DISPOSITIVO TECNICO
Nathan, trovandosi in Francia di fronte ad una situazione urbana con forte presenza di gruppi etnici
non europei, si è reso conto dell’esigenza di introdurre delle modifiche all’interno della terapia con
pazienti autoctoni.
La psicopatologia, nata nel diciannovesimo secolo, ha sempre ammesso il postulato di un ‘soggetto
universale’, individualizzato e indipendente dal suo universo culturale. Quando, utilizzando tale
postulato come vero, si intraprendono psicoterapie con pazienti provenienti da popolazioni
immigrate, viene commesso un grave errore metodologico. Per occuparsi di psicopatologia tenendo
conto del fatto che la cultura di un soggetto è indissociabile dal suo essere, bisogna accettare tre
enunciati teorici preliminari:
l’apparato psichico deve essere considerato come una macchina per crear legami,
autoregolantesi su una macchina simile con ugual funzione, ma di origine esterna: la cultura;
tutte le terapie tradizionali sono operazioni razionali ed efficaci, suscettibili di indagini
approfondite;
non esiste a rigore una psicoterapia, ma solo delle ‘autoterapie’ suscettibili di essere
innescate da ‘operatori’.
Questo è l’unico modello teorico che permette di capire perché le tecniche terapeutiche possono
rivelarsi talmente diverse nelle regioni del mondo, pur perseguendo il medesimo scopo: la
modificazione dello stato patologico (vedi Nathan 1996: 41-42).
In psicopatologia, infatti, tutte le teorie discendono da osservazioni che non hanno nulla di
naturalistico, perché il paziente condivide o inizia le logiche del pensiero del teorico. La teoria
quindi non ha solo un ruolo esplicativo sui fatti osservati, ma è parte costitutiva dei materiali clinici
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‘grezzi’. Accettare di maneggiare le teorie che organizzano la patologia dei pazienti implica una
riformulazione dello statuto di teoria nella clinica, in primo luogo, della teoria a cui il clinico
aderisce. Accettare tali premesse significa dover apprendere oltre l’oggetto, anche il sistema di
pensiero che permette di percepirlo (vedi Nathan 1996: 27). Nathan afferma che: “Tenendo conto
del fatto che in clinica, come in molti altri ambiti, non è possibile alcuna innovazione senza
modificare il dispositivo di raccolta dei dati, ho deciso di partire non più da una posizione teorica,
ma dai problemi tecnici incontrati dal clinico quando desidera stabilire una relazione terapeutica
con un paziente proveniente da un’altra cultura” (Nathan 1996: 28).
Il quadro tecnico è il dispositivo entro cui tutto ciò che accade è concepito dal terapeuta come
‘naturale’. Ogni interazione prodotta entro il dispositivo tecnico deve essere governata da un
sistema teorico compreso nel quadro tecnico, un sistema da cui discendono le costruzioni di senso
(implicite ed esplicite). Ciò permette di pensare una metodologia adeguata ad ogni fatto
psicopatologico, qualunque sia la sua complessità (vedi Nathan 1996: 45).“I due quadri, tecnico e
teorico, hanno la funzione di rendere l’interazione naturale, mentre essa è totalmente costruita e, di
conseguenza, contingente: essa è un mondo a parte in un mondo normale; tuttavia ciò che vi accade
deve essere concepito come naturale” (Nathan 1996: 46).
In caso di psicoterapie con pazienti immigrati, quindi, il terapeuta deve necessariamente inscriversi
in un dispositivo tecnico e un sistema di pensiero radicalmente diversi da quelli che è solito abitare.
Deve elaborare una teoria sul funzionamento psichico, lavorando sulla modifica del dispositivo:
prima intervenire sulla teoria eziologica del paziente, quindi, attraverso l’induzione di nuove
tecniche, modificare il ‘cadre’, la cornice del quadro terapeutico, facendo risorgere quelle radici
della propria cultura oramai lontane per un migrante. Questo permette una presa terapeutica più
efficace.
L’etnopsichiatria clinica deve perciò introdurre alcune di quelle tecniche quali, le tecniche corporee,
dal rilassamento all’induzione della trance, o oggetti magici utilizzati al posto delle parole (vedi
Pandolfi, in Nathan 1990). 27
3.3 MODIFICAZIONI DELLA TECNICA: IL DISPOSITIVO
ETNOPSICANALITICO DEL CENTRO DEVEREUX
Tobie Nathan, professore di psicologia clinica e patologica all’Università di Parigi VІ, ha fondato
nel 1993 il Centro universitario di aiuto psicologico alle famiglie migranti, intitolato al suo maestro.
Al Centro Devereux si svolgono attività di ricerca, medico-giudiziarie, cliniche, di formazione e di
informazione, di insegnamento, di mediazione culturale. Vi partecipano, stabilmente o
saltuariamente, figure con competenze diverse (psicologi, medici, operatori sociali, filosofi,
antropologi, mediatori culturali) e di diverse nazionalità. In meno di dieci anni le attività di questo
laboratorio lo hanno reso celebre e hanno fatto di Nathan la figura principale (ma anche contrastata)
dell’attuale etnopsichiatria.
