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Kant, per cui le prove per dimostrare l’esistenza di Dio non hanno valore veritativo poiché non sono
esperibili; tutte le prove si possono ricondurre alla prova cosmologica e questa a sua volta al
cosiddetto argomento ontologico, secondo il quale se si pensa ciò di cui nulla è maggiore, deve per
forza includere l’esistenza, altrimenti sarebbe mancante di perfezione. Ma questo dedurre
dall’essenza l’esistenza è un passaggio illecito dal piano ideale al piano reale, non fondato
sull’esperienza, unica garanzia per la verità (Cfr. Prolegomeni), e quindi non è verificabile la prova
dell’esistenza di Dio. Fra chi nega il valore di queste argomentazioni troviamo anche Hegel, che
sostiene la caduta in discredito della “prova della verità religiosa”, oggetto di diffuso pregiudizio,
dovuto al valore antiquato di una metafisica ormai stantia e arida, per cui l’unico “salvagente” che
ci ha tenuti salvi è la “fede vivente”, “il sentimento della religione”. De Unamuno afferma che il
“Dio logico, razionale, l’ens summum […] della filosofia teologica a cui si arriva per le tre famose
vie della negazione, dell’eminenza e della causalità, via negationis, eminentiae, causalitatis, non è
altro che un’idea di Dio, qualcosa di morto”. Jaspers afferma che “un pensiero che voglia essere
rigoroso, ritiene tali prove [a posteriori] impossibili se pretendono raggiungere l’apoditticità
intellettuale”. 2
Fra chi attribuisce valore relativo e problematico alla prova a posteriori ci sono, per
esempio, Renan, il quale riconosce che sebbene Dio e l’immortalità non siano dimostrabili
razionalmente, non possono escludersi in maniera assoluta; troviamo anche Scheler, il quale
sostiene che la dimostrazione (da demonstratio, che in latino significa indicare) dell’esistenza di
Dio acquista valore solo alla luce della rivelazione; dunque non è un provare ma un mostrare,
rendere evidente qualcosa che è già presente.
Chiariamo allora che cosa significa “dimostrare”. Innanzitutto quando si parla di
dimostrazione non si parla della capacità della ragione di ridurre l’Assoluto al rango di verità
matematica o geometrica, ovvero di semplice entità di ragione.
L’esistenza di Dio non può essere oggetto di verificazione o falsificazione, come una
qualsiasi realtà fisico-empirica; così come non è dimostrabile attraverso termini concettualizzabili
dall’uomo, come ad esempio il numero: Dio non è un teorema! Egli non può essere colto da l’ésprit
de géometrie, ma necessita di un ésprit de finesse che riesca a penetrare l’intimo della realtà e non
solo la sua manifestazione esteriore, per coglierne, oltre alla contingenza e precarietà radicale, il
protendere verso un ulteriore, verso una presenza nascosta.
Non sono dunque valide le argomentazioni neo-positiviste che negano la possibilità della
prova dell’esistenza di Dio applicando un criterio scientista. Secondo questa corrente è vero solo ciò
che è verificabile sperimentalmente, e la scienza dell’essere in quanto essere si ridurrebbe a un
insieme di pseudoconcetti (secondo Carnap, la parola “Dio” non ha significato) così che la
metafisica e la teologia sarebbero formate da proposizioni prive di valore e i loro discorsi non
avrebbero significato, dato che ogni discorso scientifico trae significato dal fatto che le proposizioni
che lo formano sono osservabili e verificabili o falsificabili. È vero anche che all’interno dello
stesso neo-positivismo si possono trovare posizioni quali quella di Wittgenstein, che passa da un
primo periodo della propria riflessione filosofica in cui afferma che ciò di cui non si può parlare si
deve tacere, ad una riflessione successiva in cui giunge ad ammettere la possibilità di un senso
proprio al discorso metafisico, almeno ammettendo regole di linguaggio diverse dal discorso
empirico, e quindi con un proprio valore ed un’incisività nella civiltà. Vi è anche la posizione di chi
ammette che il discorso metafisico sarebbe una visione (blick), un modo nuovo e originale di vedere
la realtà, come se fosse sempre nuova. Questa visione, tuttavia, non risolve il problema del
fondamento del valore veritativo.
Nella nostra prospettiva, dunque, l’argomentazione circa l’esistenza di Dio è di natura
metafisica, e non ha le caratteristiche tipiche della dimostrazione scientifica e matematica. Noi
conosciamo direttamente solo ciò che cade sotto i nostri sensi, gli enti finiti e contingenti:
l’argomentazione a favore dell’Assoluto s’incammina quindi sui sentieri di Dio, ma non lo coglie
pienamente, poiché il termine della dimostrazione resta sempre fuori dalla nostra percezione.
Maritain affermava che gli argomenti non comportano l’evidenza dell’esistenza divina, ma
solamente l’evidenza della necessità di affermarne l’esistenza se si vuole rendere ragione dell’essere
del mondo.
