Leonor26052006_
Ominide
39 min. di lettura
Vota
Questo appunto contiene un allegato
Leopardi, Giacomo - Il suo pensiero scaricato 0 volte

Indice

  1. Giacomo Leopardi
  2. Le idee e la poetica
  3. La poesia degli antichi e dei moderni a confronto
  4. Gli antichi e la poesia di immaginazione
  5. I moderni e la poesia di sentimento
  6. La poetica dell'«indefinito» e della «rimembranza»
  7. Lo sviluppo del pensiero
  8. Il pessimismo storico: la natura «benigna»
  9. La teoria del piacere
  10. Il pessimismo cosmico: la natura «matrigna»
  11. La ginestra: l'accettazione dell'arido e l'invito alla solidarietà
  12. Lo Zibaldone
  13. Lo stile del non finito
  14. I Canti
  15. Il silenzio poetico
  16. La genesi dell'opera
  17. La scoperta dell'universale destino di infelicità
  18. Le fonti letterarie e filosofiche
  19. I temi e i personaggi
  20. La molteplicità dei protagonisti
  21. I Canti: i Grandi idilli
  22. La poesia della «rimembranza» e dell'«acerbo vero»
  23. A Silvia: la fine delle illusioni giovanili
  24. La quiete dopo la tempesta: la teoria del piacere
  25. Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: la ricerca del significato dell'esistenza
  26. Il ciclo di Aspasia
  27. L'amore come ultima illusione e l'affermazione di una visione eroica dell'esistenza
  28. La ginestra: il testamento spirituale
  29. L'allegoria del «fiore del deserto»

Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, nelle Marche, in quel periodo dominio dello Stato della Chiesa.
Il padre, il conte Monaldo, era un conservatore dai vasti interessi culturali. Questi realizzò una ricchissima biblioteca, a cui si deve la formazione del giovane Giacomo, il quale fin da bambino manifestò una particolare predisposizione agli studi nonostante le precarie condizioni di salute. Nel 1817 Giacomo Leopardi iniziò un rapporto di amicizia con lo scrittore Pietro Giordani, intellettuale classicista e contrario alla Restaurazione, che lo portò a criticare le posizioni reazionarie del padre e ad abbandonare il Cattolicesimo. In seguito, Leopardi tentò di rendersi autonomo dalla famiglia e di sfuggire al clima opprimente di Recanati soggiornando in varie città, dove svolse diversi lavori editoriali, ma nello stesso tempo visse anche profonde delusioni professionali e sentimentali. A Firenze, nel 1828, lo scrittore conobbe Antonio Ranieri, con cui nel 1833 si trasferì a Napoli, dove morì nel 1837.

Le idee e la poetica

La sensibilità artistica di Leopardi, se da un lato è affine a quella dei romantici, nell'esaltazione della spontaneità, nella concezione della vita come dolore, nella sfida titanica al destino e alla società e anche nell'aspirazione all'infinito, dall'altro lato, non ne condivide la simpatia per il Medioevo e per la letteratura nordica. Nello stesso tempo, Leopardi respinge l'abuso da parte dei classicisti della mitologia e dell'imitazione degli antichi, che finisce per banalizzarne la bellezza e lo stile. Tuttavia, tiene in gran conto gli autori classici del passato, in quanto modelli di razionalità e armonia.

La poesia degli antichi e dei moderni a confronto

Con il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica “, Leopardi polemizzò con i romantici anche se in realtà le sue posizioni e la sua sensibilità erano affini alle loro: non difendeva gli antichi come riferimenti letterari di razionalità e armonia da imitare, alla maniera del Neoclassicismo di fine Settecento, ma in quanto modelli di regole e principi etici e creatori di una poesia spontanea contrapposta alla concezione poetica dei romantici.

Gli antichi e la poesia di immaginazione

Nel Discorso, Leopardi distingue tra poesia antica e poesia moderna, affermando la superiorità della prima, espressione di fantasia e d'immaginazione, qualità tipiche dei primitivi e dei fanciulli. Gli antichi, che erano vicini alla natura incontaminata e liberi dai vincoli della ragione, avevano saputo creare i miti e le favole, cioè quelle «illusioni» che rivestono la dura realtà della vita e nascondono agli uomini il «vero». In queste affermazioni è evidente l'influenza del pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744), secondo cui l'arte si associa all'età storica caratterizzata dalla fantasia e dal sentimento.

