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Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
60 Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
65 D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
Il primo periodo comincia con quale, quindi viene subito introdotta una similitudine. Il lettore
comincia quest’attesa, ma troviamo il secondo termine solo al v 20, tal > la giovinezza lascia
la vita in modo simile a come fa la luna quando va via dal cielo durante la notte. Questo
comparante però è talmente lungo e complesso che ci fa perdere di vista la fine.
Primo elemento > quale + molti complementi di luogo (fino al v 8 > non si sa come
interpretare sintatticamente le e (coordinati a onde? coordinati a ingannevoli obbietti?) +
participio coordinato al soggetto di questa prima frase (che non è ancora comparso, ma
almeno sappiamo che sta per arrivare) + ancora specificazioni di luogo + prima frase
reggente + 5 frasi coordinate alla reggente, sia sindeticamente (con congiunzione) sia in
asindeto (senza congiunzione), tutte brevi e semplici tranne l’ultima. Quindi, questo periodo è
fatto come una cuspide: una prima parte che ascende fino alla reggente, e poi prosegue con
un andamento discendente. Canti
Qui c’è una ricorrenza unica nei di Leopardi, c’è un enjambement interstrofico, cioè il
periodo non finisce nella prima strofa ma continua nella seconda, di solito ogni strofa è
indipendente da un punto di vista sintattico.
Secondo elemento > la prima frase qua è brevissima, dura neanche tre versi e poi c’è una
pausa sintattica a metà del v 22, totalmente opposto al primo elemento. L’effetto che ciò crea
è di un contraccolpo, prima un tempo lento e poi si conclude restringendosi improvvisamente,
appare quasi arbitrario. Il seguito poi ci fa rendere conto che tutta la strofa è costruita con
questo tipo di sintassi, le frasi sono più brevi e semplici, collegate tramite la congiunzione e
che allunga un po’ il periodo. Inoltre a differenza della prima, le pause sintattiche forti
occorrono dentro il verso e non alla fine. Siamo passati da un notturno lunare ad
un’annunciazione dura e ferma di una serie di verità negative, questa strofa chiarisce di cosa
si sta parlando, quando la giovinezza dilegua le speranze vengono meno, la vita resta
abbandonata oscura. Troviamo poi la figura di un viatore metaforico che dobbiamo
interpretare come una persona che sta percorrendo il percorso della vita e sporge lo sguardo
nell’oscurità (il buio della vita adulta) e cerca di capire se esiste una meta o una ragione della
vita che gli resta da fare (metafora).
Viene riproposta qua la tecnica di Leopardi per cui una similitudine, un rapporto tra due enti
Il sabato nel villaggio)
(come quello tra la donzelletta e la vecchierella de è sempre rafforzato
da una serie di ripetizioni lessicali (perfette, cioè la stessa parola, o imperfette) e semantiche
(e a volte anche foniche, per esempio vv 19-29), che hanno l’obiettivo di stringerli
maggiormente. I due elementi sono qua costruiti con quasi le stesse parole, anche se nel
leggerlo non ce ne accorgiamo. 15/12
Nella terza strofa Leopardi cambia tono, diventa sarcastico e ironico, nasconde un giudizio
negativo e di sconsolato pessimismo all’indirizzo degli dei, le massime potenze e i
responsabili della sofferenza dell’uomo sulla terra (gli uomini non solo sono mortali, ma
diventano anche vecchi e quindi aumentano le loro sofferenze). Questo tema viene poi ripreso
nell’ultimo verso della poesia, gli dei hanno posto la morte come fine della vita umana. La
giovinezza non è qualificata come positiva e basta (vv 34-37), le poche occasioni di felicità
che l’uomo riesce a raggiungere sono il frutto di mille pene. C’è poi una definizione della
vecchiaia (vv 47-50, che hanno la forma retorica di un’enumerazione) > il desiderio è
incolume, la vecchiaia non significa un abbassamento del desiderio, le passioni continuano a
premere sul soggetto, ogni speranza è estinta, le fonti del piacere sono secche, le sofferenze
sono sempre maggiori e mancano occasioni di bene (definizione che capovolge l’idea della
saggezza senile).
Nella quarta strofa, Leopardi riaggancia la similitudine iniziale. È una strofa bipartita (ma), c’è
un’opposizione tra il tramontare della luna e il dileguarsi della giovinezza (prima c’era una
similitudine ora una contrapposizione). Ogni volta che c’è un rapporto di analogia ci sono sia
degli elementi in comune (nelle prime due strofe) che altri non in comune (in questa ultima
strofa), altrimenti le due cose sarebbero identiche. La differenza in questo caso è che ogni
notte di fronte a sé ha un nuovo giorno, il tempo della natura è ciclico, invece il tempo della
vita umana ha una linearità irreversibile, va da un punto di nascita ad uno di morte, è opposto
al tempo naturale. Leopardi si rivolge alle collinette ed ai campi e dice che loro, quando la
luna tramonta, non saranno privi di luce ancora per molto perché arriverà l’alba, a cui seguirà
il sole e così via, invece nella vita mortale il sole non risorge, una volta che il tempo passa è
passato per sempre. La poesia si conclude con una rima molto lugubre, anche nei suoni
(oscura / sepoltura). Anche nell’ultima stanza troviamo una serie di ripetizioni lessicali che la
legano alle prime due, sempre con lo stesso obiettivo di stabilire un collegamento molto
preciso con i due poli dell’argomentazione.
