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Ariosto commissario in Garfagnana
Nel 1521, tempo che vede la «seconda impressione» dell’ Orlando Furioso, il duca di Ferrara Alfonso I sospende lo stipendio a Ludovico Ariosto. Era da tre anni al suo servizio. Il letterato sarà costretto nel febbraio 1522, senza averne una particolare voglia, ad accettare l’ incarico di commissario a. O meglio, a governare «il gregge grafagnin», come confessa nella quarta delle sue Satire. Si trattava di una regione selvaggia, controllata in parte dai banditi e funestata dalle fazioni. Veniva restituita alla signoria estense dopo la morte di papa Leone X («tosto che a Roma il leon giacque»). Le lettere che Ariosto scriverà ad Alfonso per assolvere i suoi uffici, riportando in quelle terre di confine legge e ordine, sono un documento straordinario; rivelano inoltre un animo fermo, sagace nelle questioni amministrative e politiche. Delle 214 epistole a noi pervenute dell’ autore dell’ Orlando Furioso, ben 156 riguardano tale periodo, che si chiuderà nel giugno 1525. Ora esce una nuova edizione - fondata sulla classica di Angelo Stella (Mondadori 1965) - di queste missive di Ariosto. Si intitola, appunto, Lettere dalla Garfagnana (Diabasis, pp. 360, 22). È stata curata da Vittorio Gatto, che ha al suo attivo lavori su testi di Cellini, Leopardi, Cuoco e Carducci. A tale studioso si deve l’ ampia introduzione che mette a fuoco l’ incarico, condotto con saggezza e moralità, inflitto al poeta, il quale era sovente osteggiato dalle direttive dello stesso Alfonso. Dobbiamo immaginarcelo, più o meno pensoso, con le sue mosse e nelle vesti di commissario all’ interno della fascinosa Rocca - poi «ariostesca» - dominante la piazza principale di Castelnuovo di Garfagnana. Vittorio Gatto ci restituisce un momento di vita dell’ Ariosto. La quale si consuma in quei tre anni abbondanti tra ferimenti, doglianze, danni, ricorsi, «latrocinii et assassinamenti» e tutte le grane che si possono immaginare.La nuda Pania tra l'Aurora e il Noto,
da l'altre parti il giogo mi circonda
che fa d'un Pellegrin la gloria noto.
Questa è una fossa, ove abito, profonda,
donde non muovo piè senza salire
del silvoso Apennin la fiera sponda.[3]
Come si può facilmente notare, la “topografia” (qui intesa nella sua etimologia greca, “scrivere un luogo”) della stessa terra cambia radicalmente; la tavolozza dei colori si scurisce. La Garfagnana descritta in questi versi è offerta al lettore in una colorazione ben diversa da quella che ne dà il poeta dei Canti di Castelvecchio.
L’autore di queste due terzine è Ludovico Ariosto. Esse fanno parte della IV satira, composta dal poeta ferrarese nel febbraio del 1523, esattamente un anno dopo (20 febbraio 1522) l’insediamento a Castelnuovo di Garfagnana dove ricoprì fino al giugno del 1525 la carica di Commissario per conto del Duca Alfonso d’Este.
Nei versi ariosteschi, la Pania della Croce non ha più l’aspetto benigno di una compagna fedele che accoglie l’edulcorata quanto consueta allocuzione mattutina del poeta di Myricae, ma diviene metafora soffocante di un “giogo” che tiene confinato in una regione feroce ed ostile il poeta estense.
Risulta interessante vedere nel proseguo della IV satira come Ariosto continua la descrizione di quel luogo:
O stiami in Ròcca[4] o voglio all'aria uscire,
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidii, odi, vendette et ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
altri condanni, altri ne mandi assolto;
ch'ogni dì scriva et empia fogli e spacci,
al Duca or per consiglio or per aiuto,
sì che i ladron, c'ho d'ogni intorno, scacci.
Déi saper la licenzia in che è venuto
questo paese, poi che la Pantera,
indi il Leon l'ha fra gli artigli avuto.
