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SVOLGIMENTO:

a) Per valutare se il licenziamento della sig.ra Marianna possa essere considerato discriminatorio, occorre

innanzitutto richiamare il divieto di discriminazione sancito dal nostro ordinamento. In particolare, la

legge vieta qualsiasi atto datoriale fondato su ragioni discriminatorie tra cui, in modo esplicito, il sesso e

la maternità. La casistica del licenziamento discriminatorio include una “lista chiusa” di motivi vietati

(genere, razza, religione, opinioni politiche o sindacali, disabilità, età, orientamento sessuale ecc.), per cui,

se il licenziamento è determinato da uno di questi motivi, è nullo e comporta l'applicazione della c.d.

tutela reale forte.

Nel caso concreto, la coincidenza temporale tra il rientro della lavoratrice dalla maternità e la

comunicazione del licenziamento rappresenta un indice presuntivo rilevante. La giurisprudenza ritiene

che, affinché si configuri un licenziamento discriminatorio, il lavoratore debba offrire elementi presuntivi,

precisi e concordanti, anche non costituenti prova piena. Se il giudice ritiene che tali elementi siano

sufficienti a fondare una presunzione di discriminazione, si verifica un’inversione dell’onere della prova:

spetta al datore dimostrare l’assenza di un collegamento causale tra la maternità e il recesso.

Inoltre, la legge (art. 54 del d.lgs. 151/2001) vieta espressamente il licenziamento della lavoratrice madre

fino al compimento del primo anno di vita del bambino, fatta eccezione per casi particolari (es. 3

cessazione dell’attività dell’azienda). Se il licenziamento avviene in tale periodo, esso si presume legato

alla maternità ed è, quindi, nullo a prescindere dalla motivazione addotta dal datore.

Anche qualora la lavoratrice fosse ormai fuori da tale periodo protetto, la coincidenza temporale con il

rientro in servizio, unitamente al fatto che l’altro collega addetto al mercato interno sia stato mantenuto

in servizio, mentre lei – con competenze diverse – sia stata licenziata, può configurare un’ipotesi di

licenziamento almeno sospettabile di discriminazione. La società, pur invocando la maggiore anzianità

del collega (assunto nel 2000), deve comunque dimostrare che tale criterio sia stato applicato

correttamente, che vi sia una reale necessità di ridurre il personale e, soprattutto, che non vi siano state

altre soluzioni organizzative o possibilità di ricollocazione (principio del “repechage”).

b) Se il giudice accerta che il licenziamento è avvenuto per ragioni discriminatorie, o che sia comunque

avvenuto durante il periodo di divieto di licenziamento legato alla maternità, esso è nullo. A tale nullità

consegue la c.d. tutela reale forte, che si applica a prescindere dalla dimensione dell’impresa o

dall’anzianità della lavoratrice. Tale tutela prevede:

• la reintegrazione nel posto di lavoro;

• il pagamento di una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni che la lavoratrice avrebbe percepito

dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione, con un minimo di 5 mensilità;

• il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorso;

• la possibilità, per la lavoratrice, di rinunciare alla reintegrazione optando per un’indennità sostitutiva

pari a 15 mensilità della retribuzione.

Questa disciplina si applica anche in regime di Jobs Act (d.lgs. 23/2015) per i lavoratori assunti dopo il 7

marzo 2015, nei casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra cui rientra appunto il licenziamento

discriminatorio. È bene sottolineare che, in questi casi, non rileva il numero dei dipendenti né la data di

assunzione: la sanzione è uniforme e inderogabile, proprio per tutelare la dignità e la parità dei lavoratori

di fronte a comportamenti datoriali vietati.

Se la sig.ra Marianna riuscisse a fornire al giudice elementi idonei a fondare una presunzione di

discriminazione, e il datore non fosse in grado di superare tale presunzione, il licenziamento sarebbe

nullo e la lavoratrice avrebbe diritto al pieno ripristino del rapporto e al risarcimento.

DOMANDA 3:

A fronte della crisi del mercato del libro e dei quotidiani, l’editore M. predispone un piano di

licenziamenti collettivi per i dipendenti in esubero e propone ai quadri e agli impiegati della propria

azienda che conservano il posto di lavoro accordi individuali per cercare di ridurre il costo del lavoro

complessivo.

In particolare, gli accordi contengono:

a) clausole di rimozione dei superminimi individuali pattuiti ad personam con i dipendenti;

b) patti di demansionamento, con attribuzione di mansioni inferiori e relativo re-inquadramento al

relativo livello contrattuale;

c) rinunce, per i sei mesi successivi, alla corresponsione di alcune voci retributive e indennità previste dal

contratto collettivo applicato dall’editore.

I dipendenti a cui gli accordi individuali vengono proposti procedono alla sottoscrizione degli stessi.

Trascorsi tre mesi dalla sottoscrizione, alcuni di loro iniziano a dubitare della legittimità degli accordi

sottoscritti.

Valutare, con distinto riferimento alle ipotesi a), b) e c), se i dubbi dei dipendenti sono fondati. 4

SVOLGIMENTO:

a) Nel momento in cui, alcuni anni fa, l’editore aveva riconosciuto ai propri quadri e impiegati dei

superminimi ad personam, quelle somme si erano stabilmente incorporate nel contratto individuale come

trattamento economico aggiuntivo rispetto ai minimi tabellari fissati dal contratto collettivo di settore.

