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INTRODUZIONE
I riti di passaggio, così come li ha identificati Arnold Van Gennep
all’inizio del secolo scorso, hanno accompagnato e accompagnano gli
individui di molte culture nelle fasi di transizione della vita, dalla nascita
alla morte. Uno dei passaggi più rilevanti che ha attirato l’attenzione di
molti studiosi, è quello che avviene tra l’adolescenza e l’età adulta.
Durante questa fase di trasformazione fisiologica, identificata con il
termine «pubertà», subentrano anche modificazioni di carattere sociale, dal
momento che l’individuo cessa di essere dipendente dal nido familiare e si
assume delle responsabilità in qualità di membro della collettività. Si
tratta, sicuramente, di un passaggio delicato su cui vale la pena
soffermarsi. Nelle società tradizionali ritroviamo i riti di iniziazione che
hanno proprio lo scopo di iniziare gli individui all’età adulta. In generale, i
rituali si basano prevalentemente su miti e credenze connessi alla sfera
del sacro, i quali conferiscono un valore indiscutibile alla pratica.
Questa tesi vuole fornire alcuni spunti per indagare un fenomeno attuale
assai ampio e complesso, ovvero quelle che sono le problematiche dell’età
adolescenziale nelle nostre società moderne e globalizzate. La chiave
antropologica utilizzata, partendo dall’analisi del rituale e, in particolare,
del rito di passaggio, ha l’intento di rivelare se e in quale misura la
scomparsa o l’attenuazione di queste pratiche, possa aver contribuito alla
nascita di un malessere socioculturale.
Il primo capitolo presenterà alcuni dei principali studi antropologici sul
concetto di rituale e di costruzione culturale. Il secondo capitolo sarà
dedicato al tema dell’adolescenza, cercando un parallelismo con il periodo
di margine dei riti di passaggio, riconducendo, cioè, il periodo
adolescenziale al concetto di «liminalità». Un paragrafo sarà dedicato
all’interpretazione nichilista del filosofo Umberto Galimberti, il quale
compie un’analisi molto attenta relativa all’età dello sviluppo, dalle lacune
3
nel contesto educativo e familiare, fino a criticare l’ottimismo positivista
delle società moderne che rilegano le difficoltà esistenziali negli angoli bui
della coscienza. Le dicotomie dal sacro-profano, buio-luce, vita-morte,
ritornano spesso nei riti di passaggio, anzi, si potrebbe dire che ne sono
elementi costituivi; è rilevante notare come, in alcune società, invece che
rifiutare o tabuizzare gli aspetti più ostici dell’esistenza, essi vengano
rappresentati, caricaturati, esorcizzati, incisi nella memoria attraverso il
dolore. Gli esseri umani, in quanto dotati di una coscienza, sono
inevitabilmente condotti ad interrogarsi sulla propria esistenza. Questa
ricerca assume forme diverse, andando così a creare la diversità culturale.
Partendo da questo assunto, quindi, sarebbe interessante comprendere se
la società contemporanea occidentale abbia saputo ricreare degli spazi di
legittimazione condivisa per quegli aspetti problematici della vita umana –
le angosce, i dubbi, i peccati, la morte – tradizionalmente coadiuvati
durante i riti di passaggio; o se, invece, la scomparsa dei riti abbia lasciato
delle lacune. La tesi, dunque, non cerca tanto di dimostrare la necessità di
recupero di alcune pratiche tradizionali, che potrebbero, ad oggi, risultare
anacronistiche e pertanto inefficaci. L’intenzione, piuttosto, è quella di far
sorgere degli interrogativi a proposito del recente e repentino
sconvolgimento sociale e culturale, politico ed economico, dell’ultimo
secolo. In particolare, l’attenzione verrà rimandata alla condizione
giovanile odierna e alla difficoltà di diventare adulti.
