Concetti Chiave
- Giacomo Leopardi, nato a Recanati nel 1798, è cresciuto in un ambiente familiare complesso che ha influenzato sia la sua vita personale che la sua produzione letteraria.
- La formazione culturale di Leopardi è stata caratterizzata da intensi studi classici e da una corrispondenza significativa con Pietro Giordani, che ha contribuito alla sua "conversione letteraria".
- Leopardi esplora il tema dell'infelicità umana, inizialmente attribuendolo alla civiltà moderna che distrugge le illusioni, per poi considerare la natura stessa come causa intrinseca dell'infelicità.
- Il pessimismo di Leopardi evolve dal pessimismo storico, che vedeva una perdita di illusioni con la modernità, al pessimismo cosmico, riconoscendo l'indifferenza universale della natura verso la vita umana.
- Leopardi utilizza un linguaggio semplice e sobrio nelle sue opere, spesso incorporando latinismi e grecismi, e privilegia una metrica basata su versi endecasillabi e settenari.
Indice
- Infanzia e famiglia di Leopardi
- Formazione culturale e biblioteca paterna
- Amicizia con Pietro Giordani
- Pessimismo storico leopardiano
- Pessimismo cosmico e civiltà
- Dialogo di Plotino e Porfirio
- Stile e linguaggio di Leopardi
- Dialogo della Natura e di un Islandese
- Trama
- Alla luna e giovinezza
- Ultimo canto di Saffo
- Il sabato del villaggio
- A se stesso e Fanny Targioni Tozzetti
- La ginestra e il Vesuvio
Infanzia e famiglia di Leopardi
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 1798. È il primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Le sprovvedute speculazioni finanziarie del conte Monaldo hanno condotto la famiglia ad una situazione fallimentare ma con il passaggio della gestione del patrimonio alla madre Adelaide si riuscirà a ristabilire le condizioni economiche precedenti. Adelaide Antici era una donna fredda, dura e arcigna che avrà un forte impatto sia sulla dimensione umana che su quella letteraria, le quali vanno di pari passo, di Giacomo Leopardi.
Formazione culturale e biblioteca paterna
La formazione culturale di Giacomo e di due dei suoi fratelli è affidata a precettori casalinghi, i quali uniscono la visione classicista di Monaldo e la rigida visione religiosa di Adelaide. Oltre all’insegnamento dei precettori, fondamentale per la formazione culturale di Leopardi è il diretto contatto con la sterminata biblioteca paterna. Della sua formazione si ricordano i sette anni di studio matto e disperatissimo, tra il 1809 e il 1816, che conferiranno a Leopardi una vastità e una sicurezza straordinaria. Dedicandosi totalmente allo studio della letteratura, Leopardi assumerà grande consapevolezza dei classici oltre che un erudizione solidissima.
Amicizia con Pietro Giordani
Fondamentale per la formazione del letterato è la corrispondenza e l’amicizia con Pietro Giordani, iniziata nel 1917. I contatti con Giordani portano Leopardi a rompere con le posizioni cattoliche e reazionarie della famiglia portandolo ad assumere una visione quasi utilitaristica, di impegno nel presente che da alla sua erudizione e alle sue abilità filologiche una dimensione filosofica e civile. Riguardo a questo cambio di visione di Leopardi si parla dunque di conversione letteraria, la quale segna il passaggio da un modello di intellettuale erudito a quella del letterato moderno.
Pessimismo storico leopardiano
Leopardi organizza la prima propria riflessione filosofica intorno al 1817-1818, i cui termini sono quelli tipici dell’illuminismo settecentesco. il problema che leopardi affronta immediatamente è quello della infelicità umana. In questa prima fase del suo pensiero, l’infelicità non dipende dalla natura, la quale è considerata come un’entità positiva e addirittura benefica poiché è pur vero che l’infelicità umana è una costante, cambia piuttosto la visione che si ha della natura, incapace di garantire la felicità, che in questo caso conferisce agli occhi degli uomini delle illusioni in grado di non far assumere loro la consapevolezza della loro infelicità. La civiltà però ha distrutto queste illusioni, mostrando ai propri occhi la propria condizione del genere umano, l’infelicità. Sostanzialmente è come se la civiltà umana fosse passata ad un grado maggiore di infelicità, una condizione dove si è consapevoli della propria condizione necessaria.
