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PENA FUORI DAL CARCERE: LE MISURE ALTERNATIVE ALLA
DETENZIONE
2.1. L’attuazione del principio costituzionale
L’idea rieducativa non è rimasta vuota enunciazione costituzionale; ci sono stati una serie di
interventi legislativi volti a dare attuazione al principio espresso nell’art. 27, comma 3° della
Costituzione. I più significativi e ragguardevoli mutamenti sono stati compiuti sul terreno
dell’esecuzione penale. In questo ambito, il terzo comma dell’art.27, ha visto pienamente
riconosciute le sue potenziali capacità espansive. Già nel 1962 l’ammissione degli ergastolani alla
liberazione condizionale segnava una prima, importante tappa nel processo di permeabilizzazione
del momento esecutivo. La legge 25 novembre 1962, n.1634, modificando l’art.176 del codice
penale ha stabilito che “il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione
condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena”.
Il rinnovato interesse per gli scopi e le funzioni della pena hanno favorito la nascita della Legge
354/75 di riforma dell’ordinamento penitenziario che ha avuto il pregio di rendere effettiva la
finalità rieducativa della pena che era rimasta letteralmente morta nel dettato costituzionale. Infatti
lo stesso art.1 di questa legge impone che la pena abbia una finalità rieducativa, finalità che va
perseguita attraverso una serie di attività e misure volte a intervenire e correggere la personalità del
detenuto in modo da superare quelle carenze che lo hanno portato al comportamento deviato di
modo che possa essere reinserito nella società come un uomo nuovo e rispettoso delle sue regole.
Dunque, la piena concretizzazione del principio rieducativo si realizza compiutamente con la
riforma dell’ordinamento penitenziario, introdotta con la Legge 26 luglio 1975 n.354.
2.2. La riforma penitenziaria del ‘75
Il 1975 segnò una data storica per lo sviluppo dell’intero sistema delle carceri italiane, sottolineando
per la prima volta, sul terreno esecutivo, il salto di qualità operato dalla Carta Costituzionale. Entrò
in vigore, infatti, la Legge n°354/75 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative
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e limitative della libertà personale”, che rappresentò un’importante svolta dal punto di vista dei
principi ispiratori e della legislazione sul penitenziario poiché sostituisce definitivamente il
precedente regolamento carcerario fascista del 1931 . La riforma era stata proposta per la prima
12
volta nel 1960 con un disegno di legge sul quale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Gonnella
aveva ottenuto il consenso del Governo. A terminare finalmente la sua approvazione, dopo una
gestazione di ben 28 anni, concorse uno stato di agitazione che si percepiva all’interno degli istituti
penitenziari, oltre ad un clima culturale e politico che verso la metà degli anni 70 era divenuto più
incline alle innovazioni e più sensibile ai problemi dei soggetti marginali.
La legge approvata nel luglio 1975 si inserisce infatti, nel quadro di una stagione di radicali
mutamenti legislativi nel nostro Paese, che nel corso degli anni settanta hanno rappresentato una
sorta di adeguamento del corpo giuridico dello Stato ad una nuova visone che la società italiana
andava maturando di essa. Sono infatti frutto di questo processo, tanto la legge che istituisce il
Servizio Sanitario Nazionale (1978) quanto quelle sul divorzio (1970) e interruzione volontaria
della gravidanza (1978), tanto quella che apre i consultori familiari (1975) quanto quella che apre
gli ospedali psichiatrici (1978). È proprio in questo contesto di crescente valorizzazione dei diritti e
delle dignità della persona che trova un posto legittimo la riforma dell’Ordinamento Penitenziario e
dell’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
Di fondamentale importanza è stato il ruolo svolto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.204
del 1974. La Corte riconosce quale fine ultimo e risolutivo della pena quella di tendere al recupero
sociale del condannato, il quale “ ha assunto un peso ed un valore più incisivo di quello che non
avesse in origine”; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo
ambito di applicazione presuppone un “obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo
presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle
e le forme atte a garantirle”. Inoltre, riconosce al condannato l’equivalente diritto a vedere
riesaminata la pretesa punitiva al fine di accertare se, in effetti, la quantità di pena espiata abbia o
meno assolto al fine rieducativo. L’individuazione di tale diritto soggettivo è centrale nella
sentenza, perché dal riconoscimento di tale posizione giuridica del soggetto, deriva l’affermazione
12 Il regolamento carcerario fascista si ispirava ad una filosofia di applicazione della pena che vedeva nelle privazioni
e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Il carcere era concepito come
luogo isolato dalla società libera. Inoltre, i rapporti con la società esterna si limitavano a colloqui, corrispondenza e
visite dei prossimi congiunti, tutte modalità tra loro accomunate dall’avere un carattere assai restrittivo e aleatorio,
legato al sistema delle ricompense e delle punizioni. Il regolamento fascista si articolava, dunque, in una serie di
strumenti volti ad ottenere, anche attraverso punizioni e privilegi, nonché attraverso quotidiane pratiche di violenza, un’
adesione coatta alle regole, con una costante violazione delle più elementari regole del rispetto della dignità della
persona. 19
della competenza a decidere del giudice ordinario in materia di liberazione condizionale e la
dichiarata incostituzionalità della competenza del ministro della giustizia, prevista dalla normativa
allora vigente.