I moderni e la poesia di sentimento

Leopardi sostiene che in seguito la ragione ha rotto l'equilibrio tra l'uomo e la natura: le illusioni sono cadute ed è stata svelata l'inutilità dell'esistenza e degli sforzi per raggiungere la felicità. La ragione e il «vero» sono diventati oggetto principale della poesia e hanno distrutto l'immaginazione. Ai moderni spetta il compito di ritornare a una poesia «sentimentale», legata alla realtà interiore, la sola che possa ricreare, attraverso il ricordo, la poeticità delle sensazioni percepite nella fanciullezza e in particolare dinanzi alla natura.

La poetica dell'«indefinito» e della «rimembranza»

La poesia moderna può solo cercare di recuperare quella felice condizione, quel mondo ricco di immaginazione della fanciullezza che, presentandosi in modo indeterminato, sollecita la fantasia. Tutto ciò che ispira sensazioni e pensieri indefiniti alimenta l'immaginazione del poeta. Anche la «rimembranza» è essenziale al sentimento poetico; riguarda un'esperienza ormai lontana e perciò rende vaga e lirica la realtà vissuta, anche quando riguarda una vicenda dolorosa.

Lo sviluppo del pensiero

L'esperienza del dolore fisico, il disagio familiare e l'insofferenza nei confronti dell'ambiente provinciale di Recanati contribuirono alla formazione in Leopardi di una visione pessimistica della condizione umana.

Il pessimismo storico: la natura «benigna»

Fino al 1822 circa, il poeta considera la decadenza della società moderna come l'effetto di un processo storico. Leopardi subì l'influsso del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale il progresso aveva portato decadenza e corruzione morale e la ragione era la causa dell'infelicità umana poiché aveva allontanato l'uomo dalla natura. Corrotti dalla ragione, gli uomini avevano abbandonato la strada indicata dalla natura benigna ed erano diventati egoisti e calcolatori. Gli antichi, al contrario, essendo in comunione con la natura, vivevano di illusioni e sentimenti generosi ed erano stati capaci di azioni eroiche e disinteressate.
Nello Zibaldone, la natura è inizialmente vista come fonte di valori positivi: è «benigna» e protettiva, infonde vigore fisico e mentale, suscita illusioni, è alla base delle virtù morali e civili ed è contrapposta alla ragione e alla società corrotta, dominata dall'egoismo e dalla ricerca dei beni materiali. La concezione del pessimismo storico probabilmente è influenzata anche dai problemi della società europea moderna che, dopo le drammatiche esperienze della Rivoluzione francese e della Restaurazione, assiste al crollo definitivo della vecchia cultura aristocratico-feudale.

La teoria del piacere

Le riflessioni di Leopardi sull'infelicità umana lo portarono a formulare, a partire dal luglio 1820, una propria originale teoria del piacere, che espose nello Zibaldone.
Il materialismo settecentesco negava la dimensione spirituale dell'uomo, considerandone soltanto la realtà biologico-materiale. Invece, Leopardi cercò di conciliare questi due aspetti, di appagare sia i bisogni materiali e fisici sia l'aspirazione alla felicità assoluta e la tensione verso l'infinito. La natura, afferma l'autore, genera nell'uomo l'amore di sé, per cui egli aspira a un piacere infinito in durata e in estensione, mentre i momenti di felicità sono brevi, poco appaganti. Il solo piacere concesso agli uomini consiste nell'immaginare la realizzazione dei propri desideri, più che nell'ottenerla. La conseguenza è la noia, il senso di vuoto prodotto da una tensione inappagata e da un'aspirazione a una felicità irraggiungibile. In questa fase del pensiero leopardiano la natura è ancora «benigna», in quanto concede all'uomo le illusioni: colpevole è la ragione che ha svelato l'«arido vero».

