutazione. Il Testo Unico prevede anche che a gestire eventuali emergenze e infortuni vi siano gli addetti all’emergenza e primo soccorso, designati dal datore di lavoro e i quali hanno conseguito un’adeguata formazione.
Quali sono gli obblighi del lavoratore in tema di salute e sicurezza? L’art. 20 del d.lgs. 81/2008 afferma che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, in cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”. Questo significa che il lavoratore non deve solo curarsi della salute dei propri colleghi, ma anche di eventuali persone esterne che si trovano nell’azienda in via occasionale, o accidentale. E deve farlo nei limiti della formazione, delle istruzioni e dei mezzi che ha ricevuto dal datore di lavoro, perciò laddove sia necessario valutare se sussista quest’obbligo in capo al lavoratore, bisogna verificare se esistono i suddetti presupposti. Il lavoratore ha ricevuto una formazione idonea a fronteggiare un evento dannoso specifico? Ha ricevuto istruzioni adeguate e concrete in merito? Gli sono stati forniti i dispositivi e le attrezzature di protezione? Se non esistono questi presupposti, il lavoratore è esonerato dall’obbligo. Il lavoratore deve anche utilizzare correttamente le macchine, le attrezzature di lavoro, le sostanze, i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e i dispositivi di sicurezza; deve segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze o il difetto dei mezzi, dei dispositivi di sicurezza o dei macchinari.
Il dirigente è quella persona che organizza l’attività lavorativa e vigila su di essa, in ragione delle competenze professionali che possiede e dei poteri gerarchici e funzionali che gli sono conferiti. Si differenzia dal datore di lavoro in quanto egli è anche un soggetto creditore di sicurezza ed è responsabile nei limiti dell’incarico ricevuto. La normativa in vigore individua invece il preposto come la “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti dei poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”. In azienda è comunemente individuato come il caposquadra; per svolgere la funzione di preposto deve seguire un percorso di formazione (e aggiornamento) che gli consenta di acquisire idonee e specifiche cognizioni tecniche, cognizioni che non è possibile acquisire mediante la sola esperienza lavorativa. Il preposto deve sovrintendere e vigilare affinché i lavoratori osservino singolarmente i loro obblighi di legge e le disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza, e in caso contrario deve informare il suo diretto superiore. Deve controllare che solamente il lavoratore adeguatamente istruito e preparato possa accedere a zone che sono esposte ad un rischio grave e specifico, deve informare tempestivamente i lavoratori riguardo il rischio a cui siano esposti e le disposizioni in materia di protezione, ha l’obbligo di astenersi dal chiedere ai lavoratori di esercitare la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato e deve segnalare al più presto eventuali deficienze nei mezzi, nelle attrezzature di lavoro e nei dispositivi di protezione individuale, oltre a eventuali situazioni di pericolo di cui venga a conoscenza sulla base della formazione che ha ricevuto. Il lavoratore, a sua volta, è obbligato a segnalare qualsiasi condizione di pericolo di cui venga a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave o incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Laddove non vi fosse tale urgenza o il lavoratore non fosse adeguatamente preparato a fronteggiare la situazione di pericolo deve abbandonare l’area esposta. Deve comunicare immediatamente anche infortuni di lieve entità o scongiurati per poco. In capo al lavoratore vi è anche l’obbligo di partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro – che a sua volta è obbligato a formare i dipendenti periodicamente in tema di salute e sicurezza.
La legge tutela il lavoratore dagli infortuni anche in itinere, vale a dire gli infortuni avvenuti durante il normale percorso di andata e ritorno tra casa e lavoro; durante il percorso che collega due luoghi di lavoro, sia che il lavoratore presti la propria attività presso due datori di lavoro differenti, sia che la sua mansione preveda uno spostamento di sede; durante il percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti, in mancanza di un servizio di mensa aziendale. Tuttavia, affinché sia considerato infortunio in itinere, il tragitto casa-lavoro deve essere quello più breve e diretto possibile – salvo eventuali deviazioni o interruzioni dovute a causa di forza maggiore come ad esempio traffico, incidenti, lavori stradali in corso, laddove il lavoratore debba eseguire una direttiva del datore di lavoro o debba accompagnare i figli a scuola. Per compiere il tragitto, l’uso del mezzo privato è considerato necessario e indispensabile solo in presenza di una delle seguenti condizioni: il mezzo è stato fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative; il luogo di lavoro non è raggiungibile con i mezzi pubblici, o comunque non in tempo utile rispetto al turno di lavoro; i mezzi pubblici comportano un rilevante dispendio di tempo rispetto all’utilizzo del mezzo privato, oppure obbligano ad attese eccessivamente lunghe; la distanza della più vicina fermata del mezzo pubblico a disposizione, dal luogo di abitazione o dal luogo di lavoro, deve essere percorsa a piedi ed è eccessivamente lunga.
L’infortunio in itinere viene riconosciuto dall’INAIL indipendentemente da chi l’ha causato: se sia colpa o meno del lavoratore, l’INAIL è tenuto a indennizzare l’infortunato. Non sono però indennizzati infortuni direttamente causati dall’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni e nei casi in cui il conducente del mezzo non abbia un titolo di abilitazione alla guida, o non abbia rispettato il codice della strada. L’avvenuto infortunio deve essere immediatamente comunicato al datore di lavoro, al quale deve essere consegnato un certificato medico. Il datore di lavoro ha l’obbligo di denunciare l’infortunio all’INAIL.
Domande da interrogazione
- Qual è la definizione di azienda secondo il Codice Civile italiano?
- Quali sono le caratteristiche principali del contratto di lavoro subordinato in Italia?
- Quali sono le principali fonti normative che regolano il lavoro subordinato in Italia?
- Come può avvenire la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato?
- Quali diritti e doveri ha un lavoratore subordinato secondo la normativa italiana?
L'articolo 2555 del Codice Civile definisce l'azienda come il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.
Il contratto di lavoro subordinato è caratterizzato da un rapporto di dipendenza del lavoratore dall'imprenditore, che ha il dovere di retribuire il lavoratore per il suo lavoro intellettuale o manuale.
Le principali fonti normative includono il Codice Civile, il Jobs Act, e i contratti collettivi nazionali del lavoro (CCNL).
La risoluzione può avvenire per dimissioni del lavoratore, licenziamento da parte del datore di lavoro, o per mutuo consenso tra le parti.
Il lavoratore ha il diritto a una retribuzione adeguata e a un ambiente di lavoro sicuro, mentre ha il dovere di eseguire le prestazioni lavorative con diligenza e fedeltà.