Si giunge a parlare dunque del pessimismo storico leopardiano, secondo cui l’infelicità del genere umano non è qualcosa di costitutivo, esistenziale ma di storico. Leopardi afferma, infatti, che gli antichi erano capaci di grandi illusioni mentre la civiltà moderna le ha perse completamente. Inoltre, però, è possibile recuperare quelle illusioni che rendevano una vita meno infelice attraverso l’eroismo. Tra il 1819 e il 1823 il sistema della natura e delle illusioni entra in crisi a causa di diversi fattori. - il distacco con il cattolicesimo è l’avvicinamento al sensismo illuministico per cui le idee partono dalle sensazioni e il comportamento umano è finalizzato alla conquista dell’utile. - l’esito fallimentare dei moti rivoluzionari carbonari del del 1821, il quale riduce la sfiducia nel valore dell’impegno civile - la realtà romana che delude le speranze di una vita al di fuori della realtà recanatese Questi fattori, contribuiscono all’acquisizione di un punto di vista maggiormente rigoroso e materialistico. da questo punto di vista è respinta ogni ipotesi sull’esistenza di elementi spirituali, a partire dall’anima umana. Leopardi conclude con il dire che “il corpo è l’uomo” dunque il corpo pensa, “ è materia pensante”. (collegamento per contrasto con materia e memoria di Bergson) Da questa visione nasce anche quella che Leopardi chiama “ teoria del piacere” per cui l'uomo aspira naturalmente al piacere ma questo, il piacere desiderato è sempre superiore al piacere effettivamente conseguito e conseguibile. Il desiderio è esistenzialmente illimitato per cui è impossibile giungere ad uno stadio di soddisfacimento stabile.
Già nella fase precedente la natura era incapace di garantire agli uomini la felicità ma quantomeno grazie alle illusione poteva essere considerata una madre benevola, facendo ricadere sull’uomo stesso la colpa di aver preteso di conoscere ciò che sarebbe dovuto rimanere ignoto. Ora, al contrario, la colpa dell’infelicità umana viene fatta ricadere interamente sulla natura, colpevole di determinare la tipica umana tendenza al piacere e alla felicità per poi non permettere il soddisfacimento dei propri desideri e obiettivi.
Pessimismo cosmico e civiltà
A questo punto non sono più delle condizioni storiche ad essere poste come cause dell’infelicità umana. Si parla dunque di pessimismo cosmico, secondo cui la vita stessa è , nella sua organizzazione universale, orientata verso il solo perpetuare dell’esistenza senza alcuna considerazione per la sua qualità. Da questo ne si deduce una riflessione sulla civiltà che Leopardi teorizza sulla civiltà, descrivendolo coma una sorta di arma a doppio taglio: da un lato la civiltà è l’arma attraverso la quale l’uomo ha ha saputo acquisire consapevolezza sulla sua condizione, recuperando se non la possibilità di essere felice almeno la dignità della propria coscienza e consapevolezza. D’altro canto la civiltà sottraendo l’uomo al dominio della natura e delle illusioni lo ha reso più fragile ed egoista, segnando con il marchio dell’artificialità e dell’inautenticità ogni momento. L'aspetto che maggiormente Leopardi critica della civiltà è la lotta disperata tra gli uomini per la propria affermazione individuale, una lotta di tutti contro tutti. A questo punto della sua poetica Leopardi trova per certi versi un approdo provvisorio in una specie di saggezza distaccata e scettica, ispirata dal pensiero greco elennistico. Leopardi rinuncia alla stesura poetica ed espone nelle Operette morali la propria filosofia pessimistica e disincantata, colpendo attraverso il sarcasmo le illusioni dei propri contemporanei. Questo atteggiamento distaccato è conseguenza di un aspetto ancora irrisolto nella sua filosofia, il giudizio sulla civiltà. Leopardi non smette mai di analizzare e osservare gli stili di vita e i modi di pensare degli antichi e dei moderni. Infine anche a causa del contatto con l’ambiente liberale dei cattolici fiorentini arriva a elaborare uno sviluppo ulteriore è definitivo. In quest’ultima fase torna ad essere primario l’impegno civile dell’ intellettuale.