Il pessimismo cosmico: la natura «matrigna»

Tra il 1822 e il 1830 la riflessione di Leopardi si fa ancora più sconsolata, trasformandosi in pessimismo cosmico. La precedente antitesi tra natura (vitalità, illusione, virtù morali e civili) e ragione (egoismo, aridità, infelicità) si trasforma radicalmente e diviene un'intensa e profonda denuncia contro la natura stessa, cinica e indifferente all'uomo: da madre amorosa essa diventa «matrigna» crudele, principio negativo che sottopone gli uomini e l'intero universo a un costante ciclo meccanicistico di distruzione e riproduzione.
Questo nuovo e disperato sistema filosofico afferma che l'umanità non riesce più a rendersi conto delle ragioni del dolore, della vita, dell'infelicità, del fine dell'esistenza. L'infelicità non è solo una contingenza storica, ma è condizione eterna e immutabile di ogni essere vivente.
Leopardi espone in modo sistematico la propria drammatica scoperta della natura «matrigna» e dell'infelicità come dato eterno e immodificabile nelle Operette morali.

La ginestra: l'accettazione dell'arido e l'invito alla solidarietà

Con la nuova prospettiva, negli anni 1831-1837, Leopardi elabora una rivalutazione della ragione, che riconosce come vero e moderno strumento per mettere sotto accusa società per raggiungere la coraggiosa consapevolezza del «vero».
Ora il poeta usa la ragione per confutare l'Illuminismo e i miti progressisti diffusi dalla scienza, ma anche la fiducia provvidenzialistica del Cattolicesimo, che celebra il ruolo centrale assegnato da Dio all'uomo nell'universo.
Negli ultimi anni, insieme all'accettazione dell'«arido vero», il poeta-filosofo mostra di riconoscere il valore della ragione come strumento di riscatto per l'umanità. L’uomo, insieme ai suoi simili, può tentare la costruzione della nuova civiltà nella direzione di un legame universale di solidarietà, che permetta di affrontare coraggiosamente e con dignità intellettuale la consapevolezza del «vero» e il destino comune di infelicità.
Leopardi sostiene che con un buon uso dei «lumi» della ragione è possibile costruire una nuova morale, fondata non più sull'illusione di una natura amorosa, ma sulla solidarietà tra gli uomini, sola strada da percorrere con dignità: è questo l'ultimo grande concetto del pensiero leopardiano, espresso nella Ginestra.

Lo Zibaldone

Leopardi scrisse lo Zibaldone tra il 1817 e il 1832; l'opera è contemporaneamente cronaca e autobiografia, raccolta di appunti e pensieri di vario genere, critica letteraria, progetti di opere, abbozzi di componimenti poetici, ma anche dubbi e ricerche.
Il manoscritto originale è composto di circa quattromila pagine raccolte in sette taccuini e fu lasciato da Leopardi ad Antonio Ranieri che, però, non lo pubblicò. Ora è di proprietà dello Stato italiano ed è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. La prima edizione stampata, con il titolo “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, fu curata da una commissione governativa tra il 1898 e il 1900, in occasione del centenario della nascita di Leopardi. Il titolo originale dato dal poeta, Zibaldone di pensieri, comparve per la prima volta nell'edizione del 1937.
L'opera ha il carattere frammentario tipico del diario (Zibaldone significa infatti mescolanza confusa, disordinata di cose diverse), ma testimonia comunque il percorso intellettuale e spirituale di Leopardi: i principi fondamentali della poetica leopardiana; annotazioni filologico-linguistiche ed il problema dell'infelicità dell'uomo che mostrano anche gli aspetti umani del poeta, ne rivelano la profonda sofferenza fisica e psicologica.

Lo stile del non finito

Lo stile dello Zibaldone è scorrevole, a volte schematico. Ogni riflessione è datata con l'anno, il mese e il giorno di composizione, con abbreviazioni, annotazioni, frasi sospese, elementi tipici di una scrittura non rivista, a uso esclusivamente personale.

I Canti

Nelle Canzoni civili e filosofiche che aprono i Canti, Leopardi riflette sullo stato di decadenza dell'Italia, sulla cessazione del rapporto tra uomo e natura in età moderna e sull'impossibilità di una poesia di immaginazione per i moderni e sulla loro infelicità. Successivamente, Leopardi abbandonò l’ispirazione precedente per abbandonarsi a temi più personali ed intimi.
Leopardi scrisse i Piccoli idilli tra il 1819 e il 1821, nello stesso periodo in cui lavorò alle Canzoni civili e filosofiche (1817-1822). I riferimenti classico-mitologici e lo stile solenne lasciano però spazio a un discorso intimo e quotidiano, a componimenti più brevi e a strutture espressive più agili. Il poeta
rappresenta sé stesso attraverso il ricordo dei luoghi familiari e dei momenti vissuti a Recanati nella prima giovinezza. Il paesaggio e la contemplazione della natura sono lo spunto per riflessioni esistenziali serene e pacate, la lontananza temporale addolcisce il ricordo, espresso con parole vaghe e indefinite («interminati», «sovrumani», «infinito», «immensità», «nebuloso», «lontan») che testimoniano il piacere dell'immaginazione e della rimembranza.

