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Nel secolo dei Lumi, del gusto o meglio del ‘buon gusto’, nasce e si sviluppa
l’analisi dei limiti della fruizione e dei confini della rappresentazione. Il soggetto, di
fronte all’arte o alla natura, può guardare la sua grandiosità o le sue contraddizioni,
ciò che suscita paura o terrore e anche ciò che fa orrore, instaurando con l’oggetto
una relazione che ha nell’emozione, a volte insostenibile, e nella passione estrema
46
fonti di piacere .
Ciò significa che al centro dell’indagine estetica c’è il soggetto che compie un’esperienza
singolare attraverso l’arte, e tale esperienza non è solo dominata dal bello e dal piacere, ma anche
dall’interessante, dall’insolito, da tutto ciò che provoca un’emozione. Se da un lato il Settecento
cerca di trovare un grado di oggettività e di universalità al giudizio di gusto, basato comunque sul
riconoscimento del bello, dall’altro viene riconosciuto il valore della soggettività del piacere e del
lato puramente sensibile dell’esperienza estetica. Infatti «il gusto ha sempre un riscontro
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sensibile» e autori come Du Bos, Montesquieu, Mendelssohn e tanti altri affermano che il piacere
si fonda su «ciò che ci incuriosisce e sorprende, ciò che perfino ci spaventa, in una parola ciò che ci
46 M. Mazzocut-Mis, Mondadori, Milano 2009, p. VII-VIII.
Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno,
47 p. 12.
Ibidem, 31
48
interessa» . Dunque anche il brutto è in grado di generare piacere, un piacere controverso, dato da
un «sentimento misto, di insoddisfazione nei confronti dell’oggetto e soddisfazione verso la sua
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rappresentazione» , come scrive Mendelssohn. Emerge in questa frase, ancora una volta, la
differenza tra brutto in sé e brutto formale, e di nuovo l’arte è in grado di trasfigurare la bruttezza
della realtà in una rappresentazione formalmente bella. In ultima analisi, quindi, possiamo
affermare che nel Settecento permane un primato del bello e del piacere, così come afferma
Lessing: l’artista deve «saper dosare il brutto e il dolore, non per una questione etica, ma solo ed
esclusivamente per un problema di natura estetica: consentire che il brutto e il dolore diventino, per
50 . Vediamo sussistere, tramite quest’idea,
lo spettatore, godimento e non sofferenza insopportabile»
l’importanza primaria del piacere, scopo principale a cui mira l’arte. Tuttavia è altrettanto evidente
che iniziano a farsi avanti nuove tendenze e modalità artistiche che esplorano sensazioni nuove e
controverse, in modo tale che nelle arti comincia a delinearsi un gusto del brutto, dell’imperfetto e
anche del male.
Uno dei temi più importanti nell’estetica settecentesca a tal riguardo è il concetto di sublime.
Anche quest’ultimo produce un sentimento misto, a metà tra l’orrore e il meraviglioso. Il sublime si
manifesta attraverso un forte impatto emotivo, una passione che suscita un piacere misto a dolore.
In tal modo il sublime incontra il brutto e lo assimila a sé, rappresentandolo tramite l’arte. Burke
definisce tale sentimento come piacere negativo, in cui «dolore e terrore causano una contrazione o
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tensione violentissima dei nervi che genera diletto» , quest’ultimo considerato come un sentimento
intermedio. L’esperienza del sublime è diversa da quella del bello, poiché mentre quest’ultima
genera un piacere che rilassa i sensi e produce diletto per il fruitore, nella percezione del sublime si
ha uno sconvolgimento violento che costituisce «la più forte emozione che l’animo sia capace di
sentire, dato che l’emozione provocata dal terrore è molto più profonda di quella generata da
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qualsiasi “piacere positivo”» . Allo stesso tempo però è necessaria una giusta misura, poiché
occorre mantenere la corretta distanza nei confronti di ciò che è rappresentato. In altri termini, l’arte
deve saper equilibrare piacere e dolore in modo tale da poter rappresentare il dolore senza produrre
conseguenze negative sullo spettatore. Afferma su questo tema Du Bos che «l’arte dovrebbe trovare
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il modo di separare la gradevolezza della sensazione dalle conseguenze spiacevoli» , lo spettatore
deve essere coinvolto senza tuttavia soffrire come se stesse soffrendo realmente: tale è il potere
48 p. 13.
Ibidem,
49 M. Mendelssohn, (1761), in a cura di L.
Rapsodia, ossia supplemento alle Lettere sui sentimenti Scritti di estetica,
Lattanzi, Aesthetica, Palermo 2004, p. 105.
50 M. Mazzocut-Mis, cit., p. 86.
Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno,
51 p. 62.
Ibidem,
52 p. 63.
Ibidem,
53 p. 57.
Ibidem, 32
dell’illusione, la quale è prodotta dall’arte, e lo stesso fruitore deve essere consapevole del fatto che
sta assistendo a una finzione. La finzione non genera conseguenze negative e dunque è piacevole,
anche se rappresenta qualcosa di negativo.