Dialogo di Plotino e Porfirio
In leopardi, a partire dal “Dialogo di Plotino e Porfirio” contenuto nello Operette morali si assiste ad una vera e propria valorizzazione della dimensione sociale nell’esperienza umana. Ciò consente anche a Leopardi di analizzare la questione del suicidio, ampiamente presente nella sua poetica. Per Leopardi il suicidio è viltà e egoismo perchè provoca un’ulteriore sofferenza nei vivi. Piuttosto che il suicidio, la soluzione che il genere umano dovrebbe intraprendere è quella dela comune aiuto, si evince in Leopardi quasi una pietà per il genere umano da cui si può e si dovrebbe costruire una morale fondata sulla fraternità sociale. (la social catena) A questo punto il pensiero leopardato assume i connotati di un progetto di civiltà: tutti gli uomini, consapevoli della loro condizione, devono allearsi contro il nemico comune, la natura, non per annullare la loro infelicità ma per ridurre il suo impatto sulla vita.
Stile e linguaggio di Leopardi
Il linguaggio scelto da leopardi è semplice, sobrio ed essenziale. le parole che utilizza sono spesso di origine arcaica come latinismi e grecismi. Utilizza soprattutto i versi endecasillabi e settenari. Leopardi respinge la retorica e l’imitazione.
Le Operette morali vengono pubblicate nel 1824. Tra gennaio e novembre, Leopardi scrive venti prose di argomento filosofico, di taglio satirico, in forma di narrazione, discorso o dialogo. le operette morali si aprono con la storia del genere umano, una prosa che narra secondo una prospettiva mitica e allegorica le vicende dell’umanità. queste sono raggruppate in varie epoche tutte però segnate dalla disperata ricerca della felicità.
Questo dialogo fu scritto tra il 21 e il 30 maggio 1824. Esso ha un significato centrale nella riflessione filosofica leopardiana, affronta il tema nodale della natura. In questo dialogo crolla ogni fiducia o giustificazione nei confronti della natura, considerata quale forza spietata e impersonale, indifferente al destino degli uomini e dunque nemica della loro felicità. Islandese: Leopardi sceglie un abitante dell’Islanda influenzato da alcune pagine di Voltaire in cui descrive il clima e l’ambiente disagevole di quel paese.
Dialogo della Natura e di un Islandese
Trama
Un Islandese è fuggito alla natura per tutta la sua vita, convinto che essa perseguiti gli uomini rendendoli infelici. Mentre si trova nel cuore dell’Africa, se la ritrova davanti in una figura di donna gigantesca. Nel dialogo la Natura si trova del tutto indifferente alla felicità o all’infelicità degli uomini. Non se ne accorgerebbe se un uomo soffrisse tanto meno se questo fosse immensamente felice, anche se tutta la specie umana si estinguesse lei non se ne accorgerebbe poiché il suo unico scopo è quello di mantenere ordinato e costante il ciclo perpetuo di produzione e distruzione della vita.
Leopardi sceglie appositamente per questo dialogo un “portavoce” anonimo, al contrario degli altri dialoghi nei quali hanno la parola figure di rilievo nel loro campo. La scelta di Leopardi sta ad indicare una condizione comune a tutti gli uomini. Inoltre la scelta è dettata anche dalla concezione leopardiana della filosofia per cui questa possieda una valenza esistenziale e non sia invece una professione specialistica.
Il materialismo presente nel testo è piuttosto espresso dalla Natura che dal’Islandese. L’uomo si limita ad elencare e descrivere le sue vicende e la sua condizione disagiata. Le domande che l’Islandese pone alla natura non possono avere una risposta soddisfacente ma solo risposte nei fatti che confermano la logica materiale del circuito di perpetua distruzione e produzione naturale. Che ad uccidere l’islandese siano due leoni o una tempesta di sabbia è indifferente l’importante è che sia una motivazione naturale. Leopardi non è disposto a rinunciare alla visione materialistica anche ai suoi occhi le leggi materiali non hanno un significato soddisfacente, per cui l’unica opzione che rimane agli uomini è quella di denunciare, come fa l’Islandese, la verità cruenta e dolorosa che conosce.
Alla luna e giovinezza
Alla luna fu composta a Recanati nel 1819. Fa parte degli “Idilli” e venne pubblicata la prima volta nel 1826. I suoi temi sono la giovinezza, l’ansia, l’infelicità dell’io, cui si contrappongono il piacere suscitato dal ricordo e dal fascino consolatorio della natura, qui emblematizzata dalla luna. La luna è un elemento del paesaggio, in questo caso è una sineddoche della natura, intesa come armonia e bellezza con la quale l’io si sente in perfetta comunione. La giovinezza è per Leopardi un età difficile, le tre parole che la qualificano sono: - angoscia: un'ansia indefinita - travagliosa: ovvero tormentata e piena di ostacoli - affanno: nel senso figurato di dolore Il piacere del ricordo: Il potere del passato ha il potere di mitigare l’angoscia, almeno temporaneamente e di produrre piacere persino quando il passato è triste, poiché la lontananza rende le cose indefinite e vaghe e dunque piacevoli. Inoltre nel giovane l’effetto benefico del ricordo è maggiormente benefico poiché la dimensione del passato è meno estesa e dunque gli eventi da ricordare anche se infelici sono meno rispetto alla dimensione del futuro e dunque della felicità che si può sperare di raggiungere.
