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BREVI NOTE SULL’ECONOMIA ITALIANA TRA IL 1620 E IL 1913
La perdita del primato, il costituirsi ed il consolidarsi di nuovi equilibri tra Seicento e primi
anni dell’Ottocento (1620-1815).
All’inizio del Seicento l’Italia centro-settentrionale deteneva ancora un primato nella vita economica
Europea. Anche se l’agricoltura restava l’attività fondamentale, fatto tipico di tutte le realtà di antico
regime, i sistemi economici locali dell’Italia centro-settentrionale erano caratterizzati da una forte
vivacità delle attività manifatturiere e commerciali. Erano numerose le botteghe artigiane di tessitori
di panni di lana e di prodotti di seta. Le maggiori città (Genova, Milano, Firenze e Venezia)
ospitavano inoltre importanti attività di scambio commerciale e case bancarie private dedite al
commercio di denaro.
In questo periodo interessanti legami si avevano tra il Centro-Nord della penisola e le aree del
Mezzogiorno. Dal Sud arrivavano i prodotti agricoli, cereali in particolare, che il resto dell’Italia era
costretto a importare, partivano inoltre, sempre dal Mezzogiorno, lana e seta grezze e filate, per
alimentare le botteghe artigianali.
L’assetto economico-sociale non era certo privo di elementi di debolezza all’inizio
del Centro-Nord
del XVII sec. Questa zona era infatti dotata di sistemi agricoli che a fatica producevano quanto era
necessario per garantire il sostentamento della popolazione (7,8 milioni di abitanti).
La tenuta dell’economia locale si legava così alla vivacità delle attività commerciali e
manifatturiere.
Anche per quanto riguarda i traffici non mancavano infatti difficoltà, il commercio nel Mediterraneo
era sempre più nelle mani delle marinerie dei Paesi Bassi, dell’Inghilterra e delle Francia.
In campo serico fu sempre più difficile reggere il peso della concorrenza francese e, in quello
laniero, erano i produttori olandesi e inglesi a metter in crisi i lanaioli fiorentini, veneziani o
milanesi.
Tra il 1559 e il 1713 la penisola rimase sotto il controllo politico della Spagna. La corte di Madrid
aveva il dominio diretto sul Mezzogiorno continentale e insulare, cui si aggiungeva il Ducato di
gravitavano nell’orbita spagnola. Dopo
Milano e lo Stato dei Presidi. Anche altri stati della penisola
la fine della guerra di successione spagnola (1701-1713/14), cambiò radicalmente il volto politico
dell’Italia e iniziò il predominio della corte di Vienna. Il Settecento può essere diviso in due fasi
distinte. Nella prima, l’Italia fu teatro di una serie di guerre che ebbero termine nel 1748, mentre
nella seconda cessarono i conflitti e non si ebbero cambiamenti politici di rilievo fino alla calata in
Italia delle armate rivoluzionarie francesi. Intorno alla metà del secolo l’Austria controllava solo una
parte della Lombardia, erano presenti le antiche repubbliche di Genova e Venezia, era cresciuta
l’importanza dell’antico ducato di Savoia, la Toscana era nelle mani della dinastia straniera, i
Lorena, imparentati con la corte viennese; restavano intatti gli antichi domini del Papato, mentre il
Mezzogiorno fu affidato alla dinastia dei Borboni (1738).
della carta politica dell’Italia si ebbe con la vittoriosa campagna di
Un deciso sconvolgimento
Napoleone in Italia, che portò alla fine del predominio austriaco su Milano; iniziò un breve periodo
di predominio francese in Italia: Piemonte, Liguria, Toscana, Lazio e Umbria diventarono
dipartimenti francesi. Nel Mezzogiorno si formò il Regno di Napoli, mentre la Sicilia restava ai
Borboni e la Sardegna ai Savoia. L’esperienza politica più interessante fu quella del Regno d’Italia
che comprendeva Lombardia, Veneto, Friuli, Istria, Dalmazia, Emilia-Romagna e Marche.
Gli anni successivi al 1620 furono indubbiamente caratterizzati da una crisi generalizzata dalle vita
economica della penisola italiana. Furono anni di carestia, resi ancora più drammatici dal
manifestarsi, prima nel Centro-Nord e poi nel Sud della penisola, di epidemia di peste che
falcidiarono la popolazioni. Inoltre vi fu una caduta generalizzata dalle attività commerciali e
manifatturiere, accompagnata da un forte declino sul piano demografico della maggiori realtà
urbane.
Il risultato dei drammatici avvenimenti che segnarono la prima metà del Seicento fu un netto
declino delle attività manifatturiere nei principali centri urbani del Centro-Nord e il concentrarsi delle
attività commerciali nel Mediterraneo nelle mani di operatori inglese, olandesi e francesi. Le attività
così l’elemento portante dei sistemi economici locali. La crisi dell’attività di
agricole divennero
tessitura dei maggiori centri urbani nel corso del Seicento fu accompagnata da una riconversione
del settore serico nel Nord della penisola. Le regioni settentrionali videro crescere la coltivazione
dei gelsi nei seminativi, conobbero uno sviluppo importante dell’allevamento del baco da seta e
delle attività di prima e seconda lavorazione (trattura e torcitura). Lombardia, Piemonte e Veneto
divennero così grandi produttori di semilavorato serico in larga misura destinato all’esportazione.