Poiché il contratto collettivo rappresenta solo “la soglia minima” e tollera deroghe migliorative, tali

superminimi non godono della garanzia di inderogabilità che protegge, invece, i diritti sanciti dalla legge

o dal contratto collettivo . Ne deriva che le parti possono sempre decidere di ridiscuterli: il lavoratore, in

altre parole, può rinunciare a quel quid pluris senza che intervenga l’art. 2113 c.c., proprio perché non si

tratta di un diritto “inderogabile”. Resta naturalmente aperta la strada di un’eventuale impugnazione per

vizi del consenso (dolo, violenza, errore), ma non vi è una nullità automatica della clausola di rimozione.

In sintesi, i dubbi dei dipendenti appaiono poco fondati: finché la nuova retribuzione resta almeno pari al

minimo contrattuale, l’eliminazione del superminimo, pattuita liberamente, è valida.

b) Ben diverso è il patto di demansionamento con conseguente retrocessione di livello. La riforma del

2015 ha introdotto, all’art. 2103 c. 6 c.c., la possibilità di modificare in peius mansioni, inquadramento e

retribuzione mediante accordo individuale assistito, cioè stipulato in “sede protetta” (Dinanzi all’ITL, al

giudice, a una commissione sindacale o di certificazione) e per finalità specificamente indicate:

salvaguardia occupazionale, acquisizione di diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di

vita . Nel nostro caso l’editore ha raccolto le firme in azienda, senza mediazione di alcuna di queste sedi.

Mancando il requisito procedurale, l’accordo cade sotto la scure della nullità: il demansionamento non

produce effetti, il lavoratore conserva il precedente livello e ha diritto alle differenze retributive. I loro

dubbi sono quindi pienamente giustificati.

c) Ancora più delicata è la clausola con cui il dipendente “rinuncia” per sei mesi ad alcune voci retributive

e indennità previste dal contratto collettivo. Tali voci sono espressione di un diritto che discende da fonte

inderogabile (il contratto collettivo medesimo): l’art. 2113 c.c. stabilisce che rinunce e transazioni su tali

diritti sono invalide, salvo che intervengano, anch’esse, in sede protetta . Poiché la sottoscrizione è

avvenuta al di fuori di quella cornice, l’atto è solo annullabile: il lavoratore dispone di sei mesi (dal giorno

in cui i pagamenti avrebbero dovuto essere effettuati) per impugnarlo con qualsiasi atto scritto. Avendo

manifestato i loro dubbi dopo tre mesi, i dipendenti si trovano ancora nel termine utile per far valere

l’invalidità ed esigere l’integrale restituzione delle somme non corrisposte.

DOMANDA 4:

La società Sygma ha complessivamente 50 dipendenti, suddivisi equamente tra le cinque sedi operative

presenti sul territorio nazionale. I dipendenti P. e Q., addetti alla sede ubicata nel Comune di Venezia,

comunicano alla direzione aziendale la loro adesione al sindacato UTC e la conseguente costituzione

all’interno della loro sede di lavoro di una RSA ai sensi dell’art. 19 St. lavoratori. La società Sygma rifiuta di

riconoscere la costituzione della RSA eccependo:

a) che la sede di Venezia non presenta i requisiti dimensionali minimi richiesti dallo Statuto dei lavoratori

per la costituzione di una RSA;

b) che il sindacato UTC non ha sottoscritto il Ccnl applicato nell’unità produttiva, pur avendo partecipato

alle trattative;

c) che è già presente nella stessa unità produttiva un’altra RSA costituita nell’ambito di un sindacato

comparativamente più rappresentativo e firmatario del Ccnl applicato nell’unità produttiva; 5

d) che il sindacato UTC non è comunque un sindacato a diffusione “nazionale”, come previsto dall’art. 28

St. lav., e quindi non è legittima la costituzione, nel suo ambito, della RSA.

Valutare se le singole obiezioni formulate dall’azienda sono fondate.

SVOLGIMENTO:

a) La prima obiezione dell’azienda riguarda il presunto difetto di dimensione dell’unità produttiva

veneziana, che conterrebbe soltanto 10 dipendenti. Tuttavia, per rispondere correttamente occorre

distinguere il dato aziendale complessivo da quello riferito alla singola unità. In base all’art. 35 dello

Statuto dei lavoratori, le RSA possono essere costituite solo nelle unità produttive con più di 15

dipendenti. Ma la norma è stata interpretata, in giurisprudenza e dottrina, in senso estensivo: si considera

legittima la costituzione della RSA anche quando la soglia minima non è raggiunta dalla singola unità,

purché il complesso delle unità situate nello stesso comune superi i 15 dipendenti. Nel nostro caso, i 10

dipendenti della sede di Venezia non superano la soglia; se tale sede è l’unica presente nel comune e non

si può contare su una sommatoria comunale, la contestazione dell’azienda sarebbe formalmente fondata.

b) La seconda eccezione muove dal fatto che il sindacato UTC non avrebbe firmato il contratto collettivo

applicato in azienda. In proposito, la formulazione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, modificata in

seguito al referendum del 1995 e successivamente reinterpretata

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Publisher
A.A. 2024-2025
34 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Ema.Ema di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Genova o del prof Novella Marco.