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BOTTIGLIA
Notiamo che questi sono tutti nomi e sostantivi quindi concreti. Non è casuale che la prima idea di parola
provenga da un lessico di sostantivi concreti.
Nessuno avrebbe pensato a DI, CHE, SI per una ragione che riguarda il fatto che se ci allontaniamo da una
distinzione grammaticale avvicinandoci ad una di tipo aristotelico che distingue le parole piene dalle parole
vuote le parole piene vengono identificate come parole-significato il cui primo requisito è fornire un oggetto
mentale, diversamente dalle parole-funzione, la cui funzione è quella di svolgere un qualcosa in un testo. Lo
statuto autonomo dal punto di vista lessicale delle parole vuote è più incerto e spiega il perché la grafia
univerbata delle due parole: una è parola-significato, mentre l’altra è parola-funzione. È chiaro che lo statuto
che è minore a livello di autonomia semantica si unisce a quello la cui autonomia semantica è indubbia.
Nei manuali di linguistica contemporanea una delle definizioni più inattaccabili è quella che riesce a
giustificare la realtà delle parole, omogeneamente per CHE e MELA: la prospettiva delle parti del discorso non
ci aiuta a omogenizzare lo statuto di parola, ma il concetto di parola definita foneticamente e sintatticamente
definisce una parola come una sequenza inalterabile di elementi che se alterata, altera il suo stesso statuto di
significazione, mutandolo.
Bembo, di fronte ad aspetti di tipo grammaticale non “vede le cose” in questo modo: in quanto teorico della
lingua letteraria in relazione al suo uso estetico ai fini artistici, con una sensibilità sufficiente per fornire al
lettore la suddivisione del testo rendendo autonoma la pagina (a stampa) dalla tradizione manoscritte,
attribuendogli specificità e migliorie e rispecchiando, attraverso i segni diacritici, le abitudini grafiche ereditate
dall’autografo cui fa capo (l’uso dell’H latina).
La sistematicità dell’uso dell’apostrofo introduce al concetto di portata culturale della standardizzazione del
testo a stampa: la sistematicità è propriamente necessità connaturata alla stampa,
la parola SASSO, che nella rappresentazione di sn è molto simile ad una f (sibilante S e F fricativa) doppia s
scritta con X 16/11/17
Gli incunaboli del canzoniere e le edizioni aldine, se confrontate, permettono di evincere che la distanza
temporale tra la princeps e l’aldina è di circa 30 anni. Il salto dal 1530 al 1570 non è così significativo quanto il
salto dal 1470 al 1500.
A livello grafico, la distanza a cui si collocano le edizioni aldine e la mancanza di riferimenti alla cultura
manoscritta degli autografi permette di individuare, se confrontate con le princeps, altri meccanismi di
elaborazione intellettuale.
La coerenza degli interventi di Bembo si mostra di fronte ad un sistema linguistico che si collauda nella resa
editoriale e che verrà poi teorizzato in maniera autonoma e compiuta.
RENOVO, RENOVARE > RENOVA – RINUOVA >it. standard RINNOVA
Se prendiamo in considerazione il confronto fra i testi della Commedia al v. 6 ci troviamo di fronte due
diverse forme: quella dell’incunabolo che presenta la forma RENOVA e quella di Bembo-Manuzio che presenta
RINUOVA.
La forma rinuova si avvicina alla forma moderna per la presenza della I che rivela il fenomeno linguistico di
chiusura della E protonica in I, tipico del fiorentino. L’elemento che grammaticalmente è un prefisso (-RE)
rivela che la forma dell’editio princeps è molto più vicina alla forma latineggiante prodotta da RENOVO-
RENOVARE.
La forma RINUOVA ottiene poi il dittongamento spontaneo di U o E in sillaba aperta.
Tuttavia dobbiamo considerare che la forma dell’italiano standard è RINNOVA, che non conserva la veste
toscana.
Il processo che permette di produrre l’edizione Aldina è di accesso ad un autografo/idiografo
petrarchesco che viene considerato come modello standard ed indubbio in quanto modello letterario,
ma che viene riadattato in relazione all’esperienza della promozione del toscano e del fiorentino
trecentesco. EL COR – IL COR
Al v. 15 incontriamo le forme dell’articolo el-il. L’articolo nella forma EL è tipica del fiorentino post-
trecentesco, diversamente da IL che è l’unica forma accettata da Bembo in relazione al fatto che Bembo
individua una terza via in relazione alla presenza di due diverse concezioni linguistiche di volgare.
La concezione del Volgare
Bembo innanzitutto autonomizza il volgare dal latino, e sottrae il suo modello linguistico dalla rivendicazione
molto ingombrante di quelli che fiorentini erano e ritenevano di possedere naturalmente la lingua in cui si
erano espressi Dante e Petrarca, rivendicando una linea di continuità, assegnando a Firenze il ruolo di centro
culturale.
Nonostante la sua origine veneziana Bembo si fa promotore, nelle Prose della Volgar Lingua del 1525, la sua
opera di più ampio spessore, frutto di un’enunciazione di una teoria grammaticale, discostante dalla
prontuaria Grammatica del 1516 di Fortunio, e che si presenta invece come un dialogo diviso in 3 libri.
Il 3° libro passa in rassegna, quasi come un prontuario, i tratti stilistici che Bembo promuove in relazione alle
figure di riferimento quali Boccaccio per la prosa e Petrarca per la poesia.
