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APPELLANO ARTINO
chimiche.
7 Cfr. J. A. J , op. cit.
OHNSON
8 C -M , op. cit., p. 11.
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lato di gas da combattimento, nonostante il ricorso nella fase finale delle ostilità a sostanze
che non erano veri e propri gas. L’idea di utilizzare in combattimento quanto in questo
campo l’industria poteva mettere a disposizione non era nuova, ma le proposte che a
partire dai primi anni dell’Ottocento erano state via via avanzate non avevano avuto
seguito, sia per oggettive difficoltà pratiche, sia per la forte riluttanza ad impegnare un
mezzo di offesa ritenuto da molti inumano e disonorevole.
Cominciarono cosi a manifestarsi i due fattori destinati a condizionare qualunque
successivo sviluppo nel settore della guerra chimica, vale a dire il problema della sua
legalità, se non della sua moralità, ed il tema della sua efficacia.
Su questo tema, emblematico è l’episodio di Lyon Playfair,
Lyon Playfair (1818-1898) noto chimico britannico ai tempi della guerra di Crimea. Poco
dopo l’inizio della campagna le forze alleate, francesi, britanniche e turche, si trovarono
impegnate nell’assedio della piazzaforte di Sebastopoli, con poche prospettive di riuscire a
risolvere rapidamente la situazione a loro favore. Per contribuire a sbloccare quello stallo
che vedeva la armate assedianti dissanguate più dalle malattie che dalle perdite di
combattimento, Lyon Playfair propose l’uso di proiettili d’artiglieria riempiti di cianuro di
cacodile. L’idea venne respinta dall’Ordnance Departement sulla base della
considerazione che sarebbe stato come avvelenare i pozzi dell’avversario, e che quindi
era del tutto inaccettabile dal punto di vista delle leggi e delle consuetudini di guerra. La
replica di Playfair fu altrettanto significativa nel tratteggiare un ragionamento che in futuro
sarebbe stato di frequente proposto per giustificare il ricorso a questo tipo di soluzioni.
Secondo lo scienziato britannico era del tutto insensato considerare legittimo l’impiego dei
proiettili ordinari, in grado di causare con le loro schegge delle ferite orribili ed una lenta
morte tra le sofferenze, e rigettare invece il ricorso ad un vapore velenoso capace di
uccidere in fretta. Dal momento che la guerra era di per sé morte e distruzione, tanto
valeva concluderla più rapidamente possibile. Il progetto rimase comunque sulla carta, e le
ostilità finirono prima che il piano di Lyon Playfair potesse concretizzarsi.
Dai laboratori al campo di battaglia
Allo scoppio della guerra, e soprattutto dopo la stabilizzazione del fronte nell’autunno del
1914, la Gran Bretagna rilanciò le attività in campo chimico, attività che non erano mai
state abbandonate pur nello sforzo di trovare un tipo di aggressivo che fosse al tempo
stesso efficace e moralmente accettabile, anche in relazione al contenuto delle due
convenzioni dell’Aia . In una serie di esperimenti condotti a South Kensington vennero
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provate diverse sostanze, arrivando alla fine ad individuare quale possibile soluzione un
gas irritante con effetti lacrimogeni, rispondente quindi al requisito di essere debilitante ma
non venefico. Questo gas – lo iodio acetato di etile, meglio conosciuto come SK dalla
località dive i suoi effetti vennero sperimentati nel gennaio 1915 alla presenza di
rappresentanti del War Office –, venne successivamente perfezionato a Chatham, sede
dei Royal Engineers, per essere quindi messi in produzione a Glasgow, presso gli
stabilimenti della Cassel Cyanide Works.
Sempre nello stesso periodo, all’inizio del 1915, un discendente di Cochrane ripropose il
piano del suo antenato all’attenzione del Segretario di Stato alla Guerra, il fieldmaresciallo
Lord Kitchener, il quale, non ritenendo la cosa di pratico interesse, lo indirizzò al Primo
Lord dell’Ammiragliato, all’epoca Winston Churchill. Questi però lo rigettò con la
motivazione che il governo di Sua Maestà si sentiva vincolato dagli accordi internazionali
9 Cfr. C -M , op. cit., pp. 15 ss.
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firmati e non intendeva prendere nessuna iniziativa in tal senso, se non in risposta ad
eventuali azioni della Germania. La Gran Bretagna aveva dunque deciso di non agire per
prima, in stretta aderenza allo spirito dei trattati dell’Aia ed in accordo ad un generale
sentimento di repulsa verso un mezzo di guerra che era percepito come “scorretto” ed
inaccettabile per un soldato.