Leopardi tradusse numerosi idilli del poeta greco Mòsco (II secolo a.C.); quando ne scrive di propri, però, rielabora con originalità il genere. Per i poeti greci dell'antichità, infatti, il componimento poetico comprendeva soltanto la descrizione, in un rapporto armonioso con la natura, mentre in Leopardi la percezione visiva e uditiva della realtà esterna è occasione per creare una poesia dell'immaginazione e del sentimento, della rimembranza e dell'indefinito. Alla "visione" del paesaggio subentra quindi il paesaggio interiore, cui si associa la riflessione filosofica.
Gli aspetti della realtà sensibile suscitano sensazioni visive e uditive indefinite e suggestive: nell'Infinito una siepe che impedisce di vedere parte del paesaggio spinge il poeta a immaginare un mondo lontano, sconfinato e immobile; il fruscio del vento tra le foglie sollecita il confronto tra il tempo dell'età presente e le età passate sepolte nel silenzio infinito.
L'infinito" è una delle poesie più celebri e significative di Giacomo Leopardi, scritta nel 1819 durante la sua giovinezza a Recanati. L’ispirazione per questo componimento nacque dall’esperienza personale del poeta, che si trovava su una collina nelle vicinanze della sua casa e osservava un ampio paesaggio dominato da un poggio coperto da una siepe. Sebbene questa siepe limitasse la vista, proprio questo limite visivo spinse Leopardi a immaginare ciò che si trovava oltre, dando così origine a un senso profondo di infinito.
La poesia esprime il contrasto tra il limite sensibile, rappresentato dalla siepe, e l’illimitatezza dell’immaginazione umana. Nel momento in cui il poeta si trova davanti all’ostacolo della siepe, la sua mente si spinge oltre quel confine fisico e materiale, evocando un'idea di infinito che va al di là del mondo concreto. Questa esperienza suscita in Leopardi un senso di piacere misto a una sorta di angoscia: il piacere nasce dalla contemplazione della vastità e dell’eterno, l’angoscia dall’impossibilità di coglierne completamente la realtà.
Filosoficamente, "L’infinito" rappresenta la tensione tra l’uomo e i limiti imposti dalla realtà. Leopardi riflette sulla condizione umana, caratterizzata dal desiderio di superare i confini del finito e dal confronto inevitabile con il nulla e l’ignoto. La siepe diventa così un simbolo del limite umano, mentre l’infinito è il desiderio irraggiungibile, l’ideale verso cui l’anima tende, ma che non potrà mai completamente afferrare.

Il silenzio poetico

Chiusa la stagione delle Canzoni civili e filosofiche e dei Piccoli idilli, Leopardi comincia un periodo di silenzio poetico, tra il 1823 e il 1828. Natura e illusioni hanno animato la prima poesia dell'autore, ma la nuova concezione pessimistica della natura, ora giudicata «matrigna», impedisce l'espressione dei sentimenti e dell'immaginazione. Nasce così la prosa filosofica delle Operette morali, in cui l'analisi dell'«arido vero» (la verità filosofica) arriva alla conclusione che il Male sia intrinseco alla condizione stessa dell'esistenza.

La genesi dell'opera

Leopardi scrisse la maggior parte delle Operette morali tra il gennaio e il novembre 1824 a Recanati. Si tratta di 24 testi in prosa di argomento filosofico, prevalentemente di tono satirico, scritti in forma di dialogo, ma anche di discorso o di narrazione. Da tempo il poeta voleva dedicarsi alla composizione di "dialoghi" e "novelle", come aveva confessato in una lettera del 1821 a Pietro Giordani, per arrivare a un'esposizione completa e strutturata di quelle riflessioni filosofiche che nelle pagine dello Zibaldone aveva annotato in modo sporadico e disorganico.

