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I egli ricostruisce la genealogia delle lingue (dall’Adamitico, alla Torre di Babele)

destruens

e analizza dialetti italiani: è una pars che conclude con l’assenza di

un volgare locale sufficiente a fungere da lingua comune. In particolare Dante

enumera centinaia di dialetti italiani e afferma che nessuno di essi può aspirare

«volgare illustre»,

al titolo di poiché «anche i migliori restano pur sempre di

portata municipale»; i poeti volgari antichi operavano con lingua construens:

sostanzialmente locale anziché universale. Nel libro II parte la pars

Dante ipotizza che esista un volgare ottimo, comune agli italiani colti (di cui

doctores illustres

forniva in vita esperienza: in Italia lo usano concordemente).

A supporto deduce, in senso politico e culturale, che se esistono un’Italia e un

popolo italiano, l’idea astratta di una lingua nazionale comune («italiana») deve

per forza potersi formulare. Prosegue specificando chi e come può usare questo

volgare: lo utilizzeranno solo i poeti eccellenti capaci di esprimere i temi

supremi (magnalia, salus, venus, virtus – cioè gli «utili, delizie e il nobile»

dell’uomo). Dante inoltre propone regole metriche: ad esempio, nei libri

superstiti egli afferma che la forma metrica eletta per questi argomenti

altissimi è la canzone, e che lo stile deve essere «tragico» (pesante nel senso

di costrutto ma nobile nel tono). Il trattato è finito sulla questione della liceità e

nobiltà del volgare: sottolinea che il linguaggio letterario «nobile, cardinale e

aulico» esiste da secoli nella tradizione poetica italiana. Dal punto di vista

filologico e linguistico, il De vulgari è straordinario: rappresenta uno dei primi

grammatica

tentativi di stabilire una del volgare, con metodologia tipicamente

scolastica (pars destr.-constr., quaestio e conclusio). Dal punto di vista del

pensiero, il trattato evidenzia il desiderio di Dante di emancipare la lingua

italiana dal latino senza snaturarne le potenzialità espressive; la sezione etica-

politica riflette un ideale di unità culturale che si collega alle sue visioni

politiche successive.

De monarchia Monarchia)

Il De Monarchia (o semplicemente è un trattato politico in lingua

latina di tre libri, scritto probabilmente tra il 1312 e il 1313, sullo sfondo della

campagna italiana dell’imperatore Enrico VII. Il titolo specifico indica il governo

sovrano

imperiale universale: Dante intende qui discutere del sopra tutti

(l’Impero). L’opera fu concepita per difendere i diritti temporali dell’Impero

contro le pretese teocratiche della Chiesa. In sintesi, Dante argomenta che

l’Impero è voluto da Dio per il bene comune: esso è necessario alla felicità del

genere umano e fondato sulla Provvidenza divina. A coloro che avversavano

l’Impero o cercavano di soppiantarlo, egli oppone che solo l’idea del Sacro

Romano Impero (inteso come istituzione romana di diritto divino) ha legittimità

storica. Dante scarta la dottrina secondo cui il Papa conferisca l’Impero: egli

infatti sostiene esplicitamente che «l’imperatore riceve la sua autorità

direttamente da Dio, e non dalle mani del pontefice». Dal trattato emerge una

netta distinzione dei due poteri universali – spirituale (Papa) e temporale

(Imperatore) – col compito di chiarire i loro rispettivi ambiti, nell’ambito della

controversia tra guelfi e ghibellini dell’epoca. Strutturalmente, il testo è

organizzato secondo lo stile retorico classico (introduzione, trattati sistematici,

conclusioni). Filosoficamente, si rifà a concili arbitrali medievali sull’idea

aristotelica della monarquia universale, mescolata alla dottrina cristiana (Dante

cita liberamente Virgilio, Cicerone e scritti patristici e scolastici). Ad esempio, la

prima parte cerca di dimostrare razionalmente che il governo mondiale è un

bene supremo, e nella terza abbozza il corretto rapporto gerarchico tra Papa e

Imperatore – un principio di vicariato universale con il pontefice nel rango

supremo solo nell’ordine spirituale, mentre il potere temporale resta autonomo.

Sul piano letterario, l’opera mostra una prosa chiara e argomentativa; sul piano

teoria politica

teologico-politico, è uno dei primi atti di europea. Il De Monarchia

ebbe anche notevole vita postuma, fino alla messa all’Indice: pur senza esempi

tratti dal testo, lo studio critico rileva la coerenza interna delle argomentazioni

di Dante e l’originalità di alcuni concetti (come l’imperium sine fine) rispetto

alla tradizione.

Rime

Le Rime sono un corpus di poesie liriche in volgare (non raccolte in vita in un

canzoniere organico da Dante) composte nel periodo giovanile e di prima

maturità (ultimi decenni del Duecento). L’assenza di un canzoniere organizzato

ha portato a una tradizione manoscritta frammentaria; solo dopo la morte

Dante alcuni versi furono raccolti da Boccaccio e altri editori fiorentini. Le rime

comprendono sonetti, canzoni, ballate e capitoli diversi (per un totale di alcune

decine di poesie), in massima parte sonetti d’amore. Tematicamente,

rispecchiano le convenzioni dello stilnovo: esprimono il dolore del poeta

innamorato di Beatrice (“pargoletta” quasi celestiale) e di altre donne ideali,

ma alternano momenti di ammirazione e lode del suo obiettivo amoroso. Si

ritrovano motivi stilnovistici come la donna come raggio di divina luce o l’amor

cortese che viene invocato come forza etica. La prima fase delle Rime include

anche due canzoni più aspre e «dottrinali» sull’amore (“I’ mi son pargoletta” e

“Perch’io mi diparto”) in cui Dante già sperimenta un linguaggio più saggistico

«dolci rime»