Se in Francia ed in Gran Bretagna si prendeva in esame il possibile impiego di armi
chimiche, pur con l’intenzione di rimanere entro i limiti delle convenzioni sottoscritte, lo
stesso avveniva in Germania, dove gli studi in tal senso potevano contare su una solida
base tecnica ed industriale. All’inizio del Novecento infatti l’industria chimica tedesca era la
più importante del mondo. Le sei maggiori aziende del settore detenevano 950 brevetti a
fronte degli 86 delle sei principali aziende britanniche, ed il novanta per cento dei coloranti
usati al mondo erano prodotti in Germania. A sostegno di questa capacità industriale di
tutto rispetto, una fondamentale attività di ricerca veniva scolta dagli scienziati e dai tecnici
dell’istituto Kaiser Guglielmo, a Berlino, uno dei quali, Fritz Haber, nel 1912 mise a punto
uno speciale procedimento per la produzione di nitrati. Haber può essere considerato
l’ispiratore e l’artefice dei programmi tedeschi per l’impiego di gas da combattimento,
programmi che peraltro presero corpo solo dopo l’inattesa battuta d’arresto sulla Marna,
nel settembre 1914. Fino a quella data infatti i vertici militari non avevano mai preso in
seria considerazione questo mezzo di guerra, sia perché confidavano nella perfetta
riuscita dei piani da tempo preparati, sia perché erano consapevoli dell’ostacolo politico-
diplomatico rappresentato dalle due convenzioni dell’Aia, entrambe sottoscritte dalla
Germania. Anche dopo il passaggio dalla guerra di manovra alla guerra di posizione la
perplessità del resto rimasero, alimentate dai dubbi sulla reale efficacia del gas e dalla
preoccupazione di non riuscire a garantire la protezione delle proprie truppe in un campo
di battaglia contaminato. Il generale Erich von Falkenhayn, subentrato in quel periodo ad
Helmut von Molte alla testa dello stato
Maggiore Generale, era decisamente Maschera antigas polivalente Z modello grande, con
scettico, ma era anche convinto del fatto custodia e istruzioni. È ben visibile l’avvertenza: “Chi
si leva la maschera muore”. Fonte:
che la guerra sarebbe stata www.centenario1914-1918.it
inevitabilmente persa se non si fosse
riusciti a sfondare sul fronte occidentale.
Data la situazione che si era determinata sul campo, un tale risultato sarebbe stato però
possibile solo con metodi nuovi ed una soluzione del tutto al di fuori degli schemi era
proprio quella che proponevano gli scienziati dell’istituto berlinese. Paradossalmente più
dei militari furono loro a spingere affinché agli studi nel settore delle armi chimiche venisse
attribuita un’elevata priorità e si passasse quanto prima alla sperimentazione sul campo.
In un primo tempo la volontà di non infrangere le regole liberamente accettate, per
quanto vago ed impreciso potesse essere il contenuto, limitò peraltro la ricerca ai gas
lacrimogeni ed irritanti. Su suggerimento di Walther Nerst, un professore di chimica
dell’Università di Berlino, un piccolo quantitativo di granate a shrapnel da 105 mm fu
riempito con una sostanza irritante, dall’effetto starnutatorio. Il dettato della convenzione
dell’Aia era così formalmente rispettato: non si trattava di una gas venefico e, dal
momento che il caricamento a shrapnel del proiettile rimaneva invariato, la Ni-granate –
cosi chiamata dalla parole Niespulver, polvere starnutatoria – non aveva come “solo”
scopo la disseminazione di una sostanza nociva. Circa 3.000 di questi ordigni furono
sparati contro truppe britanniche ed indiane nel settore di Neuve Chapelle il 27 ottobre
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1914 senza alcun apparente effetto. Al momento dello scoppio, mentre i proiettili a
shrapnel venivano proiettati all’intorno, la sostanza irritante avrebbe dovuto diffondersi
nell’aria; ma, a quanto sembra, il suo impiego non venne neppure notato.
Il passo successivo fu l’uso di gas lacrimogeni, con il bromuro di xilile ed il bromuro di
benzile, con i quali vennero caricati proiettili da 150 mm. A proporre questa soluzione fu un
altro scienziato berlinese, Karl von Tappen, dell’Istituto Kaiser Guglielmo, con l’appoggio di
Haber, che in quel periodo ne era diventato il direttore. La T-granate – così chiamata
dall’iniziale del cognome del suo inventore – manteneva il tipo di soluzione già adottata
per la Ni-granate, contenendo non solo il liquido irritante ma anche una consistente carica
di esplosivo. La nuova arma venne sperimentata operativamente sul fronte russo a
Bolimov il 31 gennaio 1915 con risultati deludenti. La bassa temperatura frenò la
vaporizzazione del liquido ed anche in questa circostanza l’avversario non si accorse di
essere stato attaccato con sostanze aggressive. Il tentativo fu ripetuto in marzo, sul fronte
occidentale, contro truppe britanniche nei pressi di Nieuport, ma ancora una volta con
risultati fallimentari.
Durante l’inverno, i vertici militari tedeschi erano arrivati alla conclusione che le armi
chimiche potevano effettivamente rompere l’equilibrio che si era stabilito sul fronte
francese. Rimaneva però ben salda la volontà di non venir meno per primi agli impegni
presi dall’Aia e con questo intento da un lato si cercò conferma alle voci sull’utilizzo di gas
da combattimento da parte della Francia, in modo da avere un valido pretesto per passare
all’azione, dall’altro si mirò alle messa a punto di uno schema di impiego che tecnicamente
non costituisse una violazione delle convenzioni del 1899 e del 1907. In effetti, in più
occasioni era apparsa sulla stampa la notizia dell’uso di granate caricate a gas ad opera
dell’Intesa, ma le indagini condotte al fronte degli stessi scienziati tedeschi avevano
escluso qualunque reale iniziativa dei franco-britannici. L’origini di quegli inquietanti
rapporti fu infatti individuata in un tipo di granata francese caricata con un particolare
esplosivo, la turpinite, che allo scoppio emetteva un fumo dall’odore caratteristico e
insopportabile. Vi erano stati in realtà dei tentativi di impiegare gas lacrimogeni dispersi
con proiettili di artiglieria, ma i risultati non erano stati diversi da quegli delle analoghe
prove sul campo effettuate dagli stessi tedeschi. La convinzione che i proiettili caricati con
veri e propri aggres