La scoperta dell'universale destino di infelicità

In questo periodo, Leopardi analizzava con scetticismo e spirito critico le correnti filosofiche dominanti del suo tempo, caratterizzate da un approccio ottimistico o religioso nei confronti della condizione esistenziale dell'uomo. In particolare, il poeta si proponeva di svelare la verità sul destino doloroso riservato all'uomo dalla natura, suggerendo di reagire all'infelicità con un atteggiamento dignitoso e coraggioso o di ironico distacco.

Le fonti letterarie e filosofiche

L'idea delle Operette fu ispirata soprattutto dalla tradizione della antica satira greca e latina, in particolare dai Dialoghi dello scrittore greco Luciano di Samosata (121-181 ca.), di cui Leopardi riprese il sarcasmo pungente, il gusto per il paradosso e l'invenzione fantastica, la varietà di registri linguistici e formali. La critica individua però nelle Operette anche influenza di molti altri generi letterari diffusi nel tardo Settecento come la saggistica e la narrativa filosofica degli illuministi francesi (Diderot, Voltaire), le raccolte di detti memorabili di uomini celebri, l'elogio (biografie celebrative di un personaggio illustre), il frammento apocrifo (estratti che si fingeva provenissero da opere antiche perdute). Leopardi fuse con sapienza queste svariate fonti, creando un'opera innovativa, fedele rappresentazione della sua biografia tormentata e della sua dolorosa visione esistenziale, durante il cruciale passaggio dal pessimismo storico a quello cosmico. Quindi le Operette rappresentano un originale tentativo di affrontare con metodo e rigore argomenti filosofici conciliandoli con l'eleganza del linguaggio letterario e l'arguzia della satira, strumento ideale per denunciare i miti dell'epoca.

I temi e i personaggi

Nelle Operette, insieme a temi già presenti nei testi precedenti, ne compaiono altri, che arricchiscono la concezione filosofico-esistenziale dell'autore:
• l'elogio del mondo antico, ricco di energie fisiche e spirituali, a cui viene contrapposto il mondo moderno, infiacchito, privato della originaria vitalità;
• la ricerca della felicità, condannata a un inevitabile insuccesso e contrassegnata dall'alternanza di brevi illusioni;
• la derisione delle teorie ottimistiche che mettevano gli uomini al centro dell'universo;
• la consapevolezza della natura «matrigna» e il conseguente passaggio dal pessimismo storico a quello cosmico;
• la teoria del piacere, secondo la quale è impossibile soddisfare la naturale aspirazione al piacere, perché non si può eliminare la contraddizione tra l'infinitezza del desiderio e i limiti della realtà;
• la noia dell'esistenza umana, generata dalla impossibilità di realizzare i propri desideri, e che si cerca di alleviare con la ricerca dell'ignoto;
• la morte come cessazione del dolore;
• la solidarietà tra gli uomini accomunati dalla coscienza dell'infelicità e del dolore dell'esistenza, con una visione "combattiva" della vita e il rifiuto del suicidio;
• la difesa della propria opera e del diritto di respingere ogni forma di inganno, generato dalla religione o dalla fiducia ottimistica nel progresso.

La molteplicità dei protagonisti

Per comunicare il proprio pensiero Leopardi ricorre a numerosi personaggi, provenienti sia dalla realtà sia dal mondo della letteratura e della filosofia. Vi sono uomini comuni identificati dalla propria professione o campo di studi (il fisico, il metafisico, un viaggiatore e un venditore di almanacchi), ma anche esseri fantastici, come il folletto o lo gnomo. Dalla letteratura attinge scrittori (Tasso e Parini) ma anche personaggi d'invenzione (Malambruno e Farfarello, diavoli dell'Inferno dantesco); altri protagonisti provengono dalla mitologia (Ercole, Atlante, Prometeo), dalla scienza (Copernico), dalla Storia (Cristoforo Colombo), dalla filosofia (Plotino e Porfirio). Infine, un gruppo consistente è costituito dalle personificazioni di concetti astratti, come la Natura, la Morte, la Moda.
Il "Dialogo della Natura e di un Islandese" è una delle prose filosofiche più importanti di Leopardi. In questo testo Leopardi mette in scena un confronto immaginario tra un uomo, rappresentato dall’Islandese, e la Natura stessa, personificata come un’entità viva e autonoma.
Nel dialogo, l’Islandese si rivolge alla Natura per chiedere perché gli esseri umani siano destinati a soffrire e perché la vita sia così piena di dolore e ingiustizie. La Natura risponde in modo apparentemente crudele e indifferente, spiegando che essa non agisce con intenti morali, ma solo secondo leggi impersonali e necessità. La Natura dice di creare e distruggere senza riguardo per le speranze e le sofferenze degli uomini, poiché il suo scopo è mantenere l’equilibrio e la vita nel cosmo, non proteggere o favorire nessun individuo.
Questo confronto riflette la visione profondamente pessimistica di Leopardi, che vede nella Natura una forza cieca e indifferente, lontana dall’idea romantica di una natura benevola o madre protettrice. L’uomo, a differenza della Natura, è consapevole della propria finitezza, della sofferenza e della vanità della vita, ma la Natura non risponde alle sue domande esistenziali con consolazione o giustizia.
Il significato filosofico del dialogo sta nell’illustrare l’incomprensibilità e la durezza dell’esistenza umana, schiacciata tra il desiderio di felicità e il freddo meccanismo naturale che non concede né scopi né senso ultimo. Leopardi denuncia la mancanza di una giustizia cosmica e mette in luce la solitudine e la fragilità dell’uomo di fronte a un universo senza finalità.

