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Riflessioni sugli incontri laboratoriali
Nell’ambito del corso di Psicopedagogia del linguaggio e della comunicazione è stato svolto un
laboratorio relativo a diversi aspetti dell’educazione e dell’alfabetizzazione infantile.
Il laboratorio si è aperto con la richiesta di rispondere ad un questionario (Allegato 1) non valutativo
teso ad indagare le nostre conoscenze pregresse e idee personali riguardanti i temi oggetto del corso.
È stato senza dubbio più facile affrontare le domande che richiedevano un’opinione o un ricordo
sulla propria infanzia, mentre per quanto riguarda le domande relative ad autori e studi effettuati su
linguaggio e comunicazione sia io che diversi miei colleghi abbiamo incontrato alcune difficoltà.
Avendo seguito durante il corso di laurea triennale l’insegnamento di Psicologia dell’istruzione, il
primo collegamento che mi è tornato alla memoria, vedendo domande su scrittura, lettura e
linguaggio, è stato con le autrici Ferreiro e Teberosky, e lo stesso è stato per altre mie colleghe con
cui mi sono successivamente confrontata. Quando però, nel corso della compilazione del
questionario ci è stato fatto notare che la domanda in questione si riferiva allo sviluppo del
linguaggio e non della scrittura, ho cercato di organizzare i ricordi relativi al linguaggio nella teoria
di Vygotskji e all’esistenza di un programma universale di sviluppo del linguaggio, senza però
riuscire a ricordare dettagli di tali teorie. La domanda che però mi ha più messa in difficoltà, e alla
quale non sono riuscita a dare risposta, è quella riguardante gli studi sulla comunicazione. Tuttavia,
già a partire dalla prima lezione teorica, alla vista del titolo “Gli assiomi della comunicazione” sulla
slide proiettata, mi sono dovuta ricredere sulle mie conoscenze relative all’argomento. Per quanto
riguarda invece le domande su ricordi ed opinioni personali non ho avuto particolari difficoltà ad
organizzare le idee, forse proprio grazie al fatto che avevo già affrontato in passato tali questioni sia
teoricamente che praticamente.
Solo nel rispondere alla domanda sull’esistenza o meno di un’età giusta per imparare a leggere e a
scrivere ho avuto qualche esitazione a causa della necessità di coniugare l’apporto di influenze sia
ambientali che relative allo sviluppo psicofisico del bambino, insieme alla considerazione della
variabilità interindividuale e dei miei ricordi sull’età dei bambini di cui ho raccolto le scritte
spontanee nell’ambito del laboratorio del corso di Psicologia dell’istruzione. Tuttora, rileggendo la
mia risposta (“Credo che l’età «giusta» possa andare dai 4 ai 6 anni”) non sono pienamente
soddisfatta, in quanto il termine “giusta”, seppur tra virgolette, non mi sembra adeguato a rendere
conto della molteplicità degli approcci alla lettura e alla scrittura che avvengono prima
dell’istruzione formale con tempi e modalità differenti. Non avevo infatti preso in considerazione il
periodo presillabico in cui le “lettere” possono consistere in grafemi non iconici, che comprendono
anche cifre, simboli e pseudo-lettere.
Nel secondo incontro di laboratorio (Allegato 2), del 2 ottobre, abbiamo invece visionato ed
analizzato in gruppo un video in cui quattro bambini scrivevano la parola “palloncini” e si
confrontavano sui loro prodotti.
Come ho riportato anche sul foglio dell’esercitazione, mi ha colpito il fatto che la prova
somministrata ai bambini sia stata svolta in gruppo, in quanto questo li ha portati ad imitarsi l’un
l’altro. Ho condiviso questo mio pensiero con il resto del gruppo di lavoro, in cui c’era anche una
studentessa che non aveva mai studiato prima l’alfabetizzazione infantile. Infatti il mio stupore di
fronte a questa modalità di somministrazione è stato probabilmente influenzato di nuovo dal ricordo
del laboratorio di Psicologia dell’istruzione, durante il quale avevamo raccolto le scritture spontanee
di alcuni bambini della scuola dell’infanzia, con l’indicazione appunto di far svolgere
individualmente il compito, evitando che i compagni potessero guardare i prodotti degli altri.
Tuttavia ho potuto riscontrare che anche questa ragazza aveva trovato strana la modalità di
svolgimento dell’attività.
La tendenza dei bambini a copiarsi rendeva infatti difficile individuare la modalità di
rappresentazione del linguaggio del singolo individuo. Proprio questa era la prima domanda postaci
nell’esercitazione, che ha messo me e il mio gruppo di lavoro un po’ in difficoltà, in quanto pur
volendo in qualche modo riconoscere un contributo maggiore alla bambina che aveva svolto
individualmente il compito, abbiamo dovuto in conclusione attribuire una modalità di
rappresentazione presillabica a tutti i bambini.
