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Indice

  1. Luigi Pirandello - Uno, nessuno e centomila: commento
  2. La fine di un'illusione
  3. Vitangelo: l'ombra di se stesso
  4. L'io pirandelliano

Luigi Pirandello - Uno, nessuno e centomila: commento

C’è qualcosa di profondamente inquietante in Uno, nessuno e centomila, qualcosa che va oltre la crisi dell’identità moderna. Il protagonista, Vitangelo Moscarda, non è solo un uomo che scopre di essere diverso da come si pensava: è un’anima che comincia lentamente a disgregarsi, a perdere consistenza, a diventare un’ombra, un’eco, uno spettro del proprio stesso io.

La fine di un'illusione

La scintilla iniziale, quel banale “il tuo naso pende a destra”, non è una semplice osservazione: è la frase-maledizione che apre il varco. È come se qualcuno, senza volerlo, avesse pronunciato una formula nera, spezzando il sigillo dell’illusione personale. Da quel momento, il castello dell’identità crolla, e Moscarda si scopre abitatore di un corpo che non gli appartiene, specchiato in mille occhi estranei, moltiplicato fino alla vertigine.
“Uno, nessuno e centomila” non è più solo un titolo: è una condanna esistenziale. Uno? Un’illusione. Centomila? I volti che gli altri ci cucinano addosso. Nessuno? L’unica verità possibile.

Vitangelo: l'ombra di se stesso

Vitangelo è un vampiro di se stesso: si guarda vivere attraverso gli occhi altrui, si nutre delle versioni che gli altri costruiscono, fino a prosciugarsi. È come un personaggio che vaga in una casa degli specchi, in cui ogni riflesso lo deforma, lo moltiplica, lo annulla. E ogni stanza attraversata è una maschera che gli viene strappata, rivelandone solo il vuoto.
Il suo percorso non è una liberazione, ma una discesa negli inferi del pensiero, dove l’unità dell’io si frantuma come vetro sotto il martello della coscienza. L’ironia sottile di Pirandello si trasforma, così, in un meccanismo crudele: ogni gesto che Moscarda compie per affermare la propria unicità si ritorce contro di lui, lo deforma, lo smaschera. È un uomo che non riesce più a toccare se stesso, che si dissolve in ciò che non è. La casa, gli oggetti, persino i ricordi, diventano ostili: fantasmi delle proprie certezze. La sua stessa moglie, Dida, e l’amico Quantorzo diventano figure grottesche, attori inconsapevoli di una pantomima soffocante. Nessuno conosce davvero nessuno — sono tutti spettri sociali, maschere ambulanti.

L'io pirandelliano

L’io, per Pirandello, è un costrutto sociale, ma nella lettura gotica è qualcosa di ancora più spaventoso: è un’anima prigioniera, che crede di avere un volto ma ne ha centomila, che tenta di urlare la propria esistenza ma viene zittita da ogni altro sguardo. Il protagonista è un uomo che si decompone in vita, un Lazzaro senza resurrezione.
Alla fine del romanzo, Moscarda abbandona ogni ruolo, ogni nome, ogni relazione. Vive come un eremita dell’essere, senza più identità, né passato, né volontà. Ma questa non è libertà: è annullamento, svanire come nebbia, come una figura dipinta su un vetro che si appanna. Il suo ultimo stato è simile a quello di un fantasma consapevole di non esistere più, ma incapace di andarsene del tutto.

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