CONSEGUENZE. COSTI UMANI, SVILUPPI
ORGANIZZATIVI E DANNI PER LA SOCIETÀ.
3.1 I sintomi dei lavoratori.
Lo scenario del mobbing prevede un ambiente altamente conflittuale
e intriso di sentimenti distruttivi che non può esimersi dal provocare esiti
dalla portata sconvolgente nelle vittime designate.
Come si è sostenuto nel capitolo precedente, per il lavoratore le azioni
del mobbing sono fonti di stress inteso nella sua accezione negativa, ossia
come impossibilità di adattamento a una nuova situazione che si è venuta a
creare. Il grande squilibrio che deriva dall’insorgenza di queste azioni
vessatorie, fonti di cambiamento tra l’individuo e il suo ambiente, mobilita
una forte reazione dell’organismo delle vittime: vengono investite molte
energie affinché si possa produrre una risposta adattiva adeguata. Il coping,
quindi, in questo caso è costituito dall’insieme di pensieri e azioni attuate dal
lavoratore per fronteggiare la specifica situazione di pericolo. Tuttavia, il
fenomeno che stiamo analizzando è caratterizzato da azioni reiterate nel
tempo e per questo motivo la fonte di stress è continua e persistente; inoltre
è molto difficile pensare a delle risposte funzionali ed efficaci per
interrompere il loop in cui viene catapultata una persona che comincia a
essere oggetto di azioni vessatorie. Per questo motivo le capacità di coping si
rivelano non efficaci o si esauriscono col risultato che il mix di stress
permanente e di assenza di risposte adeguate finiscono per condurre
l’organismo a un vero e proprio esaurimento. Inizialmente, infatti, si attivano
dei meccanismi neurologici necessari ad avviare modificazioni fisiologiche
atte a “potenziare” l’organismo in vista delle grandi richieste dell’ambiente
(per esempio avvengono delle vere e proprie modificazioni di diversi
paramenti fisiologici per l’attivazione del sistema simpatico e quello dell’asse
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ipotalamo-ipofisi-surrene). Questi adattamenti sono misurabili ma non
costituiscono ancora patologia. Per spiegare questo concetto possiamo
pensare alla reazione del corpo umano in seguito all’esposizione al calore:
sudare è una risposta adattiva fisiologica e momentanea; pertanto, non
costituisce un pericolo per la salute dell’individuo. Tuttavia, se il processo a
un certo punto non si interrompesse e non smettessimo più di sudare, il
corpo non riuscirebbe più a compensarne gli effetti e comincerebbe una fase
irreversibile con l’insorgenza di una vera e propria patologia. È così che nella
vittima i disagi, disturbi, le somatizzazioni e le malattie diventano croniche.
Cosa vive e, soprattutto, come si sente chi subisce violenze sul posto
di lavoro? Analizzando i dati del Dottor Andrea Castiello d’Antonio (citato
in Lo Iacono, 2018, p.167) raccolti su pazienti che hanno sperimentato un
percorso di psicoterapico, la prima rappresentazione emergente è quella di
un disagio nell’espletamento delle attività lavorative. Dopo pochi giorni dal
conflitto, infatti, lo stato di benessere/equilibrio che l’individuo aveva,
comincia a essere intaccato dalle preoccupazioni riguardo a quello che sta
succedendo e dalla paura di dover incontrare ogni giorno il proprio
“aguzzino”. Questi pensieri inducono uno stato di ansia e di panico tali da
impedire alla mente di orientarsi su argomenti diversi da quello lavorativo.
Essere mobbizzato implica essere vittima di un automatismo mentale per cui
si ritorna sempre agli stessi pensieri e alle situazioni vissute sul posto di
lavoro: in questo senso si perde il controllo. La cosa paradossale è che,
nonostante il mobbed dedichi tanto tempo alla riflessione sulle cause del
conflitto, su possibili soluzioni e su come difendersi, non si arriva mai a un
momento conclusivo e di reale risoluzione del problema. Le conseguenze
saranno un abbassamento delle capacità di concentrazione e del rendimento
lavorativo e, contemporaneamente, un aumento delle attività che favoriranno
la fissazione del pensiero sulla questione. Fisicamente si assisterà a un calo
generale delle difese dell’organismo con una conseguente maggiore
vulnerabilità alle malattie.
Per gli autori Depolo e Baldassarri, il ciclo della vita del virus del
mobbing si sviluppa in tre fasi: 74
fase iniziale (0-6 mesi). Il soggetto tenta in qualche modo di
fronteggiare attivamente la situazione ma cominciano a
manifestarsi i primi sintomi psicosomatici;
seconda fase (6-24 mesi). Ogni tentativo di ripristino
dell’equilibrio lavorativo e personale è fallito e si assiste a un
aggravamento della patologia insorta nella prima fase, con un
“evoluzione” verso stati depressivi e ansiosi;
terza fase (oltre i 24 mesi). Si sperimenta un distacco sia
relazionale che affettivo e i sintomi sono ormai divenuti
cronici.
Esistono anche casi estremi in cui si arriva al suicidio.
Indubbiamente, ogni individuo è diverso, pertanto la risposta alle
azioni vessatore è sempre soggettiva. La soggettività dipende appunto da una
serie di fattori come la personalità, le risorse a disposizione ecc., che
determinano la misura della resistenza alla violenza psicologica subita.