4
CAPITOLO 1. IL RITO
1.1 Lo studio dei riti
Il rito si presta ad essere una «finestra» da cui osservare la realtà
culturale di ogni società. Con il formarsi della disciplina antropologica, si
1
è via via creata l’idea che il suo compito fosse quello di favorire una
riflessione sulla propria società compiendo un «giro lungo» fra le altre
culture. Specchiandosi nell’altro, si ricavano le differenze, e proprio sulle
differenze si basa il processo conoscitivo antropologico. Assieme ai
2
sistemi di parentele, il rito rappresenta «il primo campo di indagine verso
cui si orienta, ai suoi albori, nella seconda metà dell’Ottocento,
l’antropologia». Se inizialmente le ricerche erano indirizzate ai rituali delle
3
società «primitive», negli ultimi decenni vengono ampliate ai «rituali
secolari del mondo moderno». Gli approcci teorici utilizzati dagli
4
antropologi sono diversi; così se Malinowski si concentrò sull’aspetto
psicologico del rito, Radcliffe-Brown ne individuò la «funzione di
legittimazione dei valori collettivi»; Gluckman vi vide una strategia di
risoluzione dei conflitti sociali; altri, infine, si sono concentrati sugli
«aspetti simbolici (Turner 1967,1969), linguistici o semantici (Leach 1971,
Tambiah, 1985)». A causa della complessità del rito, per il fatto di
5
racchiudere in sé una miriade di significati, simboli e valori di una società,
lo studio non può che risultare «parziale» e refrattario ad un’analisi totale e
completa. 6
Bell C., Ritual Theory, Ritual Practice, New York, Oxford University, 1992, p. 3
1 Allovio S., Riti di iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali, Milano, Cortina
2
Raffaello, p. 49
Scarduelli P., Antropologia del rito, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 8
3 Ivi, p. 7
4 Ivi, p. 8
5 ibidem
6 5
All’epoca delle prime ricerche etnografiche che avevano per oggetto lo
studio dei riti, il modello teorico di riferimento si basava sul paradigma
evoluzionistico. Secondo questa impostazione, le società allora definite
«selvagge» dovevano rappresentare la «genesi» dell’umanità, lo stadio
iniziale della civiltà, in modo tale da considerare il progresso occidentale
come grado massimo sulla scala evolutiva. L’aspetto magico-animista delle
società primitive, pertanto, doveva corrispondere alla disposizione psichica
dell’essere umano non ancora evoluto e, di fatto, rappresentò il centro
gravitazionale dell’antropologia ai suoi esordi. 7
Tra i primi antropologi che si interessarono all’aspetto magico-religioso di
alcune società, Spencer e Tylor forniscono «un’interpretazione
intellettualistica», secondo cui i «primitivi» avrebbero connesso all’atto di
sognare l’esistenza di un’anima, di una vita «parallela». Marett «privilegia
8
gli aspetti emotivi delle credenze primitive», per cui l’uomo farebbe ricorso
alla magia per necessità di tipo emozionale: l’individuo attraversa momenti
di tensione e paura legati all’incertezza, al mistero e all’ignoto. La magia,
9
quindi, servirebbe all’uomo per superare questi stati e conferire senso a
ciò che non può razionalmente spiegarsi. Divergente da tale
interpretazione è quella di Durkheim, che sposta l’attenzione sul carattere
collettivo dei riti e sulle funzioni da esso svolte. Il rituale sarebbe in grado
di regolare la vita sociale, stabilendo un ordine e una struttura percettiva
che accumuni i membri di una comunità. Il potere conferito alla società
come organismo prevarrebbe sulla dimensione individuale; i singoli
individui, in poche parole, svilupperebbero un senso di sottomissione e di
rispetto nei confronti di una più ampia coscienza collettiva. L’individuo,
inoltre, delegando la propria moralità ad un’entità superiore divinizzata,
Ivi, p. 9
7 Ivi, p. 8
8 Ivi, p. 12
9 6
gode di un certo conforto e senso di armonia, oltre che di solidarietà verso
i «suoi simili» .
10
Secondo l’antropologo polacco Malinowski e la sua teoria funzionalista, «le
istituzioni culturali si configurano come strumenti che forniscono risposte
e soluzioni alle necessità fondamentali degli esseri umani», da quelle
primarie legate alla sopravvivenza sino alle necessità psicologiche
individuali. Il bisogno di colmare le incertezze e le angosce della vita
11
quotidiana, troverebbe risposta nei riti magici, come «tentativo di
fronteggiare l’imprevisto, l’inesplicabile, tutto ciò che, in sostanza, frustra
gli sforzi dell’uomo e li condanna al fallimento». La magia, secondo
12
Malinowski, interviene, in modo pragmatico, nel momento in cui la scienza
non è sufficiente, quando cioè l’uomo si scontra con la propria limitatezza
razionale. In questo senso il rito magico è da intendere come strumento
funzionale alla società, ad esempio quando gli uomini devono
intraprendere missioni rischiose o difficilmente prevedibili. La magia
quindi non sostituisce la conoscenza tecnica, ma va a colmare le sue
lacune. Con ciò, l’antropologo, vuole dimostrare che le forme magico-
religiose nelle società tradizionali non sono da interpretare come
«pseudoscienze» e, quindi, come antenati o precursori della scienza, ma,
piuttosto, come forme coerenti dotate di una propria razionalità. 13
Radcliffe-Brown critica l’interpretazione di Malinowski rovesciandone la
prospettiva: il rituale non scioglierebbe gli stati di paura, ma, al contrario,
andrebbe a crearli. Più che a soddisfare i bisogni emotivi degli individui, le
emozioni rappresenterebbero il mezzo con cui il rito va a «fissare in modo
duraturo determinati valori nei partecipanti». La funzione del rituale, in
14
questa prospettiva, svolge «un’azione di controllo il cui scopo principale è il
Ivi, pp. 13-14
10 Ivi, p. 15
11 Ivi, p. 17
12 Ivi, pp. 16-18
13 Ivi, p. 19
14 7
mantenimento del sistema delle relazioni sociali, delle istituzioni e della
gerarchia degli status». 15
I seguaci di Radcliffe-Brown proseguono su questa linea volta ad
individuare nei riti una funzione istituzionalizzante dei valori della società
e il carattere ripetitivo servirebbe a riaffermare periodicamente questi
principi. Da questa teoria si può dedurre un tentativo di collocare il rito
all’interno dell’organizzazione politica. Nello studio dei riti della Birmania
settentrionale svolti da Leach, emerge chiaramente questa prospettiva: «il
mondo soprannaturale sarebbe una proiezione della gerarchia soc