Nel corso del terzo incontro di laboratorio (Allegato 3) abbiamo visto di nuovo i quattro bambini,
impegnati questa volta nella scrittura della parola “signore”. Ascoltando il dibattito tra i bambini e
gli effetti che questo ha avuto sulla loro concettualizzazione della scrittura, ho a questo punto
compreso l’importanza del far svolgere tale attività in gruppo. Infatti, anche se i due video erano
stati girati nella stessa giornata, abbiamo potuto assistere ad una prima transizione da una modalità
di rappresentazione del linguaggio presillabica ad una modalità sillabica, proprio grazie alle
interazioni tra i bambini. Nell’avvio di questo processo è stato ovviamente di grande importanza
l’intervento dell’adulto nel veicolare l’attenzione, invitare al confronto e spingere alla correzione
dei prodotti in seguito al raggiungimento di un accordo tra i bambini.
Ho trovato quindi questa attività laboratoriale particolarmente utile a comprendere un aspetto dello
sviluppo della concettualizzazione della scrittura che fino ad allora non avevo preso in
considerazione, essendo maggiormente concentrata sul riconoscimento del livello di sviluppo
individuale. La mia precedente esperienza, oltre ad aver influenzato la mia prima impressione sul
video, mi ha però anche permesso di riconoscere le peculiarità di due differenti approcci e di
integrarle nel quadro più ampio dello studio della concettualizzazione della scrittura nell’infanzia.
Ho così compreso che lo scopo dell’attività di scrittura spontanea in gruppo non è quello di
riconoscere il livello individuale di concettualizzazione, né quello di arrivare allo sviluppo di una
scrittura convenzionale, ma piuttosto l’obiettivo è di portare gradualmente i bambini ad interrogarsi
sulle scritture da loro prodotte, sulle possibili modalità di scrittura e sul sistema stesso di scrittura.
Ripensando alla mia risposta alla domanda 5 del questionario iniziale (“Secondo te come impara a
scrivere un bambino?”) credo di aver individuato la strategia applicata dai bambini del video nel
punto in cui affermo che si può partire dal significato e dal suono della parola e ricavarne le singole
lettere che la compongono, ma ho anche incluso la possibilità di partire invece dall’apprendimento
della forma e del suono delle lettere per poi risalire alla costruzione delle parole.
Nel laboratorio del 4 novembre (Allegato 4), abbiamo invece analizzato l’interazione tra uno
sperimentatore e Santiago, un bambino di 2 anni e 7 mesi, che mostrava il suo modo di mettere in
relazione lingua orale e lingua scritta.
Santiago non conosce il nome e il valore sonoro delle lettere, ma riconosce 14 lettere come
appartenenti a persone conosciute. Nella discussione all’interno del gruppo di lavoro abbiamo avuto
alcune difficoltà a comprendere questa sua modalità di riconoscimento delle lettere, in quanto
eravamo divisi riguardo la presenza di un riconoscimento del valore sonoro convenzionale come
guida per risalire al nome della persona conosciuta. Siamo infine arrivati alla conclusione che fosse
piuttosto un apprendimento mnemonico di appartenenza, senza riconoscimento sonoro della lettera.
È stato interessante osservare poi come questo principio di appartenenza entrava in conflitto con il
principio della quantità minima (non si può rappresentare ad esempio “papà” solo con la P, ci
vogliono almeno tre lettere), ma ancora più particolare secondo me è il modo in cui il bambino ha
risolto questa situazione creando relazioni tra le persone rappresentate nella parola dalla presenza
delle loro lettere. Dalla discussione in aula a seguito dell’esercitazione è inoltre emersa un’ulteriore
strategia che io e il mio gruppo di lavoro non avevamo individuato: Santiago per risolvere il
conflitto dato dalla presenza di più nomi nella stessa stringa di lettere utilizzava un doppio senso di
lettura come “errore strategico”.
Questo laboratorio a mio avviso ha messo in luce meglio dei precedenti la varietà e l’originalità
delle strategie e delle spiegazioni messe in atto dai bambini nel corso del livello presillabico.
Inoltre, osservando l’età di Santiago (2,7), ho trovato risposta ai miei dubbi sull’esattezza della mia
risposta alla domanda 7 del questionario iniziale (“Esiste un’età giusta per imparare a leggere e a
scrivere?”) in quanto, avendo indicato un’età tra i 4 e i 6 anni, ho potuto trovare smentita nella
capacità del bambino di riconoscere a suo modo già, quasi due anni prima, alcune lettere.
Nell’incontro laboratoriale del 12 novembre (Allegato 5) abbiamo letto alcuni estratti dal diario di
un’insegnante di scuola dell’infanzia, che affrontava per la prima volta la gestione di una classe
eterogenea per età.
L’esercitazione proponeva di riflettere su problemi e strategie descritte dall’insegnante.
Non avevo mai considerato prima il concetto di “tenere la classe” nel contesto della scuola
dell’infanzia, in quanto quest’espressione rimanda generalmente all’immagine di un insegnante che
si rapporta ad un gruppo di preadolescenti o adolescenti “indisciplinati”.
Le sequenze del diario che abbiamo analizzato hanno invece messo in luce diversi aspetti del
problema di gestione di classi della scuola dell’infanzia con bambini di diverse età, a causa delle
diverse esigenze e competenze che li caratterizzano. Il principale elemento problematico che è
emerso nel confronto in aula ha riguardato tuttavia piuttosto la centratura dell’insegnante sul
prodotto (caos) e non sul processo (interazione come contesto di sviluppo), che l’ha portata ad un
vissuto di negatività.
La rottura della routine ha richiesto un processo di adattamento anche, e forse soprattutto,
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