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I MEDIA NEL RAPPORTO TRA LE GENERAZIONI
2.1 Fasce di età “sociali”
“La nostra psiche è plasmata dai media” fin dalla nascita e il suo essere connessa fa
sì che” il nostro pensiero perda nella crescita personale le sue caratteristiche di
interiorità e autonomia acquisite, diventando piuttosto qualcosa di esterno, condiviso
e intersoggettivo.” (Felini, 2004). Come definisce in altri termini Martelli “il
soggetto è flessibile […], oppure a “bassa definizione” […] in base alle esperienze di
cui è protagonista; quindi, la sua personalità è frutto dell’assemblaggio casuale di
stili e modelli disomogenei” (Martelli, 1996). Questo ci permette di capire quanto
sia pervasivo il rapporto tra i media e il mondo giovanile che subisce la costruzione
di un principio di identità in mancanza di istituzioni socializzanti forti (Felini, 2004
p.21-22).
Accedere al mondo dei media può rivelarsi un “diluvio” (Pierre Lévy, 1997) in
rimando al diluvio universale, per descrivere la quantità immensa di informazioni
che ci arrivano quotidianamente e che necessitano di essere gestite consapevolmente
per sapersi districare tra di esse, oppure una “carestia” (ibidem) riferendosi alle
situazioni che si verificano nei paesi in via di sviluppo dove l’orizzonte dei media è
ben lontano dall’essere preso in considerazione.
2.1.1 Immigranti digitali
Esistono diverse categorie di persone distinte sulla base della loro data di nascita. La
prima su base cronologica viene definita “immigranti digitali” (Mantovani, 2008)
ossia tutte quelle persone che sono cresciute e hanno vissuto prima dell’avvento della
tecnologia e che quindi stanno cercando di comprendere e imparare questo nuovo
linguaggio “digitale”. L'adulto immigrante digitale deve quindi mettere in atto quella
che viene chiamata “interazione guidata”. Si può quindi affermare che i contesti
educativi ad oggi stanno integrando la tecnologia e ne stanno “metabolizzando l'uso
in maniera lenta rispetto alle famiglie” (ibidem, p.9). Maggiore è l'esperienza d'uso
accumulata, maggiore è la performance scolastica che si ottiene. C’è un elemento da
considerare in merito a questo, ossia il fatto che solitamente “i ragazzi che da più
tempo usano delle tecnologie digitali sono quelli che vivono nei contesti familiari
socio economici più favoriti e quindi è possibile che questa condizione contribuisca a
far ottenere un migliore risultato scolastico” (ibidem).
2.1.2 I Nativi Gutenberg
Una seconda categoria sono i “nativi Gutenberg”, ossia quelle persone “che sono
nate, cresciute e si sono formate almeno per la prima parte della loro vita all'interno
dell'universo sociale ed economico della galassia Gutenberg [...] in una società
caratterizzata dalla diffusione della produzione industriale di massa, dai mezzi di
comunicazione come la televisione, ma anche la radio, il cinema e da una modalità di
relazioni sociali e comunicative passive rispetto alle decisioni politiche e ai consumi
materiali e immateriali. (Mantovani, 2008 p.15-16).
In relazione a questa trasformazione anche” il ruolo dell’insegnante si sta
trasformando da signore dell'aula che dispensa pillole di conoscenza a progettista
didattico, allenatore o coach oltre che tutor di un team di giovani talenti” (ibidem).
L'autore Marc Prensky sostiene che “gli adulti hanno avuto un tipo di socializzazione
alla tecnologia molto differente dai loro figli, o non l'hanno avuta affatto, che stanno
oggi imparando a vivere il mondo digitale come se apprendessero una seconda
lingua. Una lingua imparata non da piccoli, ma più avanti nel corso della vita”
(Prensky, 2001). Per questo motivo spesso gli adulti immigranti digitali utilizzano la
tecnologia in modo gutenberghiano e analogico. Consideriamo quindi che i nativi
digitali “si trovano di fronte all’insegnante che parla una lingua con un accento
talmente differente dal loro da farla sembrare un'altra, un idioma che in molti casi
non riescono nemmeno a comprendere” (Mantovani, 2008).
Il problema che si pone è che dalla loro mancanza di abilità nell’uso di questi
dispositivi tecnologici ne scaturisce una forte dose di diffidenza e difficoltà nell’uso
degli stessi.
2.1.3 I nativi digitali e la ricerca New Millennium Leaners
I nativi digitali, così definiti per la prima volta da Marc Prensky (2001) sono
multitasking ossia riescono a fare più attività contemporaneamente.
Secondo Veen i valori che orientano gli stili comportamentali di apprendimento dei
nativi digitali sono: l'espressione di sé, la personalizzazione, la condivisione costante
di informazione detta anche “sharing” e il riferimento costante ai coetanei (Veen,
2006).
Diventa difficile in questa situazione contrastare “il rischio di una indigestione
tecnologica solitaria e bulimica, consumata nell’isolamento e nello straniamento
sociale” (Mantovani, 2008). È un pericolo che esiste già nelle famiglie nella società e
che potrebbe ulteriormente estendersi qualora la scuola non si apra al nuovo, ai nuovi
linguaggi e ai nuovi stili cognitivi dei piccoli sempre criticamente, ma senza timori.
