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Con la seconda si fa riferimento all’introdursi all’interno della diade madre-bambino per
scinderla, alla trasmissione dei valori, del riconoscimento e del senso di appartenenza,
garantendo la qualità etica come dimensione simbolica della giustizia e della lealtà (Danna,
2005; Gambini, 2007); la definizione di tali funzioni non fa alcun riferimento al genere, ma
solo ai ruoli familiari. 32
Pur partendo dal presupposto che in Italia sono presenti, quasi esclusivamente, famiglie
monogenitoriali o ricomposte in cui più frequentemente una lesbica, che non un gay, ha
avuto figli da una precedente relazione eterosessuale, verranno riportate qui di seguito le
diverse possibili configurazioni di famiglie omogenitoriali: coppia lesbica con un figlio
nato tramite inseminazione artificiale, coppia gay con figlio nato tramite maternità
surrogata, coppia omosessuale con figlio adottivo, cogenitorialità, famiglia ricomposta con
genitore omosessuale.
2.1. Inseminazione artificiale
L’inseminazione artificiale fa parte delle tecniche di procreazione medicalmente assistite e
consiste in un’operazione medica di fecondazione, tramite metodi non naturali, in cui lo
sperma viene inserito nell’apparato genitale femminile. Vista l’evidente condizione della
coppia lesbica, si farà riferimento all’inseminazione eterologa, in cui viene usato lo sperma
di un donatore esterno alla coppia. Nella fecondazione assistita, la tecnica si sostituisce alla
natura: questo rispecchia una mutata concezione della procreazione, oggi intesa anche come
slegata dalla sessualità (Bonaccorso, 1994). Diventare genitori è simbolo di
autorealizzazione e la tecnologia permette il realizzarsi di tale progetto individuale. La
filiazione diventa una scelta, l’impossibile diventa possibile: procreare in assenza dell’altro
sesso, coniugare la coppia omosessuale con quella della filiazione (Cadoret, 2002).
La legge italiana permette l’accesso all’inseminazione artificiale solo a coppie sposate e
prevede sanzioni per i ginecologi e gli operatori sanitari che non rispettino tale normativa.
Nel paesi in cui la procedura può essere richiesta anche da donne single, come Stati Uniti,
Spagna, Belgio, Svezia e Olanda, le coppie lesbiche hanno la possibilità di accedervi. Ogni
stato ha differenti leggi riguardo l’anonimato del donatore di sperma: in Olanda è possibile
chiedere un donatore non anonimo in modo che il figlio possa, compiuti 16 anni,
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conoscerne l’identità, mentre in Svezia l’anonimato è vietato dalla legge, in modo da
rispettare il diritto del figlio di rintracciare le sue origini (Danna, 2005).
Decidere di creare una “famiglia al femminile” è una scelta complicata. Le donne
intervistate da Cavina e Carbone (2009) spiegano come sia necessario un periodo di
riflessione e di messa a punto dell’organizzazione della gestione del nascituro. Le
riflessioni che vengono riferite maggiormente riguardano:
• La scelta stessa di diventare madri: ci si interroga sulle competenze necessarie e le
eventuali problematiche psicologiche e sociali del figlio, sulla presenza di una buona
rete di sostegno e sull’appoggio dei familiari. Quasi tutte le donne raccontano di essersi
documentate attraverso testi di psicologia e il confronto con altre mamme.
• Scelta di essere una “famiglia al femminile”: decidere se coinvolgere sin da subito la
figura maschile del donatore come figura genitoriale di riferimento o mantenere una
coppia genitoriale femminile pur offrendo modelli maschili alternativi, come zii, nonni
ed amici già presenti in famiglia.
• Scelta relativa al rapporto con il mondo esterno: come presentarsi agli altri, come farsi
definire dal bambino stesso, quale modello familiare offrire.
Nonostante tali inevitabili riflessioni, le lesbiche vivono con tranquillità la maternità, come
qualcosa di coerente alla loro natura. Esse attribuiscono molta importanza al progetto di
coppia, all’idea di procreare e allevare insieme il bambino. La loro “interscambiabilità
sessuale”, però, pone il problema di come realizzare tale progetto: come scegliere chi
partorisce? Ci sono diverse possibilità per procreare “insieme” un bambino, quanto meno a
livello simbolico: può essere la compagna stessa ad introdurre lo sperma nella futura
mamma, l’ovocita di una può essere innestato nell’utero dell’altra, si può decidere di avere
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due figli in modo da essere entrambe mamme, si può scegliere un criterio arbitrario, come
l’età o la disponibilità della famiglia d’origine, per scegliere chi partorirà il bambino. Di
solito, entrambe le donne si definiscono “madri” (Cadoret, 2002), anche se è inevitabile che
solo una parteciperà alla precoce relazione di attaccamento del bambino e condividerà con
lui alcuni momenti, come l’allattamento, che escludono la compagna.
Per quanto riguarda la figura del donatore di sperma, una donna intervistata da Ferraris e
Rusticelli (2006) paragona la donazione di sperma alla donazione di sangue, un gesto
gentile e altruista, ma nulla di più, e continua dicendo: «i figli sono di chi li cresce e di chi
gli dà amore, il legame biologico c’entra poco, almeno nel caso del donatore anonimo».