Il settore secondario non scomparve completamente nella vita produttiva della penisola, specie al
Nord crebbero di importanza attività di trasformazione, dalla tessitura della lana, alla lavorazione
del cotone, alla produzione di attrezzi e oggetti di ferro, svolte in piccole unità produttive, di solito
coincidenti con le case dei contadini e collegate ai mercati da mercanti imprenditori.
Con il Seicento cambiò così il ruolo dell’Italia centro-settentrionale nel contesto europeo. Da centro
della vita economica continentale, queste regioni divennero aree marginali e i loro sistemi
economici si caratterizzarono per un nuovo assetto, che è stato definito come equilibrio agricolo-
commerciale. Con questa espressione si fa riferimento ad aree prevalentemente dedite
all’agricoltura, legate all’ambiente internazionale in quanto fornitrici di beni agricoli e di
L’equilibrio agricolo-commerciale
semilavorati. non fu semplicemente un peculiare assetto
economico, ma anche un intreccio di interessi, di convenienze, di consuetudini, di convincimenti
culturali destinati a condizionare per molto tempo le scelte dei ceti egemoni.
L’equilibrio agricolo-commerciale si consolidò lungo tutto il Settecento e il primo quindicennio
dell’Ottocento. In questo periodo si registrò una staticità quasi completa del settore manifatturiero.
La fabbrica moderna, che iniziava in questo periodo a prendere piede in Inghilterra, fece capolino
solo in alcune realtà locali e quasi sempre per opera di stranieri, svizzeri in particolare.
L’agricoltura rafforzò ulteriormente il suo ruolo di cardine dei diversi sistemi economici, affiancati
da un setificio in ulteriore espansione sul piano produttivo.
Nella prima metà del Settecento si ebbero cambiamenti quando austriaci e piemontesi promossero
riforme dei sistemi fiscali dei loro stati al fine di reperire risorse per coprire le spese militari. In
in particolare l’azione della corte viennese portò, dopo il 1748, non solo a una
Lombardia
razionalizzazione dei sistemi di esenzione delle imposte (catasto teresiano), ma anche a un deciso
rafforzamento del potere statale.
L’azione di riforma si fece più organica nel secondo Settecento. Nella Lombardia austriaca il
governo attaccò gli antichi assetti, con interventi sulla proprietà ecclesiastica e sulla stessa vita
religiosa. Nel Granducato di Toscana, Pietro Leopoldo, fece propri gli orientamenti della fisiocrazia,
abolendo ogni vincolo alla circolazione interna dei grani e adottando una nuova disciplina degli
scambi con l’estero, fortemente orientata in senso liberista. Risultati positivi si ebbero anche nel
Regno di Napoli, dove la corona cercò di affermare il potere dello stato, riducendo il ruolo politico
della nobiltà feudale.
Il ruolo dell’amministrazione pubblica fu ancora più marcato negli ultimi anni del Settecento e nel
primo quindicennio successivo. Nello stesso tempo, su pressione della Francia, in tutta la penisola
si dovettero adottare regole doganali tali da garantire la possibilità, per gli operatori francesi, di
collocare i loro manufatti in Italia. Gli interventi più importanti si legarono alla drammatica esigenza
di garantirsi entrate adeguate per far fronte alle continue richieste di denaro dei francesi. In Italia in
nome dei principi di libertà e uguaglianza, non furono compiuti passi importanti per colmare
l’enorme divario di ricchezza da secoli esistente tra la cerchia ristretta dei grandi proprietari fondiari
e la massa dei lavoratori della terra.
Tra le riforme attuate dai governi voluti da Napoleone, va certamente ricordata l’abolizione del
regime feudale decretata nel 1806; furono rimossi integralmente l’esercizio della signoria da parte
dei baroni e il loro predominio politico sulle comunità rurali, i nobili furono privati del potere
giurisdizionale, fu loro impedito l’esercizio dei diritti proibitivi e cessarono di godere di immunità
fiscali.
Attraverso la vendita dei beni ecclesiastici e la fine del sistema feudale i governi sostenuti di armi
francesi attuarono dunque una vera e propria rivoluzione agraria, nel senso che operarono per la
piena affermazione della proprietà privata della terra come fulcro della vita economica e sociale.
Maturità e crisi dell’equilibrio agricolo-commerciale (1815-1880)
Nel 1815, l’attività prevalente era quella agricola. In tale situazione, il ceto dominante era formato
dai proprietari terrieri e dai grandi commercianti di derrate agricole e di semilavorati.
La centralità del settore primario era accompagnata da un’estrema varietà della forme di gestione
delle attività agricole e delle modalità di regolazione dei rapporti contrattuali tra i proprietari dei
terreni e contadini. Caratteristica comune di tutte le realtà della penisola era la netta prevalenza
della grande e della grandissima proprietà. I detentori dei maggiori possedimenti agrari erano dei
semplici precettori di rendita, preoccupati di salvaguardare il valore dei loro fondi. Raramente si
incontravano figure di imprenditori capitalisti, cioè di organizzatori dei lavori dei campi che
gestivano ampie unità colturali prese in affitto, dando lavoro ai salariati e vendendo i prodotti sul
mercato. Era questo il caso della ristretta fascia di pianura irrigua lombarda tra il Ticino e l’Adda. In
questa zona era centrale la figura del fittabile, un affittuario che dirigeva la cascina come
un’impresa e decideva le destinazioni colturali dei fondi presi in locazione secondo l’andamento del
mercato.
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