“I nativi digitali sono naturalmente bilingui” (Mantovani, 2008) nascendo nel
contesto fortemente digitalizzato. Quest'ultima caratteristica identifica la capacità di
potersi esprimere e di pensare senza difficoltà in due lingue diverse con un livello di
precisione identico in ciascuna delle due. Quindi i nativi digitali sono persone che
“non traducono in una nuova lingua tecnologica, ma pensano direttamente con e in
essa” (Casulli, 2005).
La sforzo che devono compiere gli immigranti digitali è allora quello di comprendere
come trasformare l’idea che hanno della tecnologia come strumento “sostitutivo” in
quello piuttosto “integrativo”.
Il confine tra i nativi Gutenberg e la nascita dei nativi digitali secondo il progetto
New Millennium Leaners dell’OCSE possiamo collocarlo intorno alla metà degli
anni ‘80, quindi i nati dopo il 1985 sarebbero i primi nativi digitali di cui però se ne
parla in Italia solo dal 1996. “È probabile quindi che i nati tra il 1985 e il 1996 nel
nostro paese debbano essere ancora inclusi nella categoria degli immigrati digitali.”
(ibidem). Sono quindi molti gli insegnanti che hanno abitato e anche costituito la
galassia Gutenberg.
L’acronimo NML che sta per “New Millennium Leaners” include tutti i bambini e i
ragazzi che sono nati in un mondo già pieno di tecnologie digitali ed è il nome che è
stato coniato durante il progetto di ricerca dell’OCSE che si inserisce in una più
ampia ricerca condotta dal Centre for educational Research and Innovation fin dal
1998 chiamata School of Tomorrow.
Le paure degli adulti nei confronti dell'incontro precoce dei bambini con le
tecnologie sono: la paura dello sconosciuto, del diverso e dell’ignoto e dei linguaggi
che agli adulti risultano come nuovi. Essere immigranti adulti genera un sentimento
di vulnerabilità in un mondo che non si riesce a dominare a causa del linguaggio
utilizzato all’interno dello stesso come lingua madre della quale non si arriverà mai
ad esserne completamente padroni.
Allo stesso modo in cui si osservavano in passato i bambini approcciarsi in modo
naturale agli oggetti tra le loro mani esplorandoli e scoprendoli, si osservano oggi i
nativi digitali intenzionati a compiere un tipo di sperimentazione altrettanto
interessante per capire il modo in cui si accostano all’uso degli strumenti digitali.
Il modo di conoscere e approcciarsi ad una nuova tecnologia è diverso a seconda se
avviene per la prima volta durante l'infanzia o in età adulta come nativi o immigranti
digitali. La psicologa californiana Sherry Turckle (1984) spiega le trasformazioni che
la soggettività subisce nell’impatto con la tecnologia digitale. Ci sono tre ambiti di
influenza che si susseguono nel corso dello sviluppo. Il primo, che è quello che ci
interessa, viene definito “fase metafisica” (Mantovani, 2008) che si inscrive tra i 3 e
gli 8 anni, dove i bambini trovano nuovi stimoli per cercare risposte al perché della
vita e trovandosi di fronte ai giocattoli elettronici li esplorano, li mettono alla prova,
tentando di sottometterli al proprio potere. Tra i tentativi più comuni ricordiamo il
fatto di provare ad attaccare e staccare la spina e a premere i bottoni on/off.
Quando si parla di approccio alla tecnologia ci si riferisce ad una “attenzione senza
sguardi” (Mantovani, 2008): si tratta di una nuova caratteristica del modo di
comunicare. Lo sguardo è da sempre riconosciuto come primo veicolo della
comunicazione che si crea nei primi scambi tra neonato e chi si prende cura di lui,
ma ad oggi occorre compiere un ulteriore tipo di sforzo da parte degli insegnanti
definito come “Bildung”, “cioè come apertura colta e critica verso il nuovo mondo
nel quale i bambini cresceranno” (ibidem) circondati dal digitale.
“Non è tanto importante la quantità di tecnologia presente a scuola bensì la sua
coerenza” (ibidem). È necessario finalizzare l'uso della stessa per una crescita
personale, piuttosto che per sole necessità formative. Il protagonismo dei bambini li
rende attivi e critici rispetto all'uso degli strumenti tecnologici per co-progettare dei
percorsi didattici abilitati dalle tecnologie.
I contesti educativi pertanto non devono insegnare le tecnologie ai bambini, ma
“stimolare attraverso un uso proattivo e libero le loro abilità creative, comunicative,
cooperative e artistiche [...]. L'adulto non può imporre ai bambini il suo modo di
considerare la tecnologia e di utilizzarla, ma deve piuttosto prendere coscienza di uno
stile di vita basato sul “lifelong learning” e nello specifico caso sul “lifelong media
education” (Felini, 2004), per indicare un percorso di apprendimento ai media che
dura l’intero ciclo della vita, dove spesso sarà tenuto a lasciar fare e sospendere
l’atteggiamento invadente.
“Creando però i giusti strumenti e canali di dialogo telematici tra scuola-famiglia
sarà possibile far confluire le competenze degli insegnanti e dei genitori immigranti
nell’interesse della formazione e del benessere dei loro figli nativi digitali”
(Mantovani, 2008).
I bambini davanti a uno schermo lavorano insieme e creano solide collaborazioni. È
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