Fino agli anni ’80 molte lesbiche ricorrevano ad un donatore conosciuto: si selezionava una
persona fidata che avesse delle somiglianze fisiche e caratteriali con le future madri
(Cadoret, 2002). Successivamente, il numero crescente delle ansie relative alle possibili
rivendicazioni del padre biologico portarono ad un cambiamento di tendenza: oggi prevale
la scelta del donatore anonimo (Bonaccorso, 1994), che permette di percepire i figli come
esclusivamente della coppia (Ferraris, Rusticelli, 2006).
Alcune donne sostengono di spiegare abbastanza presto al figlio che «dal momento che due
donne non possono fare un bambino» si sono fatte «dare un semino » (Ferraris, Rusticelli,
2006), mentre altre preferiscono tacere e avvolgere tutto nel silenzio.
Bonaccorso (1994) spiega che dopo che il desiderio di avere un figlio è stato esaudito, la
coppia si allontana psicologicamente da quell’evento, così voluto, per rinnegare il modo in
cui è accaduto, per negare il necessario aiuto ottenuto da altri per realizzare una cosa così
naturale come la procreazione. Il silenzio, però, cela un segreto, che logora le relazioni
familiari impoverendole. Esso impedisce al bambino di ripercorrere la strada delle proprie
origini, percorso necessario per definire la propria identità. 35
2.2. Maternità surrogata
La maternità surrogata rientra nelle tecniche di fecondazione assistita ed individua la
situazione in cui una donna si presta ad essere fecondata, con pratiche mediche, con il seme
di uno dei componenti della coppia, in questo caso quella gay. La madre surrogata stipula
un contratto con la coppia gay assumendosi il compito di gestire e portare a termine la
gravidanza; il contratto termina alla nascita del bambino che viene affidato esclusivamente
alla coppia, mentre la donna perde ogni diritto nei suoi riguardi (Bonaccorso, 1994). Il
fenomeno della surrogacy nasce negli Stati Uniti nel 1976, quando vennero stipulati i primi
contratti tra coppie eterosessuali sterili e donne disposte a portare a termine per loro una
gravidanza su commissione. La situazione si fece complicata quando, per la prima volta,
una madre surrogata, Mary Whitehead, cambiò idea e si rifiutò di consegnare il bimbo
partorito alla coppia designata; la sentenza finale fu comunque a favore della coppia. Da
qui nacquero le polemiche, l’opinione pubblica si divise e molti Stati decisero di vietare
tale pratica (Ferraris, Rusticelli, 2006). In Italia, attualmente, la pratica della maternità
surrogata è illegale ma è consentito, ai cittadini italiani, riportare in patria i figli avuti
tramite la stessa pratica ma in altri paesi. Lalli (2009) si chiede quale sia la differenza
morale tra un’adozione tradizionale e la surrogacy, intesa come adozione precoce: i
protagonisti sono gli stessi, una madre che partorisce un figlio che non vuole crescere e una
coppia che è desiderosa di farlo. Sostiene che la differenza stia nella condizione del
concepimento: indesiderato nel primo caso, pianificato nel secondo caso. Perché desiderare
e pianificare la nascita di un bambino dovrebbe essere immorale? Una prima obiezione alla
maternità surrogata deriva dall’imprevedibilità dell’effetto della gravidanza sulla donna.
Per provvedere a questo fattore, i paesi che accettano tale pratica prevedono che la madre
surrogata sia una donna che abbia già avuto altri figli e che, quindi, conosca l’esperienza
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del parto e della gravidanza. Una seconda obiezione, ricollegabile alla prima, riguarda
l’irreversibilità della scelta, sancita dal contratto: la madre surrogata non può avere
ripensamenti. L’impossibilità di ritornare sui propri passi, di pentirsi della propria scelta, è
presente anche in altre situazioni, come l’adozione o l’aborto; non può essere motivo di
rifiuto di questa pratica. E ancora, la maternità surrogata viene definita immorale poiché
presuppone l’uso e l’abuso del proprio corpo, spesso a scopo commerciale. Il movimento
femminista è uno dei maggiori sostenitori di questa tesi e ritiene che la figura della donna
venga lesa poiché considerata semplicemente come un contenitore; bisogna, poi,
considerare, che sono le donne socialmente più deboli a sottoporti maggiormente a questa
pratica a causa di necessità economiche (Bonaccorso, 1994). Lalli (2009) risponde che
ognuno è padrone del proprio corpo e così come si è liberi di donare il sangue o il midollo,
bisognerebbe anche essere liberi di prestare il proprio utero. Un’altra importante obiezione
riguarda l’attenzione per il miglior interesse del bambino: si sottolinea l’importanza del
legame tra madre e feto e le conseguenze psicologiche di una precoce separazione
(Bonaccorso, 1994; Lalli, 2009). Le ricerche hanno ormai dimostrato che il bambino
appena nato è in grado di riconoscere la voce della madre e di imparare a riconoscere il suo
volto molto precocemente e prima degli altri volti; l’interazione precoce con la madre dà il
via allo sviluppo affettivo e cognitivo del bambino (Stern, 1998). Nel caso della coppia gay,
inoltre, verrebbe a mancare una figura materna sostitutiva, qualcuno che possa colmare il
vuoto, anche fisico, della figura femminile (basti pensare all’importanza dell’interazione
che si crea durante l’allattamento). Se da un lato queste argomentazioni non devono essere
sottovalutate, è ve