I Canti: i Grandi idilli

Negli anni del silenzio poetico, quelli che separano i Piccoli idilli (1819-1821) dai Grandi idilli (1828-1830), Leopardi compie un importante processo di trasformazione umana e culturale che lo riporta a comporre versi con una nuova e più matura consapevolezza. Tra queste esperienze ricordiamo: il provvisorio allontanamento da Recanati; la deludente esperienza romana; gli incontri di Bologna con Pietro Giordani e l'amore per la contessa Teresa Carniani Malvezzi; l'ampliamento delle relazioni sociali e la frequentazione, a Firenze, degli intellettuali riuniti nel gruppo dell'"Antologia" e attorno a Vieusseux; la meditazione ideologica e la stesura delle Operette morali (1824); il trasferimento a Pisa (novembre 1827) e la ripresa dell'ispirazione poetica.

La poesia della «rimembranza» e dell'«acerbo vero»

La fonte prima del sentimento poetico, alla base di questa fase della produzione leopardiana, è ancora la «rimembranza», di per sé dolce ma anche dolorosa, per ciò che svela alla memoria: alla dolcezza del ricordo si unisce ora la cognizione del presente e delle perdute illusioni giovanili. Per questo motivo i Canti pisano-recanatesi propongono immagini liete, create dalla memoria (il «caro immaginar»), ma accompagnate costantemente dalla crudezza dell'«acerbo vero», da un sistema filosofico fondato su un pessimismo assoluto, definito dalla critica pessimismo cosmico.

A Silvia: la fine delle illusioni giovanili

"A Silvia" è una delle poesie più celebri e intense di Giacomo Leopardi, scritta nel 1828. In questa lirica Leopardi rievoca il ricordo di Silvia, una giovane donna che rappresenta l’ideale e la speranza giovanile.
La poesia inizia con un’atmosfera di incanto e nostalgia, attraverso immagini poetiche come «il maggio odoroso» e «le vie dorate», che evocano la spensieratezza e la bellezza della giovinezza. Silvia è descritta come una ragazza piena di sogni e aspettative per il futuro, «assai contenta / Di quel vago avvenir» che immagina con fiducia.
Tuttavia, la poesia prende una piega amara: Silvia è morta prematuramente, e con lei sono svanite le illusioni e le speranze di felicità di Leopardi stesso e, simbolicamente, di tutta la gioventù. La morte di Silvia diventa così il simbolo della «felicità delusa», del tragico incontro tra i sogni e la crudele realtà, che si manifesta con la dura consapevolezza alla «apparir del vero».
Il significato filosofico di "A Silvia" si radica nel pessimismo leopardiano: la poesia riflette la consapevolezza della finitezza della vita e della fugacità delle illusioni giovanili, evidenziando come la speranza spesso venga infranta dalla realtà dolorosa. Silvia non è solo una persona, ma un simbolo universale della giovinezza perduta e del contrasto tra l’anelito umano verso la felicità e l’ineluttabile sofferenza.

