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Gli studi e i dibattiti sul sessismo linguistico in Italia hanno avuto una forte
accelerazione con la pubblicazione de Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nel
1987 da Alma Sabatini: un’opera fortemente innovativa che rappresenta il primo concreto
tentativo di cambiamento linguistico sulla scia degli studi avvenuti in àmbito anglo-
americano e in Europa negli anni Settanta del secolo scorso. Si parla di “tentativo
concreto” non perché sia stato il primo studio italiano in assoluto sulla questione, ma
perché fu il primo progetto a essere promosso e finanziato direttamente da un organo del
Governo italiano, la Presidenza del Consiglio dei ministri, fatto che gli ha conferito un
rilievo senza precedenti. Un progetto di iniziativa politica diventa, paradossalmente, di
2
interesse linguistico e uno «stimolo alla ricerca linguistica del nostro paese».
L’anno precedente la studiosa aveva redatto le Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua italiana, un volumetto ricco di suggerimenti lessicali che ha poi
costituito il terzo capitolo de Il Sessismo nella lingua italiana, segnando una svolta in Italia
per la sua consistente (pre)occupazione in merito alle differenze di genere e alla reale
posizione delle donne nella lingua. Questo lavoro comprende l’Ammissione di colpa e
chiamata di correo di Sergio Lepri (in qualità di direttore dell’Agenzia «Ansa») e una
ricerca scientifica condotta con la collaborazione di Marcella Mariani, Edda Billi e Alda
Santangelo. Con la redazione delle Raccomandazioni la saggista ha voluto analizzare la
lingua quotidiana prendendo in esame soprattutto il linguaggio dei mass media, che
rappresenta maggiormente la collettività. Le strutture e le forme ricavate tendono a
emarginare – talvolta addirittura a schernire – la figura femminile, penalizzando la
posizione di prestigio che finalmente oggi è riuscita a occupare. Pertanto, la studiosa mette
in discussione la neutralità della nostra lingua sia tramite l’analisi della struttura
morfosintattica sia attraverso espressioni d’uso comune, che sono intrise di forme sessiste e
frutto di concezioni fortemente patriarcali. L’eliminazione dei termini oggi ritenuti
discriminanti non è semplice: si tratta di proposte che possono essere condivise,
2 Cardinaletti, Giusti 1991: 171.
5
approfondite e agevolate, ma non imposte dall’alto, come precisa la stessa Sabatini nel suo
saggio. Tale pubblicazione, nella sua interezza, sarà oggetto d’analisi in questo capitolo e
farà chiarezza sulla stretta dipendenza esistente tra la permanenza di stereotipi e giudizi
sociali e un uso della lingua marcatamente androcentrico, ovvero incentrato sul genere
maschile e sulla sua predominanza sociale.
Per condurre uno studio basato sulla rivalutazione della lingua si parte dal
presupposto che essa abbia effettivamente un ruolo di potere all’interno della società e che
determini delle conseguenze sugli individui che ne fanno parte. Le dicotomie lingua-potere
e lingua-società sono state ampiamente discusse da linguisti italiani e stranieri, come
3
Fairclough, il quale parlò della lingua come di «una forma di pratica sociale» che fa
dunque parte della società stessa. Chiunque parli, legga o scriva lo fa in un modo che è 4
socialmente influenzato e che avrà indubbiamente degli effetti sull’ambiente circostante. A
questo punto è necessario mettere in discussione il valore oggettivo di quello che
comunichiamo, messaggi che talvolta sono carichi di ideologie e pregiudizi, ma che
locutori e locutrici non percepiscono neppure come tali. Il problema è che certe espressioni
sono talmente radicate nella nostra cultura che diventano difficili da riconoscere e
5
soprattutto da sradicare. Tradizionalmente si è sempre pensato di poter controllare la
lingua e gestirne tono, stile e forme grammaticali a seconda delle esigenze personali. Vari
studi compiuti nel corso del Novecento hanno dimostrato che le cose non stanno
esattamente così. Sintomaticamente, nel 1989 Lepschy ha affermato che «siamo noi ad
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essere parlati dalla nostra lingua anziché essere noi a parlarla». Ciò che comunichiamo
rispecchia la nostra società, che ruota indubbiamente attorno alla figura dell’uomo, inteso
nel suo significato primario di individuo di sesso e genere maschile. Si faccia caso proprio
alla doppia valenza della parola “uomo”: essa può indicare la “specie umana” o
semplicemente il “maschio della specie”; le donne, invece, rappresentano unicamente il
sesso femminile della specie, non una categoria più ampia e inclusiva; quindi le si colloca
7
comunemente in una posizione subalterna, classificabile come “altro” o “diverso”.