Da queste considerazioni emerge un altro concetto che compare di frequente nell’estetica
settecentesca, ovvero il tema del disinteresse: l’arte deve poter produrre un effetto sul fruitore, ma
quest’ultimo deve mantenere un certo grado di distacco, senza tuttavia mancare di disporsi nei
confronti dell’opera in modo coinvolto. Ciò significa che è necessario un equilibrio quanto più
bilanciato tra compartecipazione e disinteresse, immedesimandoci nella rappresentazione attraverso
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un «disinteresse interessato» che apre al giudizio. Se pensiamo che il Settecento ricerca
costantemente di conciliare il sentimento e la ragione, la soggettività con l’oggettività, la relatività
con l’universalità, ci rendiamo conto di come il tema del disinteresse compartecipato si inserisca
pienamente nel dibattito estetico del secolo. Su questa linea si pronuncia Kant, affermando che il
bello, oggetto del gusto e della nostra facoltà di giudizio, è dato da un piacere senza interesse,
ovvero scevro da ogni finalità utilitaristica. Il giudizio di gusto, che determina ciò che consideriamo
bello – il quale tuttavia possiede un carattere di universalità e non rimane relegato al mero giudizio
soggettivo del singolo –, è senza alcun interesse, ovvero non suscita alcun desiderio determinato: «il
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piacere del bello è un privilegio che si distanzia da qualsiasi forma di utilità» .
Inoltre per Kant vi è un disinteresse, all’interno del giudizio di gusto, anche dal punto di
vista morale, poiché bello e bene sono concetti distinti: se il bello è dato da un giudizio
disinteressato e dunque libero, il buono è oggetto della volontà e aspira a un fine superiore, nei
confronti del quale suscita un vivo interesse. Tuttavia vi è pur sempre l’idea di una responsabilità
morale dell’arte, come vediamo in Diderot: la rappresentazione artistica deve suscitare un
disinteresse interessato, come abbiamo visto, ma non deve neppure spingere all’azione, soprattutto
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se tale azione ha conseguenze nocive . In altri termini, l’arte rimane – ed è necessario che rimanga
– sul piano della fruizione, e nel momento in cui essa spinge il fruitore oltre questi confini rischia di
produrre azioni e passioni reali. L’arte non deve indurre a compiere comportamenti dannosi, poiché
la fruizione è ben distinta dall’azione. Dunque anche e soprattutto nel caso di rappresentazioni
artistiche del brutto e del male occorre una giusta misura che metta in evidenza il carattere di
finzione, in modo tale che non generi conseguenze dannose. Per questi motivi, un’opera d'arte deve
cercare di mantenere quel giusto equilibrio tra interesse e disinteresse, permanendo nella finzione e
54 p. 22.
Ibidem,
55 p. 23.
Ibidem,
56 pp. 38-39.
Ibidem, 33
permettendo al fruitore di disporsi nel modo più corretto nei confronti della rappresentazione,
rimanendo distaccato e allo stesso tempo sentimentalmente coinvolto.
Se il Settecento è l’età dell’equilibrio tra istanze contrapposte, esso tuttavia apre a una nuova
sensibilità che si fa avanti sul finire del secolo, per poi giungere a maturazione nell’Ottocento.
Infatti se da un lato, come abbiamo visto, si è cercato di mantenere un primato del bello e con esso
della razionalità, dall’altro si sono fatte avanti nuove tendenze che sono in grado di mettere in crisi
il suddetto equilibrio: la bilancia della ragione e del sentimento inizia a pendere dal lato di
quest’ultimo. Avanza un’idea di sensibilità come istinto, immaginazione, pulsione passionale, e se il
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Settecento è il secolo dei Lumi, esso «scopre e interpreta anche l’altro della medaglia: l’oscuro» .
Negli ultimi decenni del 1700 infatti inizia a verificarsi una graduale crisi del gusto, poiché si fa
avanti la figura del genio, il quale incarna una soggettività prorompente che rifugge ogni regola
prestabilita ricercando la creatività e l’originalità. E se nel XVIII secolo il genio ancora trasgredisce
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la regola soltanto per crearne una nuova, seguendo il criterio del gusto senza superarne il limite ,
l’Ottocento inaugura l’onnipotenza assoluta del genio artistico e vede il gusto indietreggiare al
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«prorompere di questa soggettività geniale che lo sovrasta e non si adatta alle sue regole» . Mentre
in precedenza il genio doveva attenersi alle regole del gusto, ora è l’artista stesso che crea il gusto.
Questa rivoluzione poetica si colloca all’interno del fermento culturale del Romanticismo:
[Se] nei secoli precedenti quel che corrispondeva all’estetica (nel senso di una
teoria del gusto) era sempre stata una normativa delle belle arti […] a partire dal
romanticismo, invece, le cose cambiano radicalmente perché alla base del giudizio
non sta più l’ammirazione, cioè il riconoscimento della bontà dell’applicazione di
una norma secondo delle capacità tecniche, ma sta invece il sentimento, l’emozione,
la passione. E proprio la passione può essere suscitata attraverso i soggetti più diversi
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e contraddittori .
Gli artisti romantici ricercano non più un equilibrio tra ragione e sentimento, ma la passione
irrazionale, istintiva, in tutta la sua contraddittorietà. Essi danno valore all’immaginazione, alla
creatività libera che ricerca costantemente l’originalità, ribellandosi a tutti i canoni e a