La quiete dopo la tempesta: la teoria del piacere

“La quiete dopo la tempesta” è un idillio che si apre con una vivida descrizione della vita paesana e dei motivi naturali tipici della tradizione idillica. Leopardi ci presenta il borgo che lentamente riprende vita dopo il passaggio di un violento temporale, un’immagine che coniuga l’osservazione del paesaggio con un senso di rinnovamento.
Questa prima parte descrittiva non è però soltanto un semplice ritratto naturalistico: racchiude un significato più profondo legato alla teoria del piacere negativo. Infatti, la strofa finale rivela che il piacere è «figlio d’affanno», cioè nasce dal dolore o dalla sofferenza. Proprio come la “quiete” dopo la “tempesta” sembra un dono della natura che concede agli uomini un attimo di sollievo, così la fine di un dolore provoca un piacere momentaneo e fugace.
Il significato filosofico di questa lirica riflette il pessimismo leopardiano: il piacere non è mai qualcosa di positivo in sé, ma deriva sempre dall’aver superato un male o un affanno. La gioia è quindi condizionata dalla sofferenza e non può essere duratura. L’idillio rappresenta così in modo simbolico la condizione umana, in cui la felicità è effimera e subordinata alla negazione del dolore, confermando la visione di Leopardi secondo cui l’esistenza è dominata dalla sofferenza.

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: la ricerca del significato dell'esistenza

Nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia al motivo della «ricordanza» subentra l'aspirazione universale dell'uomo a comprendere il significato dell'esistenza. Sullo sfondo di un paesaggio sconfinato e solitario dell'Asia, un umile pastore - portavoce del poeta - domanda alla silenziosa Luna quale senso può mai avere la propria vita, che si svolge sempre uguale, simile in questo a quella dell'astro, che percorre in eterno lo stesso cammino; e quale senso abbia la vita dell'uomo, che incomincia già nel dolore della nascita e si conclude nel nulla della morte. Però alle sue domande non ci sono risposte, così come non gli può rispondere il gregge, cui il pastore poi si rivolge, per conoscere la ragione di quella sua serenità incosciente. Forse, si chiede infine l'uomo, sarebbe stato più felice se fosse nato uccello del cielo, ma anche questa ipotesi appena accennata è subito respinta: tutti gli esseri viventi, uomini e animali, sono condannati a compiere un viaggio senza senso in un universo indifferente.

Il ciclo di Aspasia

L'ultima fase della produzione letteraria di Leopardi coincide con il suo allontanamento definitivo da Recanati, a partire dal secondo soggiorno fiorentino. La critica più recente ha messo in relazione la nuova coscienza di sé, manifestata in questi anni dal poeta, con l'amore, se pure non corrisposto, per l'affascinante Fanny Targioni Tozzetti. Non si trattò di una autentica relazione amorosa, ma era nuovo lo stato d'animo di Leopardi che, nei Canti composti in questo periodo, riconosceva all'amore l'estremo potere - rivelatosi poi illusorio - di riscattare un'intera vita di affanni. La celebrazione dell'amore ispirò una poesia anti-idillica, cioè non più basata sui sogni e i desideri ingannevoli della giovinezza, recuperati dalla memoria, ma combattiva ed energica, sempre più cosciente del proprio valore artistico ed esistenziale.

L'amore come ultima illusione e l'affermazione di una visione eroica dell'esistenza