Ultimo canto di Saffo
“Ultimo canto di Saffo” è una canzone legata al tema del suicidio, scritta nel maggio del 1922. Secondo una dichiarazione dell’autore, quest’opera, intende rappresentare l’infelicità di un animo delicato e nobile. posto in un corpo brutto e giovane. Tanto la bruttezza di Saffo quanto il suo amore infelice per il giovane Faone appartengono alla leggenda così come il suicidio dalla rupe Leucade.
La canzone è composta da quattro stanze di diciotto versi, tutti endecasillabi eccetto i penultimo che è settenario. Dei diciotto versi, sedici sono scritti con rima libera mentre gli altri due con rima baciata.
Nella canzone emerge il conflitto tra la infelice poetessa greca Saffo, dall’animo sensibile ma esteticamente brutta e la natura che ella comprende ma alla quale resta estranea. Ne esce anche in questo caso un’accusa fiera al destino degli uomini e agli Dei. In questa canzone si nota la rinuncia al tema civile ed emerge invece una denuncia in termini esistenziali e filosofici.
E notte, poco prima dell’alba. la luna sta tramontando e sorge Venere, precedendo il sole. Ma un paesaggio così dolce è ormai inadatto alla sofferenza dell’animo di Saffo, la quale diventa consapevole, attraverso l’amore, dell’infelicità umana e infatti sceglie di descrivere paesaggi cruenti e violenti. La bellezza armoniosa della natura è rappresentata in pochi tratti di alta intensità evocativa: il cielo stellato, la terra umida… a questa bellezza si contrappone però l’infelicità di Saffo, il cui amore per la natura non è apprezzato né ricambiato e anticipa l’amore infelice per Faone. I passi insicuri della protagonista dell’opera sembrano suggerire l’idea di un corpo maldestro, addirittura che la stessa natura sembra rifiutare il contatto: il verso del ruscello devia verso i fiori belli pur di non toccare i piedi di Saffo. Successivamente la poetessa sottolinea la propria innocenza per mettere ancora meglio in risalto l’inspiegabile gratuità delle sofferenze che l’accompagnano. Saffo assume la consapevolezza (vv. 46-47) che tutto è misterioso eccetto il proprio dolore. Questa condizione porterà la poetessa a prendere la decisione di uccidersi, augura all’amato Faone di essere felice essendo però consapevole dei limiti della felicità umana.
Il sabato del villaggio
Il canto viene composto a Recanati nel settembre del 1829, quasi contemporaneo a La quiete dopo la tempesta, la poesia immediatamente precedente. Fa parte del ciclo pisano-recanatese dei Canti, e l’idea intorno alla quale ruota il componimento è illustrata da un passo dello Zibaldone.