Nonostante questo, è possibile identificare tre tipi di conseguenze a carico
dell’individuo in presenza di mobbing:
- disturbi psicosomatici e alterazioni psicofisiologiche;
- disturbi psicopatologici;
- alterazioni dei disturbi del comportamento.
Ege, approfondendo le ricerche di Leymann, ha messo a punto un
sistema organizzato in cui evidenza le patologie riscontrate, tra cui anche
quelle fisiche a carico di: apparato digerente, apparato respiratorio, arti, cuore,
occhi, testa, pelle e sistema immunitario (1996).
Tutti i sintomi vengono classificati in questo modo:
• Sintomi da pressione psicologica. Il mal di testa e cefalee sono
sintomi molto comuni in casi di stress e dunque ricorrono anche in situazioni
di mobbing. Costituiscono una reazione fisiologica alla pressione psicologica
esercitata dai mobber e dall’ambiente stesso. I soggetti più sensibili accusano
spesso anche capogiri e disturbi all’equilibrio ma, in casi estremi si può
arrivare anche a svenimenti. Inutile dire che questi malesseri vengono
utilizzati anche per accusare la vittima di essere troppo debole e quindi
inadatta a ricoprire il suo posto di lavoro;
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• Difficoltà nelle funzioni intellettuali. Può capitare che i soggetti siano
in difficoltà nello svolgimento del loro lavoro per via di annebbiamenti
improvvisi e temporanei della vista, difficoltà di memoria o di
concentrazione. Gli esami clinici dimostrano che non ci sono cause fisiche:
la causa è l’azione erosiva dello stress sul sistema nervoso del mobbizzato.
L’ideale in questi casi sarebbe un periodo di riposo, rigorosamente lontano
dal posto di lavoro, tuttavia la vittima, per sua natura, in una condizione di
mobbing pare non averne diritto;
• Disturbi del sonno. La tensione che deriva dalle dinamiche di
conflitto causa insonnia, incubi, interruzioni del sonno, risvegli anticipati. Il
sonno costituisce una fonte di energia per l’organismo, eppure,
paradossalmente, in un momento di massimo bisogno come questo il
soggetto non riesce a fruirne perché cristallizzato e fissato nella situazione di
violenza che sta vivendo.
• Problemi delle funzioni gastriche e digestive. La gastrite ed i bruciori
di stomaco sono le prime avvisaglie e possono essere accompagnate da
inappetenza, nausea e vomito. Le loro manifestazioni spesso avvengono
proprio sul posto di lavoro e per questo i soggetti possono diventare oggetto
di pettegolezzo. Nei casi peggiori si può arrivare anche a patologie intestinali
spesso con danni anche molto gravi alla salute;
• Dolori muscolari. Si tratta di dolori di schiena, cervicali, reumatismi
e artriti ed è più probabile che si manifestino in soggetti particolarmente
predisposti a questo tipo di sintomatologia, che si acuiscono in seguito alla
somatizzazione delle tensioni derivanti dalla situazione. Può essere un errore
considerarli solo in un’ottica di malanni stagionali e vanno valutati in modo
più profondo e globale;
• Sintomi di nervosismo. Le risposte includono: palpitazioni, bocca
secca, difficoltà respiratorie, tremori o debolezza agli arti, nodi alla gola,
pressione sul petto, sudori improvvisi, agitazione generale, tensione nervosa
ed irrequietezza costante, anche in assenza di situazioni critiche. È anche
possibile che si finisca per avere reazioni aggressive e spropositate. Le
reazioni possono essere causate dal pensiero di dover ritornare in ufficio e
incontrare i consueti aguzzini; oppure dalla paura di essere ripresi, o
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addirittura licenziati, a seguito di errori compiuti sotto pressione o di cui si è
accusati ingiustamente. Ovviamente chi presenta questi sintomi viene
accusato di essere troppo nervoso, intrattabile, maleducato, di non sapere
affrontare le situazioni con calma e professionalità. Spesso chi l’accusa non è
nemmeno il mobber, ma un superiore, ignaro di tutti ii retroscena. Proprio
per questo, lo star male diventa un’arma a doppio taglio che finirà per
allargare l’azione distruttiva del mobber, coinvolgendo in essa anche i vertici
aziendali;
• Manifestazioni depressive. Crisi di pianto, apatia e pessimismo:
questi gli stati che accompagnano la vittima. L’abbattimento sperimentato dal
soggetto, infatti, deriva dalla situazione di profondo rischio e incertezza
confezionata dal mobber, a cui non può sottrarsi e per cui si sente insicuro,
attanagliato da mille paure, di fallire, di agire, addirittura di vivere. Inoltre, la
depressione non è soltanto psichica, ma si traduce anche in disagi fisici: il
soggetto si sente senza energie e senza motivazione. Ne deriva un profondo
senso di solitudine a fronte di un mondo circostante ostile e, a pensarci bene,
questo sentire soggettivo non è lontano dalla realtà giacché il mobbizzato è
davvero solo.
Chiaramente, non tutte le persone sono vulnerabili al mobbing nella
stessa misura e per questo non tutti subiscono gli stessi effetti. Come per altri
fenomeni, esiste una soglia individuale di resistenza che è di natura
multifattoriale: può essere più bassa o più alta in funzione dell’intensità delle
violenze subite e della durata dell’esposizione, del livello di autostima del
soggetto, della sua età, del genere, o anche del momento storico della vita in
cui si trova la vittima in quel momento.
Non si fatica immaginare il posto di lavoro come una trincea, in cui si
consuma una guerra logorante e subdola e in cui la vittima
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