Il ciclo di cinque canti, denominati Ciclo di Aspasia (Aspasia era il nome di una cortigiana vissuta nel V secolo a.C. e amata dall'ateniese Pericle che Leopardi attribuì a Fanny Targioni Tozzetti), è composto da:
• Il pensiero dominante, in cui l'amore è visto come l'unica potenza capace di sconfiggere il tempo;
• Il canto Amore e Morte, che presenta le due entità come fratelli che generano coraggio ed eroica determinazione. La Morte è una fanciulla bellissima che fa cessare ogni dolore quando si ha il coraggio di contemplarla senza viltà; l'Amore, sempre a lei unito, è l'unica consolazione concessa al genere umano. L'amore non è più per il poeta un'illusione giovanile ma un sentimento che dà la forza di affrontare la natura, il destino, la morte;
• Consalvo, in cui il tema raggiunge il culmine nel bacio che l'innamorato, protagonista della lirica, ottiene quando, morente, confessa alla donna il proprio amore;
• Il canto A sè stesso che rappresenta una brusca interruzione del sentimento verso una donna concreta: morte le speranze dell'amore e il desiderio di altri inganni, l'io lirico invita il proprio cuore a riposare per sempre, alla virile rinuncia a ogni desiderio vitale
• Il canto Aspasia, in cui Leopardi si rivolge alla donna un tempo amata e ne evoca il volto; tuttavia emerge la consapevolezza negativa di aver amato non già una donna vera, ma solo una sua «eccelsa imago», una rappresentazione creata dal proprio cuore: al sorriso amaro per la propria infelicità si accompagna la rivendicazione della propria solitaria libertà
“A sé stesso” è una delle poesie più intense e amare di Leopardi, in cui il poeta si rivolge direttamente a sé stesso con un tono di severo rimprovero. Il testo esprime un profondo sentimento di disillusione e rassegnazione di fronte alla realtà dolorosa dell’esistenza.
Nel componimento, Leopardi descrive la sua anima come chiusa in un dolore muto, una sofferenza che si alimenta di sé stessa e che si è ormai rassegnata a un destino di solitudine e oscurità. La poesia riflette la consapevolezza della fine di ogni illusione e della necessità di una dura sopportazione interiore: l’anima deve trovare in sé stessa la forza per non cedere alla disperazione.
Il significato filosofico di “A sé stesso” si inscrive nel pessimismo radicale leopardiano, dove la sofferenza è vista come una condizione inevitabile della vita. Il poeta esprime l’idea che la felicità non è che un’illusione e che il vero destino dell’uomo è la lotta contro un dolore senza speranza di consolazione. In questo contesto, l’unica via è la resistenza silenziosa, un “addolcimento” del dolore che però non elimina la sua presenza.
La poesia è quindi un’espressione di dolore intimo e di autocoscienza amara, in cui Leopardi si fa portavoce di un sentimento esistenziale universale: la solitudine dell’individuo di fronte all’ineluttabilità del destino e alla vanità di ogni speranza.

La ginestra: il testamento spirituale

Negli anni tra il 1819 e il 1823 Leopardi prese definitivamente le distanze dalla religione e aderì al materialismo. Il poeta ora riteneva che, nonostante la grande forza illusoria, il Cristianesimo non avesse reso l'uomo meno infelice; pensava, anzi, che l'etica cristiana, incentrata sull'umiltà e la rassegnazione, avesse come conseguenza l'annullamento delle energie vitali. Nello stesso tempo il suo pessimismo respinse ogni conforto derivante da una concezione finalistica o provvidenziale, ribadì l'idea di una natura matrigna e giunse a una visione disillusa dell'umanità, specie non privilegiata e trascurabile dell'universo.
Da questi presupposti nacque “La ginestra o il fiore del deserto”, un canto polemico sia contro qualsiasi forma di fiducia religiosa sia contro la vana e folle superbia antropocentrica, cioè la convinzione che l'uomo sia padrone e artefice del proprio destino e che con la sua intelligenza sia destinato a migliorare progressivamente la propria condizione. Il poeta vi afferma un'idea di progresso fondata non sull'ottimismo, ma sul pessimismo, animato però di una nuova vitalità e di una nuova volontà di lotta. Data l'immutabilità dell'infelicità umana, è necessario accettare con coraggio la verità della propria mancanza di significato nell'universo, stringersi in una «social catena», in un patto di solidarietà contro la minaccia della natura, le sopraffazioni e le ingiustizie sociali.

L'allegoria del «fiore del deserto»

Leopardi esprime il proprio rifiuto dell'assolutismo delle idee metafisiche, ma anche dei facili miti della scienza, fatti propri in quegli anni da molti intellettuali italiani ed europei. Sostituisce questi principi illusori con una nuova moralità laica di solidarietà sociale, senza i tratti eroici e individualistici di una sfida, ma come atteggiamento comune di tutta l'umanità.

A questo si accompagna anche una mutata rappresentazione del paesaggio: le immagini vaghe e indefinite del panorama recanatese, tipiche degli idilli, lasciano il posto all'arido ambiente vesuviano, ricoperto da cenere e distese di lava. La ginestra, che fiorisce anche nei deserti, è allegoria della pietà che consola gli esseri perseguitati dalla natura e della vita che resiste alla distruzione: come essa accetta dignitosamente la morte, ma sa tornare a rifiorire tra la lava, così l'uomo dovrebbe accettare la propria insignificante condizione nell'universo e il proprio inevitabile destino.

Domande e risposte

Hai bisogno di aiuto?
Chiedi alla community