Secondo i Principia Matematica formulati da Russell e Whitehead, «qualunque
cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della
3 Cfr. Fairclough 2001: 22-23.
4 Cfr. Ibidem.
5 Cfr. Sabatini 1987: 19.
6 Lepschy 1989: 61.
7 Cfr. Sabatini 1987: 20.
6 8
collezione stessa» . Secondo il concetto appena descritto, la categoria di “uomo”
rappresenta sia tutti gli elementi della collezione (in questo caso il “genere umano”) sia un
termine della collezione stessa; anche il sostantivo maschile “gli italiani” potrebbe
includere, allo stesso modo, sia uomini e donne italiani sia soltanto gli uomini, espressioni
9
che vanno dunque contro il principio matematico dei due studiosi. 10
Finora «il problema della sessuazione del discorso non si era mai posto» , perché i
locutori davano per scontato quando il riferimento era al sesso maschile e quando a
entrambi i sessi; Sabatini sostiene, però, che il maschile “neutro” è un falso maschile
11
generico, perché spaccia per universale ciò che è riconducibile solo all’uomo. Una frase
come *Greta è un uomo molto bello ci aiuta a mettere in discussione il carattere universale
e il valore non marcato della parola uomo, che denota un solo sesso secondo la
12
grammatica.
Sabatini evidenzia delle espressioni di rilievo storico che creano effettivamente
delle ambiguità semantiche se si usa il maschile con valore generico e non si hanno
sufficienti conoscenze su quel periodo: leggere, per esempio, che “gli Ateniesi” avevano
diritto al voto ci induce automaticamente a pensare a entrambi i sessi, ma di fatto non era
consentito di votare alle donne; si pensi ancora all’espressione “suffragio universale”, che
potrebbe comprensibilmente rimandare all’idea di diritto di voto esteso a uomini e donne,
ma che Giolitti restrinse alla categoria degli uomini con la denominazione “suffragio
13
universale maschile”, perché questi ultimi venivano associati all’idea di “universo”.
La necessità per le donne di rivendicare la propria posizione non è derivata dalle
differenze anatomo-fisiologiche tra i due generi, come possiamo immaginare, ma dalla
crescente consapevolezza dell’esistenza di una disparità di trattamento linguistica e sociale.
Il concetto di parità di diritti tra uomo e donna, dichiarato dalla Costituzione della
Repubblica Italiana, non trova giusta espressione, o meglio, non rappresenta
adeguatamente la figura femminile nel settore linguistico.
Anche in lingue prive di genere grammaticale, come l’inglese, il problema persiste:
pur non avendo i presupposti per attuare una disparità di genere, la lingua inglese trasmette
dei messaggi androcentrici con l’utilizzo di quello che Whorf definisce un genere
8 Cit. in Sabatini 1987: 21.
9 Cfr. Ibidem.
10 Irigaray 1985 cit. in Sabatini 1987: 21.
11 Cfr. Sabatini 1987: 21.
12 Cfr. Cardinaletti, Giusti 1991: 185.
13 Cfr. ivi: 22.
7 14
«coperto». Questo accade perché la questione del genere va relazionata a un quadro più
ampio che comprende fattori culturali e sociali. Nel 1986 Patrizia Violi dichiarava che il
genere «non è soltanto una categoria grammaticale che regola fatti puramente meccanici di
concordanza, ma è al contrario una categoria semantica che manifesta entro la lingua un
15
profondo simbolismo». I fattori linguistici (come le espressioni stereotipate) e non
linguistici (come le campagne pubblicitarie) si riflettono nella struttura linguistica e a loro
volta vengono rinforzati da essa, rendendone il cambiamento lento e difficile. Sabatini
evidenzia come nella lingua sia diffusa un’immagine non proprio positiva della donna,
basata sull’antica e rigida ripartizione dei ruoli tra i due sessi: alle donne veniva affidata la
cura della casa, mentre all’uomo il sostentamento della stessa con l’accesso alla vita
pubblica.
Nel merito, la studiosa elenca tutte le situazioni linguistiche che contribuiscono a
eclissare la figura della donna o ad attribuirle un’inferiorità rispetto all’uomo:
- espressioni maschili con doppia valenza semantica, quali “fratellanza, fraternità, paternità”
alle quali non corrispondono espressioni come “sorellanza” che hanno lo stesso valore
inclusivo;
- la concordanza al maschile di aggettivi, participi ecc. anche quando seguiti da una lista di
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nomi femminile e maschili (ad esempio: Marco, Sara e Chiara sono andati a correre );
- l’identificazione delle “donne” come categoria a parte in un discorso (esempio: vecchi,
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pensionati, disoccupati e donne );
- la precedenza del maschile nella coppia oppositiva uomo/donna (esempio: i ragazzi e le
18
ragazze, bambini e bambine );
- la mancanza di una forma femminile simmetrica a quella maschile, soprattutto per cariche,
professioni, mestieri e titoli: questo è strettamente collegato agli eventi sociali perché,
come abbiamo specificato prima, le donne non erano solite ricoprire determinate cariche e
di conseguenza non si è mai posta la necessità di formare alcuni nomi di professioni al
19
femminile.
L’aspetto considerato di maggior rilievo e anche più largamente discusso dalla
stessa Sabatini e dai dibattiti che si sono accesi a riguardo è l’uso di titoli e cariche
maschili in riferimento alle donne: queste ultime stanno accedendo in maniera sempre
crescente in tutti i campi del lavoro e a livelli prestigiosi, sentendo la necessità di essere
14 Cit. ivi: 23.
15 Violi 1986: 41.
16 Mio esempio.
17 Cfr. Sabatini 1987: 24.
18 Cfr. Ibidem.
19 Cfr. ivi: 25.
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definite in base al proprio genere, che la nostra grammatica suggerisce sempre. Laddove
c’è «diversità è più che legittimo, se non necessario, un c