Qui vanno li assassini in sì gran schiera
ch'un'altra, che per prenderli ci è posta,
non osa trar del sacco la bandiera.
Saggio chi dal Castel poco si scosta!
Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna
secondo ch'io vorrei mai la risposta.
Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
da la sedizïon che ci soggiorna.[5]
Come era la Garfagnana ai tempi di Ariosto
La Garfagnana ai tempi dell’Ariosto doveva essere sicuramente un luogo diverso da quello in cui Pascoli qualche secolo più tardi deciderà di ricostruire il suo “nido”. La Garfagnana in cui Ariosto visse per tre anni era una terra dove folte, impenetrabili boscaglie si inerpicavano lungo le impervie pendici dei monti. Lo è ancora oggi, e lo era anche ai tempi dei Canti di Castelvecchio di Pascoli, si potrebbe facilmente obiettare. C’è, però, una differenza sostanziale. Agli inizi del XVI secolo quegli stessi “sassi”, come li definisce con tono non certo lusinghiero l'illustre ferrarese, quelle stesse selve, quegli stessi anfratti fornivano un prezioso riparo a temibilissimi gruppi di banditi. Una terra popolata da "gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avezza"[6] dirà lo stesso poeta nella VII satira, infestata da ladri di ogni genere e da spietati assassini ed afflitta dalla più soffocante indigenza.La Garfagnana, inoltre, era una regione che, come la sua travagliata storia tra Quattrocento e Cinquecento dimostrava, mal tollerava l'assoggettamento politico.
La regione era stata lucchese fino al 1426 (la “Pantera” di cui parla Ariosto è proprio Lucca), anno in cui passò sotto il dominio di Ferrara e degli Estensi con alcune brevi parentesi nelle quali la Garfagnana tornò ad essere lucchese (durante le guerre di Giulio II, e più precisamente nell'ottobre del 1512) e poi, nel settembre del 1521 quando, dietro consiglio del papa mediceo Leone X (il “Leone” di cui parla Ariosto nella sua satira), divenuto in quegli anni acerrimo nemico degli Estensi, venne conquistata dai fiorentini. La morte del pontefice, avvenuta il 1° dicembre di quello stesso anno, permise agli Estensi di rientrare in possesso del loro antico dominio, aiutati in questo dai notabili di Castelnuovo, i quali scacciarono il commissario pontificio (l'8 dicembre), richiedendo nel contempo la protezione di Ferrara, memori della larga autonomia che gli Estensi stessi avevano concesso alla provincia nel periodo precedente. Si narra che proprio in quella occasione, i garfagnini consegnarono alla memoria dei posteri l'evento, facendo scolpire sulla porta d'ingresso di Castelnuovo un leone simbolo del papato, che soccombeva all'aquila estense.[7]
L'ostilità dei garfagnini verso Firenze (sebbene risulti utile ricordare l'esistenza anche di una potente fazione filo-medicea e filo-papale in quelle terre) risultò palese quando nel novembre del 1523, dopo i due anni di pontificato del fiammingo Adriano VI, fu eletto papa un altro esponente della famigli de' Medici, Giulio, il quale si impose il nome di Clemente VII; la popolazione garfagnina avvertì in quel momento il pericolo di un possibile reintegro del proprio territorio tra i domini di Firenze. Ariosto, che in quel momento era ancora nel pieno della sua carica commissariale, descrisse la reazione degli abitanti di Castelnuovo nella lettera del 23 novembre inviata al duca Alfonso:
[...] Appresso mi venne una lettera da Lucca che mi avisava come Medici era creato papa; la qual nuova come si udì da questi di Castelnuovo, parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono intrati in tanta paura che furo alcuni che mi volean persuadere che quella sera medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere,e chi di fuggir le sue robe. Io mi sforzo di confortarli, e dico lor ch'io so che stretta amicitia è tra vostra excellentia e Medici, e che non hanno da sperar se non bene [...].[8]
I garfagnini imbracciarono addirittura le armi, allorquando nell'estate del 1524 si trattò, come vedremo più innanzi, di scacciare dalle proprie terre le truppe fiorentine.
