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AROFALO
legge intende designare «la persona che non versa in una situazione di soggezione
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sanzione – paricidas esto – è preferibilmente da interpretare nel senso
della imposizione ai prossimi congiunti dell’ucciso di dover uccidere
l’uccisore, con lo scopo di impedire che difronte alla pesante offesa
ricevuta dall’intero gruppo familiare, si potessero sentire appagati dalla
questione pecuniaria. Si tratta di una sorta di chiamata alla
responsabilità, rivolta ai congiunti, per riparare il danno subito e
riconquistare l’onore insidiato. Questa interpretazione, trova riscontro
con il parallelismo tracciato con la previsione numana circa l’omicidio
involontario, il quale prevede che l’autore del delitto debba consegnare
pubblicamente un ariete agli agnati dell’ucciso in virtù del sacrificio del
congiunto.
Questo tipo di norma, sebbene legata a tradizioni religiose tipiche
della società del tempo, è sicuramente da considerare come un
momento di forte evoluzione del diritto penale romano, sia per la
netta demarcazione tra atto volontario ed atto involontario, sia in
funzione degli aspetti legati all’avocazione della persecuzione
dell’omicidio. Essa, invero, riesce a rappresentare l’omicidio
volontario come un delitto di grande impatto sociale, del quale la
comunità deve essere edotta e dove anche l’esercizio della vendetta,
che prima è attribuito ad una sfera tra privati, oggi deve aver luogo
davanti al popolo, riunito in contione, a decretare la pubblicità
dell’evento. Cambia in questo modo, anche l’inquadramento del
delitto da un punto di vista del significato sociale. Non meno
importante è fissazione di un limite all’indiscriminata reazione dei
parenti dell’ucciso che talvolta nel tentativo di vendicare la vittima
al potere di una divinità, ossia l’individuo che non è caduto in sacertà per effetto
(immediato e automatico) della commissione di un illecito». Ma questa singolare
interpretazione, basata su un concetto di libertas che non trova riscontro nelle
fonti (si noti che nelle XII Tavole l’homo liber è sempre contrapposto al servus:
cfr. Gell 11, 18, 8; Paul. Coll. 2, 5, 5), è senz’altro da rifiutare. 27
eccedono il principio di proporzionalità tra danno subito e danno
causato. Alla luce di ciò si consente ad essi di uccidere l’omicida solo
nel caso in cui abbia agito volontariamente e quindi vi sia dolo. Se cosi
non fosse, questi dovranno accontentarsi di ricevere dal omicida
involontario la pubblica consegna dell’ariete a titolo di risarcimento
del danno subito. Quanto appena detto, rappresenta, certamente, un
punto di partenza significativo per una graduale collocazione dell’o-
micidio inteso come crimine di interesse pubblico, la cui sanzione
viene disposta dalle normative emanate dallo stato e non più
rimesse alla vendetta privata, e dunque dotato di una propria
indipendenza rispetto agli altri delitti tipici della vendetta gentilizia,
come ad esempio il furto e le lesioni corporali, per i quali lentamente
si apre la strada verso la generale sanzione della pena pecuniaria
privata. Inizia in tal modo ad affermarsi una demarcazione tra le
diverse tipologie di delitti, sulla base di un diverso grado di gravità,
che incide anche nella collocazione pubblica o privatistica della
riparazione del torto subito.
Per quanto concerne l’ermeneutica del termine paricidas (da cui deriva la
formula paricidas esto) ancora oggi vi è un dibattito dottrinale molto
acceso che porta a un’incertezza circa il suo preciso significato. Sebbene
da parte degli studiosi non vi sia assolutamente univocità di pensiero,è
necessario citare la teoria che partendo dal rapporto tra paricidas e
parricidium (che può assumere diversi significati, come l’uccisione del
padre, quello di un congiunto e comunque di un parente) ritiene che una
norma appartenente alle lex Numae possa essere estesa, quasi per analogia,
al parricidium nei casi di omicidio volontario di un uomo libero. Questo
tipo di interpretazione, sebbene contrastata in dottrina, viene accolta
da molteplici studiosi, tra i quali potremmo ricordare Th. Mommsen
28
60
e P. Bonfante , sempre partendo dal presupposto che sia necessario
che un parente della vittima riconquisti l’onore del gruppo facendosi
giustizia da solo. Tale concetto, come sottolineato da O. Lenel e G.
Grosso, è esaustivamente espresso nella citazione «vi sia un parente
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vendicatore» . Eppure, questo tipo di teorie, oggi, non appaiono
affatto maggioritarie, nonostante l’impegno da parte di diversi
62
autori, a rivedere le proprie posizioni (W. Kunkel, J.D. Cloud)
Da un lato, infatti, troviamo dei dubbi legati alla radice della parola
e quindi al corretto significato del termine, dall’altro vi è la
normativa numana, che si limita semplicemente a definire il
precetto della norma, senza specificare, come peraltro avviene per
le leges regiae, l’effettiva sanzione che il delitto comporta. Esiste
cioè solo la norma che stabilisce che non è possibile violarla, ma
non viene stabilito in nessun modo quali sono le conseguenze nel
caso in cui venga effettivamente violata.
