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Ci sono una lista di definizioni di tipi di pensioni:
- Pensione di vecchiaia: il diritto ad accedere all’assegno previdenziale al
raggiungimento di una certa età e con un minimo contributivo
- Pensione di anzianità (formalmente non esiste più): possibilità di raggiungere i
requisiti pensionistici a un’età inferiore a quella prevista dalla pensione di
vecchiaia a fronte però di un cospicuo versamento contributivo
- Pensione anticipata: senza limiti di età ma con un determinato numero di anni di
contribuzione
- Pensione di invalidità
- Pensione privilegiata: pensioni rare a persone che si sono distinte in alcune
attività
- Pensione di reversibilità o per i superstiti: spetta al coniuge quando l’altro
coniuge viene a mancare che corrisponde all’incirca al 60%
- Pensione sociale: prestazione assistenziale che prescinde e dal versamento dei
contributi e spetta alle persone anziane che si trovano in condizioni economiche
disagiate
Fino agli anni Novanta, il sistema pensionistico è sempre stato molto generoso perché
era stato disegnato in un periodo in cui si percepiva ricchezza nell’ambiente. Era un
sistema a ripartizione, quindi veniva ripartita in base a quanto si guadagnava negli
ultimi anni di lavoro e non in base a quanto si versava. Era un sistema molto
ottimistico, dovuto a questa progressiva elargizione di welfare di quegli anni.
Indubbiamente risultò una politica molto pesante per le casse dello Stato
Agli inizi degli anni Novanta si inizia a riformare il sistema pensionistico. Il primo
intervento arrivò nel ‘92 con la Riforma Amato e il secondo nel ‘95 con la Riforma Dini.
Questa fase è segnata da misure di austerità in base a una logica sottrattiva: i costi
delle misure sono ben visibili mentre i benefici sono di lungo termine e non facilmente
identificabili da parte dell’elettorato. Si definisce un nuovo disegno di policy, coerente
con un nuovo sistema previdenziale ispirato ai principi dell’equità attuariale (metodo
contributivo), della multi-pillarizzazione (sviluppo della previdenza integrativa) e dal
progressivo innalzamento dell’età di pensionamento. I discorsi sulla riforma delle
pensioni riguardano le persone che non sono ancora andate in pensione, quindi,
cadono tutti i discorsi di esternalità psicologica portata dalla riforma alle persone già in
pensione.
Riforma Amato (1992-1993)
Cambia il retributivo, non passa al contributivo. Il periodo di riferimento per il computo
della retribuzione pensionabile passò dagli ultimi cinque anni, per i lavoratori privati, e
dall’ultimo mese, per i dipendenti pubblici, agli ultimi dieci anni per tutti i lavoratori
con almeno 15 anni di contributi, e all’intera carriera per i nuovi assunti. L’età di
pensionamento passa da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini.
L’istituto delle pensioni di anzianità venne ridefinito secondo regole più stringenti, con
un periodo minimo di contribuzione richiesto di 35 anni per il settore pubblico e
privato. I meccanismi di indicizzazione vennero anch’essi rivisti con un adeguamento
ai prezzi e non più ai salari. Infine, il periodo minimo di contribuzione venne esteso (da
15 a 20 anni).
Si aprì inoltre un maggiore spazio per la cosiddetta previdenza integrativa. Con un
secondo decreto legislativo, il Governo Amato dispose un quadro di regole per il
possibile lancio di fondi pensione di tipo professionale. Parte importante della nuova
normativa, fu sancita la possibilità per il lavoratore di utilizzare le risorse disponibili
presso il TFR per la propria previdenza integrativa.
È una riforma considerabile di replacement perché riformula in maniera sostanziale il
precedente sistema retributivo “puro”, cambiandone i parametri.
Riforma Dini (1995)
Questa riforma è l’attuazione di una riforma già pensata dal precedente Berlusconi, la
quale venne bocciata dai movimenti sindacali, contribuendo alla caduta del primo
governo della II Repubblica. Sancisce il passaggio dal sistema retributivo ad uno
pienamente contributivo, ed è la politica di replacement per eccellenza di questo
sistema. Il governo Dini ricevette anche l’appoggio del sindacato, che contribuì a
legittimarla. Può essere considerata lo spartiacque del sistema pensionistico italiano.
Si prefissava diversi obiettivi:
- Il miglioramento della sostenibilità finanziaria del sistema
- La riduzione delle ineguaglianze tra i differenti schemi previdenziali
- La garanzia di prestazioni adeguate, attraverso la promozione della previdenza
integrativa
- Allungare la vita attiva, incentivando l’innalzamento dell’età di pensionamento e
garantendo la flessibilità delle prestazioni, al fine di offrire maggiore libertà di
scelta al singolo individuo e di coprire anche i settori meno privilegiati del
mondo del lavoro
Il metodo retributivo fu abbandonato a favore di quello contributivo. Le nuove
prestazioni erano direttamente legate ai contributi piuttosto che alle sole retribuzioni.
Fu introdotta una soglia flessibile per il ritiro dal mondo del lavoro (da un minimo di 57
ad un massimo di 65 anni), calibrando in chiave crescente il calcolo dei benefici. Le
pensioni di anzianità non furono completamente eliminate, ma vennero definite nuove
norme (più restrittive) per il loro calcolo (da applicare con un periodo di transizione
particolarmente ampio). La pensione sociale venne trasformata in assegno sociale da
attribuire agli ultrasessantacinquenni in stato di bisogno (purché residenti). Un vero e
proprio beneficio selettivo (o means-tested).