Un’istanza di sostanziale indipendenza politica fu ciò che permise agli Estensi, unici a garantirla, di entrarne in possesso definitivamente nel dicembre del 1521.
Dunque, una terra difficile da governare per le forti spinte autonomistiche, che regolavano e muovevano, sebbene in direzioni opposte, l'operato di due diversi "partiti". I notabili garfagnini si dividevano, infatti, in due fazioni: una, detta “italiana” che, come già detto, era filo-ecclesiastica e filo-fiorentina, l’altra, definita “francese”, in quanto vicina al Duca d’Este, alleato della Francia.
Come se non bastasse, il primo commissario della nuova stagione di dominio estense su quella provincia, avrebbe dovuto mettere in conto anche la riottosità di ciascuno degli ottantatre comuni posti sotto la sua giurisdizione ("Ogni terra in se stessa alza le corna / che sono ottantatre, tutte partite / da la sedizïon che ci soggiorna", dirà ancora nella IV satira), divisi in quattro vicarie: Castelnuovo, Camporgiano (o Camporeggiano), Trassilico e Terre Nuove.
Ludovico Ariosto aveva fin da subito compreso che quella carica gli avrebbe fruttato ben pochi onori e tanti rischi; infatti, il poeta conosceva già la regione, dal momento che vi era andato in due occasioni. La prima escursione in terra garfagnina l'aveva compiuta nel marzo del 1509, quando il gaudente cugino Rinaldo, in quel tempo commissario estense a Castelnuovo, lo volle per il disbrigo di alcuni uffici relativi al suo terzo matrimonio con Contarina Farnese. Come si può ben vedere, il commissariato garfagnino fu un vero e proprio destino di famiglia[9].
Il secondo soggiorno, sicuramente più turbolento rispetto al primo, ebbe luogo nel 1512, quando Ariosto, che scappava insieme al duca Alfonso dalle grinfie degli scherani di Giulio II, venne ospitato dall'allora commissario estense, il medico Guido Postumo, che aveva sostituito in quell'incarico Rinaldo.[10]
Semmai vi fossero dei dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostica e complicata da gestire, possiamo citare la testimonianza fornita dallo stesso Guido Postumo, che sofferente ed esasperato, in una missiva inviata nel settembre del 1512 al cardinale Ippolito d'Este, scriveva:
Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch'io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch'io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua.[11]
Non basta, però, attribuire all’inospitalità del luogo tutta l’insoddisfazione, quell’irrequietezza, quel male vivere per citare ancora Orazio, quell'afflizione “…che trasudano dalle lettere inviate al Duca Alfonso dal poeta, relegato nella sua torre di Castelnuovo”. Insoddisfazione già colta nella IV satira e che riemergerà nella VII, anch'essa composta nella rocca di Castelnuovo.