e mordente. Subito dopo, egli ritorna alle amorose classiche:

racconta l’amore per una fanciulla virginale proveniente dal cielo, unito al

timore di una morte imminente dovuta alla sua giovinezza e inesperienza. Ad

esempio, nei sonetti e nelle canzoni successive (tra cui “Amor, che ne la mente

mia ragiona” e “Io sento sì d’Amor la gran possanza”) compaiono temi di

“Amor, che ne la mente mia

disagio amoroso e desiderio intellettuale. Il sonetto

ragiona” (canzone XC dei codici) in particolare rielabora motivi guinizzelliani ma

introduce una concezione nuova: Dante dipinge l’Amore come un principio

attivo che eleva l’anima verso le virtù morali e intellettuali, spingendo l’uomo

alla nobile autenticità. Dal punto di vista linguistico e stilistico, le Rime

testimoniano la maturazione del volgare poetico: Dante adotta metriche varie

(sonetto, terza rima estesa, canzone) con cura formale, inserendo moduli del

dolce stil novo (comune tra coevi come Guido e Cavalcanti). In alcune poesie

compaiono anche digressioni filosofiche-linguistiche sull’amore come progetto

conoscitivo (anticipando temi del Convivio). Dalla lettura critica delle Rime

emerge comunque un uso sapiente della metrica amorosa, con frequenti

antitesi (gioia/tristezza, vita/morte) e simbolismi della luce. Sebbene l’opera

non abbia coerenza complessiva, ogni lirica riflette introspezione e tono

elevato: nel complesso, le Rime confermano lo stile elegante e l’impegno

intellettuale di Dante nel lirismo stilnovista, precorritore delle tematiche poi

sviluppate nella Vita Nuova e oltre.

Egloghe

Le Egloghe di Dante sono due componimenti in latino, scritti nel contesto della

sua permanenza a Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Redatte

rispettivamente all’inizio del 1319 e nella primavera-estate 1321, esse

rispondono ad altri due poemetti del poeta bolognese Giovanni del Virgilio. La

prima egloga (anno 1319) è un dialogo poetico in forma di bucolica virgiliana:

Dante (vestito da pastore Titiro) risponde cordialmente a una lettera di Virgilio,

nella quale gli viene consigliato di scrivere in latino anziché volgare per

diffondere la sua fama. Dante rifiuta con garbo di recarsi a Bologna e dichiara

di preferire la gloria presso l’Arno, ossia riconosce le proprie radici poetiche in

Toscana. Dopo un nuovo componimento non dialogato di Virgilio che insiste

nell’invito, Dante compone la seconda egloga (1321): in essa lamenta di non

poter accettare il trasferimento a Bologna per timore dei pericoli

(raggiungerebbe fedeli nemici del passato) ed elogia l’ospitalità serena di

Guido Novello a Ravenna che gli garantisce la pace necessaria alla propria

creazione poetica. Le egloghe seguono la tradizione delle bucoliche latine

(pastorella, citazioni virgiliane), alternando persona pastorali e immagini

naturali (boschi, armenti, ecc.). In chiave critico-tematica, esse esprimono il

conflitto tra il desiderio di rinnovata autorità accademica latina e l’affetto per la

propria patria e stile italico. Filologicamente, sono scritte in latino cirillico con

metrica elegiaca (quarto stefani). Dal punto di vista del pensiero, riflettono la

temperie dell’epoca: da un lato mostrano l’imitazione formale della tradizione

classica, dall’altro ribadiscono la fedeltà di Dante alla cultura italiana e alla

lingua volgare (segno lo stesso che sceglierà nel Paradiso). Le egloghe, pur

essendo di dimensioni limitate, costituiscono una testimonianza originale della

posizione poetica di Dante alla fine della sua vita terrena e confermano il suo

status di poeta universale, capace di dialogare con la tradizione latina senza

rinunciare alla propria identità culturale.

Epistole

Le Epistole dantesche sono un gruppo di 13 lettere in latino conservate, di

argomento soprattutto politico e morale. Redatte tra il 1304 e il 1321, esse

dictamen

dimostrano l’uso del volgare settecentesco epistolare come forma

colta. Gli studiosi ritengono che quanto ci è pervenuto non sia molto inferiore a

quanto Dante effettivamente scrisse nell’ambito di epistole ufficiali; molte altre

lettere personali si persero. Le epistole superstiti hanno destinatari altolocati

(re, imperatori, vescovi, signori italiani). Ad esempio, Dante stesso racconta

che nel 1290 – subito dopo la morte di Beatrice – inviò ai principali magistrati di

Firenze una lettera latina iniziata con le parole di Geremia «Quomodo sedet

sola civitas» a piangere la città privata della sua donna. Un altro esempio è

l’epistola ai sovrani italiani sull’avvento di Enrico VII, dove Dante, come «umilis

italus et inmeritus exul», esorta i reggenti e le municipalità ad accogliere con

fiducia il nuovo imperatore (lettera databile alla fine del 1312). Altri scritti

famosi includono lettere a Cangrande della Scala o alle autorità vene

Dettagli
Publisher
A.A. 2024-2025
7 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Starless1974 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filologia della letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università telematica "e-Campus" di Novedrate (CO) o del prof Zaja Paolo.