Il sabato del villaggio di Leopardi è una canzone libera di quattro strofe di lunghezza diversa. Le rime sono numerose e producono una notevole musicalità. Il componimento è strutturato in due tempi nettamente scanditi, come in un apologo (cioè in un racconto provvisto di una conclusione morale). La scissione fra i due momenti è netta: la sezione descrittiva occupa la maggior parte del testo senza mescolarsi mai (come accade invece in altre poesie leopardiane) con le considerazioni di tipo 'filosofico' intorno al piacere. La prima strofa, molto più lunga delle altre, descrive con stile melodioso uno squarcio di vita paesana. È la sera del sabato: i contadini rientrano dai campi, le persone anziane siedono a parlare davanti alle case e i fanciulli giocano in piazza. Alle percezioni visive subentrano presto quelle acustiche: il «lieto rumore» dei fanciulli, che «riconforta» il cuore, il fischiettare del contadino che pensa con gioia al meritato riposo. I suoni dominano nella seconda strofa: nel silenzio della notte, infatti, si sentono solamente i rumori degli attrezzi del falegname, il quale si affretta a terminare il lavoro per godersi anche lui la festa. L'io del poeta è assente dal racconto ma il lettore lo immagina mentre, insonne nella notte e isolato dalla vita del paese, sente i rumori del mondo circostante e li interpreta: forse proprio per questo i suoni hanno tanto rilievo. Anche la seconda parte dell'apologo, quella che inizia con la considerazione che il sabato «di sette è il più gradito giorno», è divisa in due movimenti distribuiti in due strofe brevi. Nella prima il piacere del sabato è contrapposto alla «tristezza» e alla «noia» della domenica. Finita l'attesa della festa, la festa diventa infatti l'attesa del ritorno, non gradito, al «travaglio usato», alla fatica quotidiana. Nella seconda, contenente la vera e propria morale, la dinamica sabato-domenica è tradotta sul piano esistenziale come rapporto tra fanciullezza e maturità. Ma Leopardi mostra una sorta di reticenza («altro dirti non vo'») a proclamare che la vita adulta è «tristezza e noia», e si limita a esortare il fanciullo ideale a cui si rivolge sul finale («garzoncello scherzoso») a godersi la «stagion lieta» della giovinezza: un moderno carpe diem ('cogli l'attimo').
A se stesso e Fanny Targioni Tozzetti
A se stesso, lirica composta probabilmente nel maggio del 1833, si lega a una precisa pagina della biografia leopardiana: la fine della passione nutrita dal poeta per l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti. Questa breve poesia fu pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti (1835), e fa parte della sezione dei canti fiorentini. Per comprendere a pieno il significato di A se stesso è necessaria una lettura in chiave narrativa dei Canti, ossia una lettura che tenga conto delle poesie che nella raccolta la precedono, Il pensiero dominante e Amore e Morte: mentre in quelle era celebrata la potenza del sentimento amoroso, in questa si registrano gli effetti devastanti della fine di quell’ultima illusione, di quell’«inganno estremo» (v. 2). Il titolo annuncia un soliloquio che, per il suo contenuto mortuario, prende la forma di un’iscrizione tombale. Il soggetto si chiude in se stesso e invita il proprio cuore ad abbandonare la vita, la speranza, i palpiti, a constatare l’insensatezza di tutte le cose e a disprezzare se stesso e il resto del mondo. Il collasso del desiderio e della vita si traduce in un collasso della forma poetica: all’opposto della retorica elaboratissima delle canzoni, le frasi che compongono questo testo sono tronche, spezzettate, danno spesso l’impressione di essere incomplete e di rimanere sospese, e si susseguono tumultuosamente, come fremiti di disgusto e di collera. All’opposto degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, non c’è alcuna ricerca di dolcezza e fluidità sonora, ma, al contrario, c’è la scelta di una forma carica di energia e violenza.
La ginestra e il Vesuvio
La ginestra o il fiore del deserto viene composta da Leopardi nella primavera del 1836. La ginestra è il testo più lungo dei Canti: le sue sette strofe hanno dimensioni eccezionali e i suoi lunghi periodi si snodano a volte a cavallo di decine di versi (vv. 17-32, 98-110, 167-185). Si tratta, quindi, di un vero e proprio poemetto lirico-filosofico.