Possiamo giustificare questo grigiore garfagnino con il ricordo ancora vivo nel poeta degli incarichi diplomatici precedentemente ricoperti, ed in particolar modo quelli presso la corte papale, che lo videro impegnato a più riprese tra il 1509 ed il 1517. Incarichi sicuramente più prestigiosi di quello toscano, che inizialmente lo avrebbero indotto a rapportarsi con una certa superficialità alla realtà politica della Garfagnana, estremamente caotica come detto, e per questo necessitante di una guida decisa. Angelo Stella, riferendosi proprio a questo atteggiamento iniziale del Ariosto nel ricoprire il nuovo ruolo di commissario, parla di "presunzione politica"[14], che nasceva dall'aver svolto missioni diplomatiche di ben altra levatura[15]. L'attività di diplomatico estense presso la corte papale fu prestigiosa certo, ma non per questo umanamente meno avvilente come quando, entrato in contatto con la corte del neo eletto papa Leone X, aveva sperimentato il nepotismo del pontefice mediceo, figlio del Magnifico. Uffici diplomatici che, più in generale, non erano stati meno rischiosi del commissariato garfagnino, se si pensa ai rapporti che intercorrevano in quegli anni tra Ferrara e lo Stato pontificio, specie in concomitanza con i pontificati medicei di Leone X e Clemente VII, su cui ritorneremo quando passeremo ad analizzare le relazioni turbolente che il commissario Ariosto ebbe con i rappresentanti fiorentini. A tal proposito citiamo il curioso primato detenuto dal duca Alfonso, che da massimo rappresentante politico di Ferrara, fu scomunicato ben tre volte e da tre papi diversi: Giulio II, Leone X e Clemente VII.[16]
Potremmo così escludere che l'avvilimento ariostesco nello stare confinato in Garfagnana fosse dovuto ad una questione legata al prestigio dell'incarico. A suffragare la nostra idea, inoltre, ci rifacciamo alla già ricordata VII satira, composta nei primi mesi del 1524 in Garfagnana ed indirizzata all'amico e segretario ducale Bonaventura Pistofilo. In questa satira Ariosto rifiutava l'invito del duca Alfonso di recarsi proprio a Roma. Il duca, infatti, al fine di assecondare le sempre più pressanti richieste di Ariosto di essere sollevato dall'incarico a Castelnuovo aveva chiesto al suo suddito di andare a ricoprire l'incarico di ambasciatore estense presso il nuovo papa mediceo Clemente VII. Il poeta, però, sebbene fosse consapevole che recarsi a Roma avrebbe significato allontanarsi dalla "fossa" garfagnina e vivere in modo meno "duro et acro", clamorosamente non accettò l'ambasciata romana.
Da me stesso mi tol chi mi rimove
da la mia terra, e fuor non ne potrei
viver contento, ancor che in grembo a Iove.
E s’io non fossi d’ogni cinque o sei
mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de’Marchesi miei,
da sì noiosa lontananza domo
già sarei morto, o più di quelli macro
che stan bramando in purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
campo di Marte senza dubbio meno
che in questa fossa abitar duro et acro.
Ma se 'l signor vuol farmi grazia a pieno,
a sé mi chiami, e mai più non mi mandi
più là d'Argenta, o più qua del Bondeno.[25]
Il tormento ariostesco
Il tormento ariostesco non sembra trovare giustificazioni valide nemmeno sul terreno del prestigio dell'incarico.È chiaro che non possiamo del tutto trascurare il fatto che le cause di questa insoddisfazione nascessero anche dalla morfologia del luogo e dei suoi abitanti, così come non possiamo trascurare che la carica di commissario estense, sebbene in linea generale dovesse considerarsi comunque di prestigio, poteva anche non essere annoverata dal poeta come una delle più insigni da egli ricoperte. Ma queste sono concause minori che si legano a nostro avviso ad una motivazione più intima, più profonda, meno contingente verrebbe da dire.
Proprio l'ultima terzina del passo appena riportato della VII satira può illuminare il nostro cammino che dovrà portarci a fornire finalmente una risposta ancor più decisiva all'insofferenza garfagnina del cantore di Orlando.
Come abbiamo avuto modo di leggere, pur avendo declinato l'invito del duca, Ariosto non disperava di poter ricevere una "grazia" dal suo signore: la grazia in questione consisteva nel non essere impiegato in compiti che non lo allontanassero più di qualche chilometro da Ferrara.[26] Siamo giunti al passaggio decisivo. Il poeta è lontano dalla sua amata Alessandra ("da chi tien del mio cor solo la briglia"[27], verrà definita dal poeta nella IV satira), dai suoi affetti familiari, dalla sua piccola abitazione in contrada Mirasole; in altre parole, Ariosto è lontano da Ferrara, il suo vero “nido” sebbene esse non vadano affatto trascurate, specie per quanto concerne l'amore per Alessandra Benucci. Nella VII satira, infatti, Ariosto riferisce con vergogna, con la "faccia più vermiglia" di una dama ferrarese truccata o di un padre canonico ubriaco, che è proprio il forte sentimento d'amore, evidentemente ritenuto poco adatto ad un uomo che si approssima ai cinquant'anni, la ragione principale del suo intensissimo legame con Ferrara. Da notare che in questo passo della satira Ariosto parla proprio di "nido", riferendosi alla sua città:
Se perché amo sì il nido mi dimandi,
io non te lo dirò più volentieri
ch'io soglia al frate i falli miei nefandi;
che so ben che diresti: «Ecco pensieri
d'uom che quarantanove anni alle spalle
grossi e maturi si lasciò l'altro ieri».
