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Il dovere di verità nell'ambito delle procedure italiane

Nelle procedure italiane, tuttavia, non si fa menzione di tale dovere. E' solamente imposto un generico dovere di lealtà, nel timore che l'introduzione del dovere di verità comportasse l'obbligo della parte e del suo avvocato di contraddire o produrre prove.

Il dovere dell'attuale codice deontologico, anche se non conosciuto all'epoca come tale, costituiva il limite all'astuzia dell'avvocato: era possibile nascondere con prudenza i fatti che avrebbero potuto nuocere al proprio cliente, ma non ricorrere a falsità. L'unica arma concessa all'avvocato per difendere il proprio assistito era dunque la sapiente omissione.

A partire dal XII secolo, con la riscoperta della compilazione giustinianea, il processo diventa sempre più meccanico e di conseguenza la professione forense inizia ad acquisire prestigio.

Possiamo pertanto affermare che già all'epoca gli avvocati erano grandissimi oratori, in grado di...

utilizzare l'arte della retorica a proprio favore. All'avvocato era concesso argomentare, tuttavia, doveva fare attenzione perché il confine tra argomentazione e falsità era molto sottile: talvolta omettere un fatto o esporlo diversamente cambia completamente la situazione. In altre parole, si cerca di conciliare la tesi dei canonisti con quella del ferreo ed irremovibile San Tommaso. La questione ha rilevanza anche con riguardo al rapporto avvocato-cliente. Ci si domanda se l'avvocato possa consigliare al proprio cliente di tacere o dimenticare quando viene interrogato dal giudice. La risposta ci appare scontata e immediata: no, perché all'avvocato competono le stesse facoltà della parte, la quale non può né tacere né mentire, ma deve contribuire, con la propria confessione, al raggiungimento della verità. Nel processo di diritto comune la parte era obbligata a dire la verità: negli atti in cui era.

Chiamata personalmente a rendere dichiarazioni, essa era equiparata al testimone ed era tenuta a prestare giuramento. A tal proposito non giova a favore del ceto forense l'opinione pubblica, la quale considerava il ceto forense tanto scaltro da poter istigare un cliente a formulare posizioni e risposte false, pur di vincere la causa ed ottenere, in tal modo, fama e guadagno.

In età moderna, l'abusivo esercizio della difesa da parte di procuratori e sollecitatori, privi dei requisiti di studio richiesti agli avvocati, contribuirà ad alimentare le polemiche nei confronti del ceto forense. Polemiche che tuttora non si sono placate. Si tratta infatti di un problema che cresce esponenzialmente con l'aumentare degli avvocati, i quali sono considerati dall'opinione pubblica responsabili di problemi relativi all'amministrazione della giustizia, più comune fra i quali, per esempio, l'eccessiva durata dei processi. Già all'epoca, secondo Ala,

infatti, i procuratori, che assumevano il patrocinio delle cause senza l'assistenza degli avvocati, consigliavano sovente ai clienti di negare fatti veri. I procuratori, nelle vesti di avvocati quali non erano, non solo dichiaravano ed istigavano a dichiarare il falso, ma obbligavano le parti a pagare i diritti relativi all'estrazione delle copie degli atti (in modo da assolvere l'onere della prova) che loro stessi avevano redatto, nelle vesti di notai.

Ma cosa si intendeva per "causa ingiusta"? Solo quella giuridicamente infondata o anche quella contraria alla verità?

Tra i giuristi si affermò la tendenza a circoscrivere la categoria delle cause ingiuste a quelle giuridicamente infondate.

Tra i teologi, invece, si affermò una soluzione differente, che fu accolta anche nei trattati sulla professione forense. Per stabilire la giustizia o l'ingiustizia di una causa, l'avvocato avrebbe dovuto richiamarsi unicamente alla propria coscienza.

senza aver riguardo al possibile esito della controversia. È indubbio il fatto che l'avvocato non potesse patrocinare una causa contro la propria coscienza, ma bisogna fare riferimento non alla coscienza umana (intesa come aspirazione assoluta alla giustizia), ma alla coscienza delle leggi (presumibilmente troverà espressione nella sentenza del giudice). Il caso di coscienza per eccellenza è quello in cui l'avvocato ricava dal proprio assistito la confessione della commissione del reato. Giuristi e teologi dibatterono molto circa questo quesito, giungendo infine a stabilire che il processo penale era da considerarsi un'eccezione rispetto al divieto di difendere cause ingiuste. Più recentemente, verso la fine dell'Ottocento, Giuseppe Zanardelli circoscrive il divieto di difendere cause ingiuste alle solo cause civili, poiché "innanzi alla punitiva giustizia anche il patrocinio d'una causa cattiva è legittimo ed obbligatorio".

perché l'umanità lo ordina, la pietà lo esige, la consuetudine lo comporta, la legge lo impone.

Veniamo dunque al dovere di segretezza, dovere che coinvolgeva l'avvocato qualora decidesse di rinunciare al mandato. Tale dovere impediva all'avvocato

Dettagli
A.A. 2019-2020
4 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/19 Storia del diritto medievale e moderno

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher laura.piranese di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia delle professioni legali e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Bianchi Riva Raffaella.