Il principio dell’inderogabilità dell’esecuzione integrale della pena viene ad essere sostituito da
quello della sua essenziale modificabilità, che si realizza proprio nel momento in cui alla pena viene
data esecuzione. Subito dopo l’approvazione del nuovo ordinamento penitenziario, è stato emanato,
con il DPR 431/76 il regolamento di esecuzione con il compito di dare attuazione nelle pratica alle
norme dettate dalla legge 354. Con questa normativa il legislatore italiano ha recepito le indicazioni
fornite dall’ONU e dal Consiglio d’Europa enfatizzando la funzione rieducativa della pena nella
fase di esecuzione della stessa: il carcere non è più inteso come luogo di segregazione e separazione
dalla società, ma come momento necessario alla rieducazione e il reinserimento del detenuto. Viene
sancita la regola della individualizzazione del trattamento ( vedi par.1.5.) poiché ogni intervento
deve essere elaborato e programmato in considerazione della personalità del detenuto; in tal modo
emerge una tendenziale identificazione del concetto di rieducazione con quello di recupero del
condannato.
La Legge 354/75 ha rispecchiato il processo di trasformazione della società nel rapporto tra i
cittadini e le autorità dello Stato; la norma ha rappresentato una svolta ideologica circa il modo di
intendere il detenuto e la sua posizione all’interno dell’universo carcerario. Si assiste ad un
miglioramento della posizione del detenuto conseguente alla novità rappresentata dall’aver posto la
figura del detenuto quale persona umana, al centro dell’esecuzione penale. È comunemente dato per
acquisito che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
essere volte alla rieducazione del condannato. Si evidenzia dunque, un processo di trasformazione
della funzione del carcere che da istituzione di custodia e isolamento, si trasforma in istanza che
deve favorire la risocializzazione del detenuto, mediante un trattamento adeguato alle relazioni
continue con la società esterna; la legge inoltre, ribalta la concezione della pena come un mezzo di
coercizione per intimidire e reprimere il soggetto; le privazioni e le sofferenze non sono più pensate
come modalità per favorire l'educazione e il riconoscimento dell'errore da parte del condannato. Ora
la pena deve essere considerata uno strumento di recupero del detenuto ai valori della legalità e
della solidarietà.
2.3. I principi alla base del trattamento penitenziario
Il trattamento penitenziario nella più vasta e comprensiva accezione, comprende quel complesso di
norme e di attività che regolano ed assistono la privazione della libertà per l’esecuzione di una
sanzione penale. Rientrano, nel concetto, le norme dirette a tutelare i diritti dei detenuti, i principi di
gestione degli istituti penitenziari, le regole che attengono alle somministrazioni ed alle prestazioni
dovute ai privati della libertà. La L. 26 Luglio 1975, n.354 ha allineato il trattamento dei detenuti,
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almeno sul piano delle enunciazioni normative, ai sistemi più avanzati di privazione della libertà
personale pienamente adeguandosi, alle regole minime dell’ONU (1955) e del Consiglio d’Europa.
Il trattamento penitenziario ha lo scopo stabilito a livello legislativo (art. 1 Ord.Penit., art.27 comma
3 Cost.,) di promuovere la modificazione positiva della personalità dei condannati orientandola
secondo modelli comportamentali socialmente adeguati, che ne favoriscono il reinserimento sociale.
La legge 354/75 nello specifico presenta quattro principi fondamentali che stanno alla base del
trattamento penitenziario:
1. L'individualizzazione della pena e del trattamento penitenziario: il primo passo per
assicurare il rispetto del fine rieducativo è rappresentato dalla garanzia di
“individualizzazione “ del trattamento sanzionatorio. Tale individualizzazione della pena
permette di analizzare ogni caso e di garantire una certa discrezione nella determinazione
della sanzione. La pena deve essere proporzionata alla responsabilità dell'individuo non solo
tenendo in considerazione la gravità del reato, ma anche la modalità di condotta e la
condizione soggettiva dell'autore. Consente di sostituire in tutto o in parte l'esecuzione della
pena detentiva con una delle misure della libertà previste dall'ordinamento penitenziario,
qualora il comportamento del condannato lo consente. L'articolo 13 della Legge 345/75
“individualizzazione del trattamento” , chiarisce questo concetto affermando che il
trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun
individuo e che nei confronti dei condannati e degli internati &egr