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Repubblica alla poesia e al poeta, la cui opera doppiamente lontana
dalla realtà, futile nel migliore dei casi, nel peggiore, pericolosa sia
per la scienza che per la morale, ha l’effetto di una “paralisi del
pensiero”. Una malattia, nemica della verità. Ma la questione
sollevata da Platone ha radici più profonde, in una tradizione e nei
fondamenti su cui essa poggia. Al centro della questione è il processo
di formazione dei giovani, e la presenza dei poeti in questo processo.
Quindi non tanto la poesia in sé, ma il ruolo enciclopedico e culturale
che questa svolgeva all’interno della società. I poeti vanno quindi
sostituiti dai filosofi. Attraverso la scrittura, che rende possibile il
pensiero astratto, grazie alla possibilità di dare ai termini delle
definizioni e usi precisi, non ad uso del momento come nel canto
orale. E anche se il discorso del filosofo è ancora legato all’oralità,
esso è possibile solo grazie alla sua conoscenza per la scrittura.
È grazie alla scrittura che la conoscenza può salvarsi dall’oblio.
Perché qualsiasi tipo di conservazione mnemonica implica una
flessibilità della storia e della conoscenza. Come la memoria può
perdere delle parti, così altre vengono necessariamente abbandonate
se non hanno immediata rilevanza nel presente, così come studiarono
Goody e Watt parlando di “amnesia strutturale”, nel caso in cui eventi
irrilevanti del passato venissero semplicemente rimossi dai racconti
dei griot. Si ha così una doppia medaglia, da una parte si guadagna
un’oggettivazione della storia come raccolta di eventi e dall’altra si
cede appunto la propria memoria al meccanismo della scrittura. «Le
lettere cagionano smemoramento nelle anime di coloro che le hanno
apprese, perché più non curano della memoria, come quelli che,
fidando della scrittura, per virtù di strani segni di fuori si
rammentano delle cose, non per virtù di dentro e da sé medesimi.
Dunque trovato hai la medicina, non per accrescere la memoria,
sibbene per rivocare le cose alla memoria. E quanto a sapienza, tu
procuri ai discepoli l’apparenza sua, non la verità…». Questa, una
delle obiezioni che nel Fedro, il Socrate di Platone muove alla
scrittura; l’altra è che la parola scritta non sa rispondere, se interrogata
«maestosamente tace», non entra nello scambio dialettico e continua a
«significare sempre il medesimo».
Ong si interroga sul rapporto tra scrittura e oralità, sull’influenza della
scrittura sulla forma mentis degli individui e delle società. Ed ben
visibile il contrasto tra i sistemi logici: uno è quello principalmente
sillogistico e deduttivo sviluppato dalla cultura occidentale attraverso
l’uso di sempre più sofisticate tecnologie della parola, e l’altro, è
quello apparentemente illogico degli ‘illetterati’, i cosiddetti
‘selvaggi’, i ‘primitivi’, i portatori di una cultura che Ong chiama a
oralità primaria. Gli studi di Ong mostrano come questo passaggio
abbia contribuito a produrre una nuova forma di pensiero e di
espressione in coloro che sono stati investiti dalla scrittura. «La
scrittura ristruttura il pensiero» afferma. Egli ci dice che nei popoli
senza scrittura «il suono esiste solo nel momento in cui sta morendo».
Il suono, e la parola con esso, è etereo, strettamente legato al parlante
e alla durata del suo atto fonatorio. Come può allora la conoscenza
svilupparsi in una cultura in grado di comunicare soltanto attraverso
le parole/suoni? E come può questa conoscenza, una volta acquisita,
essere mantenuta in assenza di testimoni che permangano nel tempo
quali libri, vocabolari, enciclopedie, manuali? Attraverso una struttura
base fatta di formule e ritmo, di stereotipi e cliché. È un sistema
aggregativo, ridondante, conservatore, vicino all’esperienza,
agonistico, omeostatico, situazionale. Lontano quindi da concetti
come astrazione o analisi. Ed è qui che la scrittura ha ruolo
fondamentale. È proprio questa ‘liberazione’ della mente dal fardello
di un pensiero formulaico che ha fortemente favorito lo sviluppo del
pensiero analitico. La scrittura è centrale nei destini dell’uomo,
perché da un lato è la catena che lega l’umanità e la imprigiona nella
rete di comando e di controllo degli imperi – strutture fondate sul
«monopolio della conoscenza» – dall’altro è però lo strumento che
meglio serve all’intellettuale dissenziente per diffondere le idee
antagoniste tra un pubblico vasto. Abbiamo quindi la scrittura come
dispositivo di controllo del potere e dall’altra parte la perdita di una
struttura mnemonica, e quindi la cessione delle proprie facoltà
mnemoniche a una tecnologia.