Al fine di aumentare l’equità del sistema, i lavoratori del settore pubblico e di quello
privato furono obbligati a contribuire in egual misura al sistema, mentre i contributi a
carico dei lavoratori autonomi furono innalzati.
Non si applica per tutti coloro i quali, all’attuazione della riforma, avessero già 18 anni
di contributi. Questi continuavano a basarsi su un sistema retributivo, mentre per gli
altri avrebbero percepito gli anni contributivi prima della riforma contribuiti con un
sistema retributivo mentre i restanti con un sistema contributivo.
Questa riforma fu il risultato di una negoziazione tra governo e parti sociali. La
coalizione pro-riforma era costituita da governi tecnici con coalizioni parlamentari
variegate e l’appoggio del sindacato. Il contenimento della spesa pensionistica veniva
perseguita attraverso la contemporanea riduzione delle prestazioni e l’innalzamento
dell’età di pensionamento.
L’introduzione del metodo contributivo era coerente con l’introduzione del principio di
equità attuariale che avrebbe dovuto ridurre le disuguaglianze tra categorie e soggetti
nel medio-lungo periodo. Ex post possiamo indicare come limite fondamentale della
riforma l’eccessiva lunghezza della transizione in vista della piena implementazione
del metodo contributivo che era attesa nel 2035. Questo implicava una limitata
istituzionalizzazione delle nuove regole e la possibilità lungo gli anni della transizione
di interventi inconsistenti rispetto alla logica della riforma.
La pensione è un’assicurazione sulla vecchiaia e non un reddito di vecchiaia
Riforma Berlusconi-Maroni (2004)
Introdusse alcuni tagli di spesa. In una prima fase transitoria, la riforma ha previsto
incentivi fiscali e contributivi per favorire il rinvio del pensionamento. Ci si rende conto
che l’implementazione della riforma Dini è troppo lenta, quindi, Maroni prevede tagli
relativi alle pensioni di vecchiaia e di anzianità furono previsti a partire dal 1° gennaio
2008. La soglia dell’età pensionabile flessibile stabilita dalla riforma Dini fu sostituita
da un limite fisso di 65 per gli uomini e 60 per le donne, questo rappresentò la
principale novità. Questa riforma aumenta le risorse finanziarie degli schemi pubblici
contributo di solidarietà
attraverso il cosiddetto del 4% dedotto da pensioni molto
elevate.
Fu appoggiata dalla coalizione parlamentare di CDX e da Confindustria ma fu
osteggiata dalla CGIL. Tale coalizione aveva confermato gli obiettivi sanciti dalla
Riforma Dini ma aveva introdotto modifiche agli strumenti che hanno prodotto un
aumento della potenziale inconsistenza del policy mix:
- L’abbandono della flessibilità nell’età di pensionamento e il ritorno a differenze
di genere che implicava il parziale abbandono della logica di equità
- L’innalzamento dell’età legale di pensionamento comportava il potenziale
disallineamento tra l’obiettivo di contenimento dei costi e quello dello sviluppo
della previdenza integrativa
- L’allungamento ‘forzato’ della carriera lavorativa implicava l’innalzamento delle
pensioni pubbliche – per i lavoratori con carriere lunghe e alti redditi – con un
implicito disincentivo alla partecipazione a fondi integrativi.
Riforma Prodi II (2007)
Il governo Prodi introdusse una riforma che tendeva a modificare alcuni degli aspetti
più criticati della precedente Riforma del 2004. Fu reso meno stringente
l’innalzamento dell’età di pensionamento. Si prevedevano condizioni più favorevoli di
accumulo dei contributi per i lavoratori atipici (attraverso l’estensione dei contributi
figurativi in caso di interruzione della vita attiva) e la ridefinizione della lista dei lavori
detti ‘usuranti’. Le cosiddette finestre di uscita dal mercato del lavoro vennero rese più
frequenti e meno stringenti. Venne anticipata di un anno il meccanismo di silenzio
assenso (Tfr automaticamente come soluzione integrativa) per favorire la previdenza
integrativa. Furono introdotte misure automatiche di revisione dei coefficienti di
trasformazione del montante contributi in prestazioni pensionistiche, collegandole
all’andamento di trend strutturali quali l’innalzamento della speranza di vita.
Riforma Monti-Fornero (2011)
Se la riforma Dini fosse stata di immediata implementazione, probabilmente non
avremmo avuto tutte queste politiche successive. L’età pensionabile fu innalzata a 66
anni e 7 mesi con un meccanismo di arrivare a 67 dal 2019. Dal 2012 il metodo
contributivo si applica a tutti. Ebbe un impatto psicologico molto forte. Le pensioni
d’anzianità furono eliminate e sostituite dall’opportunità di un’uscita anticipata dal
mercato del lavoro attraverso la possibilità di anticipare fino a tre anni prima dell’età
legale nel caso in cui la prestazione sia almeno 2,8 volte superiore a quanto garantito
dall’assegno sociale. i lavoratori che anche raggiungano l’età di pensionamento e il
minimo di pe