Nella prima strofa: la ginestra è scelta come interlocutrice del poeta e le pendici del Vesuvio, sede un tempo di città fiorenti e ora deserte e cosparse di rovine (prodotte dalle eruzioni del vulcano), costituiscono lo 'spazio simbolico' del destino tragico dell'umanità. A prevalere, in questa strofa iniziale, è il sarcasmo, che culmina con l'irrisione dei falsi idoli del progresso umano («le magnifiche sorti e progressive», v. 51). Nella seconda strofa: il poeta definisce l'Ottocento «secol superbo e sciocco» (v. 53) e lo accusa di avere rifiutato le coraggiose verità del pensiero razionalista; a dominare sono ancora il tono e le parole sprezzanti dell'invettiva. La terza strofa: oppone la stupidità di chi si rifiuta di constatare la miseria umana alla grandezza di chi osa guardare in faccia questa miseria e attribuirne la responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini sono chiamati a far fronte comune e a stringere legami di solidarietà sociale («social catena», v. 149). Nella quarta strofa: la prospettiva dell'infelicità umana si allarga: dall'esperienza individuale del poeta – che rievoca momenti di contemplazione notturna dello spazio sconfinato – scaturisce una meditazione universale indotta dalla visione degli spazi celesti. Di fronte alle inutili pretese dell'uomo di essere il centro dell'universo si stempera il tono sdegnato del sarcasmo, e il poeta – così scrive – non sa se cedere alla compassione o al riso. La quinta strofa: contiene una lunga similitudine: come un frutto che distrugge, cadendo da un albero, un intero formicaio, allo stesso modo l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. si riversò disastrosamente sulle città sottostanti (Pompei, Ercolano, Stabia), cancellandole; per la natura indifferente, dunque, il destino dell'uomo non conta più di quello di una formica. Nella sesta strofa: si osserva l'incessante potenzialità distruttiva del vulcano e viene presentato un raffronto fra il tempo umano e i grandi cicli naturali, che in un moto lentissimo ma continuo travolgono ogni cosa, anche se appaiono immobili. Nella settima e ultima strofa: il poeta si rivolge nuovamente alla ginestra e ne elogia l'umiltà e il coraggio: fragile consolatrice del deserto, anche la ginestra è destinata a soccombere alla «crudel possanza» (v. 300) della natura; ciò non ne scalfisce l''eroismo', ma, anzi, lo esalta. Qui, il tono oramai commosso e il lessico vago («lenta, odorate, adorni, molli») suggeriscono la partecipazione del poeta al destino di annientamento di tutte le cose e, in particolare, all'eroica resistenza della ginestra.
Il tema fondamentale della poesia è la contemplazione del paesaggio vesuviano, specchio perfetto della condizione umana e del rapporto tra uomo e natura. Il paesaggio appare di volta in volta desertico, minaccioso, imponente, estraneo: esso incarna l'indifferenza e la ferocia che Leopardi, a questo punto della sua riflessione poetica e filosofica, attribuisce alla natura. La natura è la responsabile del dolore degli uomini e, più in generale, della sofferenza di tutti gli esseri viventi. Questa posizione è radicalmente diversa da quella che Leopardi aveva sostenuto anni prima, al tempo del cosiddetto 'pessimismo storico', quando, cioè, la negatività del presente era vista come perdita di una condizione primitiva relativamente felice. Il cambiamento di prospettiva si è operato intorno al 1824 con la scrittura delle Operette morali. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese appare, infatti, per la prima volta l'immagine di una natura 'matrigna', che infligge alle proprie creature ogni sorta di sofferenza (intemperie, cataclismi, malattie), fino a portarle alla morte, necessaria al rinnovamento del ciclo biologico. Questa concezione della natura resta sullo sfondo nei Canti fino al periodo napoletano, quando diventa centrale nella serie di poesie che culmina nella Ginestra. È questa visione negativa della natura, per cui ogni essere vivente è condannato all'infelicità, che ha motivato la definizione di 'pessimismo cosmico' per la seconda fase del pensiero leopardiano. Lo sguardo di Leopardi, dapprima proiettato indietro, nel tempo di un mitico passato felice, adesso comprende nel suo destino di infelicità l'intero universo, superando i confini del mondo terrestre («il ciel tutto ignora, / non pur quest'orbe», vv. 104-105; «nodi quasi di stelle», v. 176).
Domande da interrogazione
- Chi era Giacomo Leopardi e dove è nato?
- Quali sono stati i fattori principali che hanno influenzato la formazione culturale di Leopardi?
- In che modo la visione della natura cambia nel pensiero di Leopardi?
- Cosa rappresenta "La ginestra" nell'opera di Leopardi?
- Qual è il significato del "Dialogo della natura e di un islandese"?
Giacomo Leopardi era il primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici, nato a Recanati nel 1798.
La formazione culturale di Leopardi è stata influenzata principalmente dall'insegnamento dei precettori casalinghi, dalla vasta biblioteca paterna e dall'amicizia e corrispondenza con Pietro Giordani.
Inizialmente Leopardi vede la natura come un'entità positiva, ma con il tempo la sua visione cambia, attribuendo alla natura la colpa dell'infelicità umana e considerandola incapace di garantire la felicità.
"La ginestra" rappresenta un simbolo di resistenza e umiltà di fronte alla crudeltà della natura, riflettendo la visione pessimistica di Leopardi sull'indifferenza della natura verso il destino umano.
Il "Dialogo della natura e di un islandese" esprime la visione di Leopardi su una natura indifferente e spietata, che non si cura della felicità o dell'infelicità degli uomini, sottolineando la visione materialistica e la critica alla concezione spiritualista dell'esistenza.