Così come poi la rivoluzione industriale, l’introduzione delle
macchine saranno un potenziamento delle possibilità dell’uomo ma
allo stesso tempo una cessione delle facoltà dello stesso: la forza
fisica, il lavoro manuale.
Arrivando fino ad oggi, all’altro grande dispositivo che ha catturato
l’uomo: la tecnologia.
La tecnologia come dispositivo di gestione delle facoltà affettive.
Sherry Turkle si chiede perché le nostre aspettative nei confronti della
tecnologia sono in continua crescita mentre le nostre aspettative nei
confronti dell’altro si stanno riducendo ai minimi termini. La Turkle
prende in considerazione due esempi di applicazione di queste
tecnologie ruba-affettività: i robot sociali e i social network. I primi
visti come sostituti umani, come palliativi per la mancanza di contatto
reale, i secondi come trasformanti dello standard e del modello
relazionale.
Costituendo i suoi studi principalmente di esperimenti e interviste si
propone di capire qual è il potenziale e qual è il rischio
dell’introduzione di questi dispositivi all’interno della società. Si
denota come in particolare i bambini, ma in generale la maggior parte
degli intervistati, siano pronti ad accettare i robot in quanto
‘abbastanza vivi’, accontentandosi di una macchina funzionale che
simula emozioni, come compromesso alla difficoltà e all’impegno che
implicano le relazioni vis-a-vis. Se noi stessi ci comportiamo come
dei robot, e siamo assenti, lontani, distaccati, perché non dovremmo
accettare un robot, che sa fare solo quello, ma lo sa fare bene? E se
poi il robot simulasse una sorta di accudimento nei nostri confronti, di
affetto, di ascolto? Ci stiamo muovendo da una definizione di
‘macchina’ a una, più umanizzante, di ‘creatura’. Stiamo cedendo la
nostra affettività alle macchine? La risposta sta nella definizione
stessa di tecnologia: la tecnologia ci fa risparmiare tempo. Tempo che
però occupiamo sempre intrappolati in essa. Tempo tolto alla
relazione, all’attesa, all’impegno che richiede una relazione umana. I
bambini che si chiedono se i robot sociali saranno parte della loro vita
perché non ci sono persone disponibili per quelle mansioni, sono un
esempio di quanto ci stiamo sempre di più abituando alla tecnologia
come non più solo a una protesi di noi stessi ma come un valido
sostituto. Stiamo relegando le fasce di popolazione che consideriamo
‘un peso’ alle macchine perché altre macchine ci rubano il tempo per
prendercene cura.
Per avvicinarci sempre di più a queste macchine consideriamo la
mente come una macchina modificabile con la bioingegneria.
Cerchiamo di creare punti in comune. Stiamo umanizzando la
tecnologia o de-umanizzando noi stessi? Quello che viene chiamato il
‘momento robotico’ viene dato in egual parte dall’avanzamento
tecnologico e dalla nostra apertura, o fiducia, nei confronti della
tecnologia. Siamo disposti a cedere il nostro bisogno di empatia in
cambio di funzionalità? Siamo di fronte a una rivalutazione del
concetto di ‘tu’, che si allarga sempre più per far entrare anche le
macchine. Ritornando a Platone, tutto ciò che inganna sembra
sprigionare una malia. Il momento robotico implica la ridiscussione
di alcuni concetti, come quello di vita, di intelligenza, di affetto. A
quante delle facoltà prettamente umane siamo disposti a rinunciare
per aumentare l’efficienza di un contesto famigliare, o di cura, o
lavorativo? Qui gli esempi come il Furby, o il Paro si offrono di darci
un senso di impegno nei loro confronti, amiamo ciò che accudiamo,
così ci sentiamo legati alle macchine in un modo quasi umano,
considerandoli capaci di emozioni poniamo noi stessi nelle condizioni
di prenderci cura di loro. È un’altra faccia dell’abbandono? È
abbastanza la simulazione di un sentimento, invece del sentimento
stesso?
I nostri standard e le nostre esigenze stanno drasticamente cambiando.