Le attività cliniche svolte nel Centro ruotano attorno ad un servizio ambulatoriale dedicato a
famiglie migranti, spesso inviate per expertise o terapie da istituzioni sanitarie, scolastiche o
giudiziarie, e a specifici gruppi: le ‘vittime delle sette’, i ‘transessuali’, i ‘portatori di disturbi
alimentari’, le ‘vittime di traumi intenzionali’ e anche le ‘vittime delle psicoterapie’. Le sedute
ambulatoriali hanno luogo in una sala del Centro; durano due, tre ore, si svolgono in francese e
nella lingua materna del paziente. Implicano la partecipazione di un’equipe multiculturale e
plurilinguistica di psicologi che accolgono il paziente, la famiglia e i loro referenti istituzionali
(leader di comunità, medici che hanno seguito il problema, ecc.).
Il dispositivo etnopsicoanalitico, creato da Nathan ed utilizzato nel Centro, deriva dalla
constatazione che, al cospetto di soggettività culturali irriducibili al quadro psicoanalitico della
cura-tipo, laddove il paziente e l’analista siano prigionieri dell’alterità dei rispettivi sistemi di
comunicazione significativa, questo costituisca un ostacolo per l’impresa terapeutica (vedi Inglese
1994). Per questa ragione concepisce un quadro di intervento tecnico in grado di favorire
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l’instaurazione di legami significativi tra il sistema referenziale del paziente e quello dell’analista.
Egli rivoluziona il setting psicoanalitico e psicoterapeutico individuale: lo psicoterapeuta o lo
psicoanalista non siede più dietro la scrivania o su una poltrona, di fronte al paziente o alle sue
spalle. Inoltre quest’ultimo non è più portatore solo di disturbi ma anche di una cultura da decifrare
e rendere viva. Il lavoro di consultazione etnopsichiatrica si svolge all’interno di una matrice
gruppale in cui il terapeuta è circondato da un certo numero (generalmente 15) di co-terapeuti di
diversa lingua e nazionalità in veste di ‘mediatori etnoclinici’ che spesso hanno ricevuto non solo la
formazione accademica, ma anche un’iniziazione tradizionale specifica e da altre figure come
antropologi, medici guaritori, sciamani.
Alla consultazione etnopsichiatrica partecipa non solo l’individuo portatore del sintomo, ma anche
il suo gruppo familiare, o quello culturalmente omogeneo. Il gruppo permette di dare spazio alle
rappresentazioni eziologiche tradizionali offerte dal paziente, dalla sua famiglia e dal gruppo
terapeutico. Tali rappresentazioni sono pertinenti al sistema referenziale del paziente permettono la
traducibilità del livello di sofferenza idiosincratica in un culturale condiviso. La scelta di utilizzare
delle rappresentazioni della medicina tradizionale è fondamentale affinchè possa instaurarsi
l’interazione terapeutica (vedi Inglese 1994). Diversamente, usando univocamente i criteri
nosologici della psichiatria occidentale, il paziente verrebbe ancor più soffocato nel proprio reticolo
idiosincratico e relegato in un ambito di pura emarginazione.
Il dispositivo gruppale così creato è plurietnico, plurilinguistico e pluriculturale e svolge
nell’insieme molteplici funzioni:
il paziente può installarsi nel gruppo come se fosse all’interno del proprio originario quadro di
riferimento culturale. “Per la sua somiglianza con le pratiche tradizionali, il gruppo costituisce
un contesto ‘a metà strada’, ‘ibrido’, adatto a fornire un contenitore alla sofferenza di un
paziente che anche lui si trova sempre in situazioni di acculturazione” (Nathan 1996: 50);
la presenza di accompagnatori che ricoprono o hanno ricoperto qualche ruolo nella vita
quotidiana del paziente funge da contenitore, da sostegno, permettendo l’emergere e il
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dispiegarsi delle sue caratteristiche idiosincratiche;
il gruppo fornisce una possibilità di scambio e di legame interattivo tra molteplici realtà
culturali. Non solo i rappresentanti della cultura del paziente, ma anche gli appartenenti ad altre
culture, attraverso l’esplicitazione delle proprie differenti etiologie, favoriscono il
riconoscimento da parte del paziente della sua specificità e identità culturale. Inoltre. la presenza
nel gruppo di persone appartenenti a culture differenti mette a disposizione una moltitudine di
interpretazioni, esplicitandone sempre i referenti, senza che il paziente venga ingabbiato in una
rappresentazione univoca (di tipo diagnostico), ma presentando piuttosto un ‘caleidoscopio’ di
interpretazioni;
il gruppo funge da piano d’appoggio e rassicurazione conforme alla visione ideologica del
paziente che concepisce la relazione duale come prodotto di una seduzione o di una fatale
stregoneria (vedi Nathan 1996).
All’interno di questa rete relazionale un posto centrale viene occupato da soggetti con funzione di
mediazione interculturale che parlano la stesse lingua del paziente (etnoclinici): il suono, la
cadenza, l’accento della lingua materna utilizzata principalmente dal mediatore, attivano nel
paziente sensazioni e sentimenti di familiarità e sicurezza che stanno alla base del senso di
riconoscimento all’interno del gruppo.
La lingua rappresenta il principale riferimento culturale del paziente, con la quale egli costruisce
spontaneamente il suo pensiero. Essa è “una forma specifica del sistema culturale che serve a
determinare il senso di appartenenza dell’individuo e le sue possibilità di scambio sociale entro il
proprio gruppo, assegnando al soggetto una posizione differenziata rispetto coloro che non
appartengono allo stesso campo linguistico” (Inglese, in Nathan 1996: 13). Attraverso la lingua. il
paziente, sentendosi riconosciuto, è disposto ad avventurarsi verso la narrazione di sé, da cui
emergono i significati che attr
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