Buon per me ch'io me ascondo in questa valle,
né l'occhio tuo può correr cento miglia
a scorger se le guancie ho rosse o gialle;
che vedermi la faccia più vermiglia,
ben che io scriva da lunge, ti parrebbe,
che non ha madonna Ambra né la figlia,
o che 'l padre canonico non ebbe
quando il fiasco del vin gli cadde, in piazza,
che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S'io ti fossi vicin, forse la mazza
per bastonarmi piglieresti, tosto
che m'udissi allegar che ragion pazza
non mi lasci da voi viver discosto.[28]
Per il Ludovico che va in Garfagnana, Ferrara non però ha solo il volto della sua Alessandra; Ferrara è anche il luogo dove Ludovico era divenuto fin dai primi anni del Cinquecento il poeta di corte più prestigioso, oltre che insigne diplomatico. Ariosto era il poeta a cui il duca Alfonso aveva affidato la realizzazione di una commedia per il carnevale del 1508 (la Cassaria); un carnevale molto importante, in quanto rappresentava la prima festa pubblica ferrarese dopo la morte di Ercole I (1505) Inoltre, a partire dal 1517, dopo aver rifiutato di partire per l'Ungheria al seguito del cardinale Ippolito (l'episodio è molto noto in quanto è l'occasione della prima satira, sulla quale ritorneremo a breve) e passando alla corte del duca Alfonso, aveva potuto finalmente risiedere stabilmente a Ferrara almeno fino alla sua designazione commissariale in terra toscana. Tra il 1517 ed il 1521, Ariosto era divenuto, anche grazie al successo della prima edizione dell'Orlando furioso, l'indiscusso protagonista della scena culturale cittadina.
Volendo riassumere quanto detto, alla vigilia della sua partenza per la Garfagnana descritta sopra, Ludovico Ariosto vive nel suo "nido" ferrarese dove può godere stabilmente della vicinanza dei familiari, dove può sperimentare quotidianamente l'ammirazione dei suoi concittadini, dove è uno dei protagonista assoluti della vita cittadina, dove può inorgoglirsi per essere divenuto il poeta ufficiale di corte. Si avviava ad essere il nuovo "Virgilio" estense che aveva celebrato la dinastia estense con la riproposizione nell'Orlando furioso delle vicende di Ruggiero e Bradamante che, come aveva narrato per primo Tito Vespasiano Strozzi nella sua Borsas, erano considerati i mitici progenitori degli Estensi.
Fu anche per tal motivo che lo stesso duca Alfonso provvide ad acquistare tra il 1521 ed il 1525 circa sei esemplari della seconda edizione del poema che esaltava la sua nobile stirpe.[30]
Ferrara è tutto questo per Ariosto; però, essa è soprattutto il luogo dove può dedicarsi in totale tranquillità e libertà agli studi. Ferrara è il contesto ideale per godere dell'otium letterario. L'insofferenza ariostesca alle tenebre garfagnine nasce, allora, dall'aver perso la possibilità di vedere attuato, realizzato concretamente quel desiderio sempre pressante di "riveder le Muse" e con queste "ir poetando ancora". Solo in questo modo Ariosto può avere un "cor sereno" capace di far fiorire una "iocunda rima o metro", come afferma nella IV satira.