Bembo interviene nella questione linguistica del volgare impostando la questione in relazione all’idea che
debbano esserci dei modelli linguistici distinti per poesia e prosa, e da adottare come tali.
Questa distinzione valeva già nel mondo latino, attento ad impostare i modelli letterari sul principio della
imitatio: i modelli che vengono promossi e che verranno poi ripresi nella tradizione umanistica sono Virgilio
per la Poesia e Cicerone per la prosa.
Ciò dimostra che lo schema che Bembo adotta nelle Prose della Volgar Lingua è uno schema umanista, non
subordinato alla lingua latina ma che per promuovere il volgare si rifà alla tradizione di promozione dei
modelli latini prettamente umanistica. La proposta di Bembo è quindi molto solida e molto densa, retta su un
edificio concettuale con fondamenta consolidate, attraverso il quale viene esibita la patente umanista,
promuovendo tuttavia la forma linguistica volgare che convive quindi con queste premesse.
Il fatto che Bembo scelga Boccaccio e Petrarca è indicativo del fatto che sia Petrarca che Boccaccio si erano
imposti come modelli di imitatio sia della poesia che della prosa, con I Trionfi e con Il Novellino, ma anche con
il Decameron, dal punto di vista linguistico, stilistico e strutturale.
È tuttavia da considerare che la questione che a Bembo sta più a cuore è quella linguistico-stilistica:
promuovere Boccaccio significava promuovere l’esperienza novellistica il cui spettro di espressione è più
ampio rispetto a quello del Petrarca, modello della poesia, il cui lessico di riferimento è effettivamente e
necessariamente più ridotto della prosa; ma la promozione delle personalità di Boccaccio e di Petrarca era
anche segno della volontà di Bembo di proporre un modello di scrittura linguistica che non poteva
discostare da un fiorentino di quel tipo.
Bembo fornisce quindi di fronte a questa ricchezza polimorfica dell’italiano una risposta chiara e definita, che
indirizza la scrittura poetica all’imitazione del modello linguistico di Petrarca e che indirizza la produzione
prosastica all’imitazione del modello linguistico di Boccaccio. Una risposta quindi molto netta ma
contemporaneamente non semplicistica, basata su un’ampia impostazione del problema, fondata
sull’adattamento di uno schema concettuale umanistico (latino) al volgare.
La concezione linguistica prima di Bembo
Prima dell’azione di Bembo 2 erano le posizioni prese:
1. Quella dei fiorentini che si ritenevano continuatori cinquecenteschi della lingua di Dante e Petrarca
nonché di Boccaccio, che tuttavia non è legittimata dal fatto che:
➢ la lingua cambia in relazione all’uso, e l’uso del ‘300 non è il medesimo del’500
➢ i fiorentini erano i meno adatti a cogliere la distanza tra la loro lingua cinquecentesca e quella
trecentesca, proiettandone le caratteristiche strutturali per il fenomeno dell’inferenza. Bembo segna
un confine netto fra la lingua del ‘500 e quella del ‘300., negata sistematicamente dai sostenitori della
continuità naturale della lingua.
La prima cesura di Bembo, legata alla cesura fra il fiorentino del ‘500 e quello del ‘300, attira un’attenzione
di tipo municipale che si esemplifica in figure come Macchiavelli.
Ma la seconda cesura intacca un punto nevralgico fondamentale, la cesura fra latino e volgare, che interessa i
teorizzatori della seconda linea di concezione linguistica.
2. Le altre forze in campo sostenevano un’idea di lingua, promossa da intellettuali settentrionali,
distribuita fra Mantova, Vicenza e Belluno, che auspicavano ad un’idea di volgare letterario molto più
aperto rispetto al ristretto di Bembo, basato sulla produzione letteraria post petrarchesca e
boccacciana, parlando cioè di lingua italiana. Quello che questi autori hanno in mente è un’idea di
volgare aperto che prevede costitutivamente una triangolazione feconda tra :
▪ il volgare locale, come elemento variabile
▪ il latino, come elemento unificante
▪ il toscano, che funge da elemento unificante in quanto al prestigio che aveva ottenuto.
Una lingua cioè italiana che non escludesse totalmente le varianti locali ma che nel toscano e nel latino
trovasse alcuni elementi invariabili. Una lingua italiana che avesse elementi comuni da Mantova a Napoli con
un fecondo apporto nelle varietà locali.
Parliamo quindi di una lingua italiana comune, una lingua cortegiana, promossa da autori come Baldassar
Castiglione, mantovano autore de Il libro del Cortegiano, 1528, Gian Giorgio Trissino, autore de Il castellano
1529 che rimette in circolazione nello stesso anno 1529 il DVE, traducendolo in volgare, vicentino di origine.
Il considerare una lingua italiana di tipo cortegiano, ci porta a cogliere un legame che i letterari carano dentro
le realtà politico-istituzionali cinquecentesche che non esiste nella a-storicità di Bembo.
Bembo elimina quindi i punti di appoggio delle due diverse posizioni e nel farlo riesce a recepire quelle che
implicitamente o esplicitamente erano stati già rilevati come punti deboli dell’una e dell’altra proposta:
1. se rimaniamo sul concetto di lingua cortegiana cogliamo che questa lingua cortegiana, parte di una
realtà politico istituzionale, richiama una delle caratteristiche espresse da Dante nel DVE, cioè la
curialità. La realtà politico-istituzionale del ‘500 diviene la proiezione di quella realtà di cui Dan