Carattere unitario e molteplice dell’argomentazione
Come ricerca del fondamento ultimo dell’”essere in quanto tale”, la riflessione che porta ad
affermare l’esistenza di Dio è sostanzialmente unica ed unitaria, in quanto si tratta in ultima istanza
di trovare la ragion sufficiente dell’esserci delle realtà che potrebbero anche non essere, ovvero si
tratta di ritrovare la ragion d’essere definitiva dell’esistere delle cose.
Tuttavia, come il principio esplicativo di ragion sufficiente si divide nel principio di
causalità, di finalità e di esemplarità, e quindi in altrettanti approfondimenti settoriali dello stesso
principio, così anche l’argomentazione a favore dell’esistenza di Dio presenta diverse formulazioni
particolari a seconda della ragion d’essere specifica che viene considerata. 3
Le varie argomentazioni, secondo alcuni autori, sono state esaustivamente compendiate nelle
cinque vie tomiste, considerate, quindi, come le uniche valide per dimostrare l’esistenza
dell’Assoluto. Tre di esse fanno appello al principio di causalità, una al principio di esemplarità ed
una al principio di finalità; la prima pone a fondamento dell’indagine il divenire, la seconda
l’efficienza, la terza la contingenza, la quarta la gerarchia (magis et minus), la quinta la finalità e
l’ordine. Più specificamente, la seconda fa riferimento diretto al principio di causa efficiente e la
quinta al principio di finalità.
Altri autori ritengono, invece, che le vie tomiste non siano le uniche vie possibili per
dimostrare l’esistenza di Dio. Secondo Bogliolo, per esempio, il fatto che l’uomo sia
onnidimensionale, gli permette di partire da ogni direzione per giungere all’Assoluto. Per Henri de
Lubac ogni creatura è piena di tracce di divinità.
La prima via per la dimostrazione dell’esistenza di Dio indaga sul divenire delle realtà, ed è
basata sulla formulazione aristotelica dell’“omne quod movetur ab alio movetur”, tutto ciò che si
muove è mosso da altro. Il movimento va inteso qui come divenire, in quanto nel contesto
aristotelico-tomista il moto indica ogni passaggio da un modo d’essere potenziale a un modo
d’essere attuale (tutto ciò che diviene, diviene in forza di un altro), sia in senso progressivo che
regressivo.
Questo “altro” può essere la stessa realtà che muove, tuttavia nello stesso tempo e sotto lo
stesso rapporto una realtà non può essere movente e mosso; infatti non è possibile che ciò che è in
potenza ad una perfezione entitativa possa essere la causa del passaggio all’atto di tale perfezione.
Quindi, se una realtà si muove, è mossa necessariamente da altro, e se anche questo altro si muove,
ciò significa che è mosso da un’altra realtà. Ora, non potendo accettare il procedere all’infinito dal
mosso al movente - ciò infatti significherebbe la rinuncia alla risposta -, si dovrà giungere ad un
motore primo che non è mosso da altro ma che muove, che non diviene ma è causa del divenire
delle realtà. In questo Motore Primo (Motore Immobile), Causa Prima del divenire, non esiste
distinzione tra atto e potenza, essendo essa stessa Atto puro. Questo Puro Atto è Dio, ragion
d’essere del divenire simpliciter che possiede in atto ogni perfezione di cui è all’origine. Dal
momento, poi, che fonte di ogni perfezione è l’actus essendi, questo Atto Puro dovrà identificarsi
con l’Ipsum Esse Subsistens.
La seconda via fa riferimento all’efficienza dell’essere che agisce, e che mostra la capacità
di produrre altro da sé.
Si danno realtà molteplici le quali presentino una bontà ontologica, ovvero un grado di preziosità
che le rende appetibili da parte dell’uomo in quanto in grado di perfezionarlo. Questo grado di
preziosità fa riferimento al grado di partecipazione alla Perfezione Somma, e si esprime nella bontà
formale della realtà. Alla bontà formale corrisponde la capacità di perfezionare; la bontà formale è
alla base della bontà operativa. Se fosse altrimenti, nessuna realtà sarebbe mai veramente appetibile,
dal momento che nessuna perfezione può sopraggiungere all’essere per determinarlo ulteriormente.
L’efficienza operativa degli esistenti dimostra ambivalenza. L’uomo è sì costruttore della propria
esistenza, è causa efficiente del proprio agire, ma è anche subordinato da una molteplicità di
condizionamenti. Così come prova inoppugnabile del limite degli esistenti è anche il loro esserci
nello spazio e nel tempo, legami che vincolano la loro corporeità all’hic et nunc invalicabili.
L’esperienza dimostra anche che esistono due tipi di subordinazione vincolanti tra loro le cause
efficienti. Vi è il rapporto tra più enti di cui il primo è causa del secondo e questo a sua volta del
terzo; questo rapporto viene nominato di subordinazione accidentale, per cui l’effetto dipende
direttamente dalla causa che lo produce [il generatore (A) è causa della funzionalità dell’interruttore
(B) che accende la luce (C)].
Ma oltre a concatenamenti di enti per via di generazione o di condizionamento, esiste anche una
correlazione più profonda per cui le cause concomitanti in atto sono effetti in rapporto a cause
superiori; questo tipo di concatenamento viene detto di subordinazione essenziale [Se non piovesse
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e non ci fosse l&rsquo