La teoria che sembra avere le maggiori credenziali, in ambito
dottrinale, è profondamente distante da quelle accennate finora. Essa
modifica il significato del termine paricidas, inquadrandolo con
presupposti diversi che gli attribuiscono un senso tendenzialmente
passivo e ascrivendo alla paricidas esto la sanzione contenuta dalle
lex Numae. Questa interpretazione è stata formulata inizialmente da
V. Arangio-Ruiz, secondo cui il significato in parola sarebbe «sia
P. BONFANTE, Storia del diritto romano 1 (Milano1958) p. 216 ss.;
60
GIOFFREDI, I principi del diritto penale romano cit. p. 63 ss.
61 E. COSTA, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano (Bologna 1921) p. 22 ss.
W. KUNGEL, Untersuchungen zur Entwicklung des romischen
62
Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, (Monaco 1962) considera paricidas,
cioè l’omicida solo chi uccide un uomo libero coscientemente e volontariamente.
Mentre J.D. CLOUD, ‘parricidium from the Lex Numae to the Lex Pompeia de
Parricidiis’, in ZRG 88, (1971), considera parricida l’uccisore di un parente; sulle
varie posizioni dottrinali cfr. B. SANTALUCIA, Altri studi di diritto penale
romano, (2010), p. 73 ss. 29
soggetto ad essere parimenti ucciso». Oltre a Arangio-Ruiz, anche il
De Visscher concorda sulla stessa linea, seppur con delle differenze
rispetto al significato del termine: «sia ucciso a titolo di compensa-
63 64
zione» . Una traduzione ancora differente è quella di U. Coli ,
«sia ucciso per rappresaglia», che probabilmente risulta essere
quella dotata di maggiore coerenza con la previsione numana in
tema di omicidio involontario, la quale come abbiamo già detto in
precedenza prevede la pubblica consegna dell’ariete per ripagare il
sacrificio subito a causa del delitto commesso dall’autore. Lo stesso
65
pensiero è condiviso da Ph. Meylan e da A. Pagliaro , secondo cui
paricidas parte dalla matrice parici e das (datus). Per quanto
riguarda il primo, egli ritiene che il precetto della lex Numae vada a
decretare «l’uccisione al sacco» in quanto parici sarebbe il dativo
del sostantivo parex o parix. Per Pagliaro, invece, il colpevole deve
essere «posto a disposizione dei parici», magistrati dell’età regia su
66
cui grava l’obbligo di applicare la cd. legge del pareggio . Ci
sono, inoltre, altri autori che meritano di essere citati, tra cui S.
Tondo, che associa il primo membro di paricidas al sostantivo pera,
significa borsa o bisaccia, secondo cui la lex Numae dispone che
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venga «ucciso col sacco di cuoio» l’autore dell’omicidio .
Questa particolare teoria, si è rilevato, potrebbe sconfessare quanti
ritengono che le normative numane rappresenterebbero un mero
63 V.ARANGIO RUIZ, Parricidio, in EI, XXVI,1935, p. 403; DE. VISSCHER,
Études de droit roman. L’origine de l’obligatio ex delicto, (Parigi 1931), p.466;
anche P. BONFANTE, Storia del diritto romano cit. 1. 216 ss.
U. COLI, Scritti di diritto romano, (Milano 1973), p.321ss.
64 PH. MEYLAN, L’etymologie du mot parricide, (Losanna 1928), p.219; A.
65
PAGLIARO, La formula paricidas esto, in Studi Castiglione 2 (Firenze 1961), p.
689 ss.
PAGLIARO, La formula paricidas esto cit. p. 669 ss.
66 S.TONDO, v. Leges regiae e paricidas (Firenze1973), p. 169.
67 30
strumento volto a far risalire al cd. «re pacificatore» la persecuzione
di tutti quei delitti macchiati col sangue. Ma molti autori ritengono
che le argomentazioni espresse a sostegno di tale tesi non risultino di
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grande fondamento .
C.H. BRECHT, 'Perduellio' (Monaco 1938) p. 4 ss.
68 31
CAPITOLO SECONDO
LA PENA CAPITALE NELL’ETÀ REPUBBLICANA
1. Sottrarsi alla morte: la provocatio ad populum
Con la nascita della repubblica si vive la separazione tra le funzioni
religiose e quelle politico-militari, in origine identificate in capo al
re. Infatti, la direzione del culto pubblico è affidata al capo del
collegio dei pontefici, il pontifex maximus. Al pontefice massimo
spetta la coercitio nei confronti dei sacerdoti che infrangono i
comandi da lui dettati. Mentre, ai magistrati della repubblica spetta,
ora, la persecuzione per le azioni ritenute lesive degli interessi della
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comunità .
Dal re il pontefice massimo eredita la giurisdizione sui reati d’indole
tipicamente religiosa (per esempio sull’incestus della virgo Vestalis),
mentre i crimini che colpiscono contemporaneamente la religione e il
populus (come la perduellio e il furto di fruges aratro quaesitae)
sono attribuiti all’assemblea popolare. Altri illeciti cessano di essere
perseguiti giudizialmente e vengono più tardi sanzionati attraverso il
regimen morum dei censori (per esempio il ripudio ingiustificato
della moglie da parte del marito).
GIUFFRĖ,La repressione criminale. cit. p.31 ss.
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Con lo scopo di porre dei limiti giuridici al potere del magistrato si
riconosce al cittadino romano una vera e propria guarentigia
consistente nel subordinare l’irrogazione delle più gravi misure
repressive, e in primo luogo della pena di morte, al giudizio del
popolo riunito in assemblea. Nasce così la provocatio ad populum,
un istituto in virtù del quale il cittadino perseguito in via di
coercizione dal magistrato esercitante l’imperium può sottrarsi alla
morte e alla preventiva fustigazione, chiedend