Questo tipo di costruzione non è la prima volta che viene usata da Leopardi, la possiamo
Il passero solitario,
trovare anche ne che presenta lo stesso movimento (evocazione della
notte/luna, similitudine con la vita, fase di commento del poeta e poi i due elementi vengono
di nuovo dissociati, è lo stesso movimento). La differenza è nella sintassi, i due poli sono ben
divisi a differenza di questa poesia.
Giovanni Pascoli
Pascoli ragiona formalmente sulla poesia in maniera molto diversa da Leopardi, i suoi testi
danno un’impressione di forte geometria dove lui però semina alcuni elementi di rottura di
quest’ordine.
La servetta di monte Myricae,
non è un testo di la prima raccolta di Pascoli, ma proviene dai
Canti di Castelvecchio, dedicati alla rappresentazione del mondo contadino toscano, che
comporta una sfumatura più oggettiva, vengono presentate una serie di persone alternative
alla figura del poeta, come appunto la servetta.
La servetta di monte Canti di Castelvecchio
Giovanni Pascoli, [ , 1903]
Sono usciti tutti. La serva
è in cucina, sola e selvaggia.
In un canto siede ed osserva
tanti rami appesi alla staggia.
5 Fa un giro con gli occhi e bel bello
ritorna a guardarsi il pannello.
Non c’è nulla ch’essa conosca.
Tutto pende tacito e tetro.
E non ode che qualche mosca
10 che d’un tratto ronza ad un vetro;
non ode che il croccolìo roco
che rende la pentola al fuoco.
Il musino aguzzo del topo
è apparito ad uno spiraglio.
15 È sparito, per venir dopo:
fa già l’acqua qualche sonaglio…
Lontano lontano lontano
si sente sonare un campano.
È un muletto per il sentiero
20 che s’arrampica su su su;
che tra i faggi piccolo e nero
si vede e non si vede piú.
Ma il suo campanaccio si sente
sonare continuamente.
25 È forse anco un’ora di giorno.
C’è nell’aria un fiocco di luna.
Come è dolce questo ritorno
nella sera che non imbruna!
per una di queste serate!
30 tra tanto odorino d’estate!
La ragazza guarda, e non sente
piú il campano che a quando a quando.
Glielo vela forse il torrente
che a’ suoi piedi cade scrosciando;
35 se forse non glielo nasconde
la brezza che scuote le fronde;
od il canto dell’usignolo
che, tacendo passero e cincia,
solo solo con l’assiuolo
40 la sua lunga veglia comincia,
ch’ha fine su l’alba, alla squilla,
nel cielo, della tottavilla.
I versi di questa poesia sono novenari, 6 per strofa, per un totale di 7 strofe. Sono disposti
secondo uno schema di rime regolare, ABABCC. I novenari non sono mai stati utilizzati tanto
nella storia della lirica, nonostante appartengano ai versi imparisillabi, perché venivano
avvertiti come versi dall’andamento monotono, anche Dante li pensa come una sequenza di
tre trisillabi, quindi non suscettibile di avere quella varietà ritmica che veniva invece ricercata.
Pascoli li utilizza come versi ad accenti fissi, in particolare il novenario che chiamiamo
pascoliano ha quasi sempre gli accenti in seconda, quinta e ottava posizione ed è
effettivamente quello di cui parlava Dante: sono tre moduli sillabici che possiamo pensare
come trisillabi, possiamo chiamarli anche piedi (anfibraco > ci sono tre sillabe metriche, la
prima atona, la seconda tonica, la terza di nuovo atona).
La poesia pascoliana è fondata su un trattamento della metrica fisso, prevedibile e
geometrico, non è fluida come per Leopardi e Petrarca, ma ha una forma di gabbia, che però
poi Pascoli manomette sapientemente in alcuni punti (per esempio fa saltare un accento
prevedibile in un determinato punto).
In questo componimento c’è una situazione di compromesso, sono tutti novenari, il quinto e il
sesto di ogni strofa sono tutti di seconda, quinta e ottava. Invece i primi quattro hanno
un’accentazione più libera, l’ottava è sempre accentata mentre gli altri due possono essere in
terza, quinta o sesta.
La poesia parla di una giovane serva che si trova nella casa dove lavora, possiamo
immaginare sia appena arrivata perché l’ambiente non le è familiare.
La poesia è nettamente divisa in due parti, il punto di transizione si colloca tra i versi 16 e 17,
è interno alla strofa. Nella prima parte ci viene rappresentata un’ambientazione interna,
domestica, la cucina della casa padronale dove si trova a lavorare, dove la serva si trova da
sola, e selvaggia (nel senso di spaesata), sta osservando la stanza e tutta la prima scena è
dettata dal movimento dei suoi occhi: guarda le pentole di rame, torna a guardarsi il
grembiule. Sia il verso 2 che il 7 sono chiusi da una dittologia di aggettivi, in tutti e due i casi
allitterante. Al v 9 passiamo dalle percezioni visive a quelle uditive, sente una mosca che
sbatte sul vetro e il rumore che f