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La perenne subordinazione dell'avvocatura
Nel corso del Settecento, durante l'Illuminismo, si era irradiata un'ideologia profondamente anti-giurisprudenziale. L'Illuminismo propone riforme sociali, economiche, istituzionali, per superare la tradizione di antico regime in vista del perseguimento del bene comune.
Il primo limite era sicuramente costituito da coloro che nell'antico regime avevano goduto del monopolio del diritto: giudici ed avvocati, i quali spesso distorcevano la legge statale e boicottavano la realizzazione del bene comune. Furono pertanto adottati una serie di provvedimenti, contro giudici ed avvocati, al fine di limitare il loro potere.
Soltanto nell'Ottocento, con le riforme napoleoniche, la figura dell'avvocato fu reintrodotta e fu ricostituito l'ordine degli avvocati sotto il controllo dello Stato. Dopo la caduta di Napoleone, in quasi tutti gli stati preunitari, vengono adottati codici che ricalcano quelli
Napoleonici. In Italia, il Regno lombardo-veneto è l'unico Stato che non adotta il modello francese, se non per il codice di commercio. Tuttavia, anche nel Regno lombardo-veneto (nel quale vengono estesi i principi austriaci) non esiste alcuna forma di organizzazione autonoma. Gli avvocati sono infatti sottoposti a un rigido controllo da parte del governo che lo esercita per il tramite della magistratura, che non ha solo il compito di controllare l'accesso alla professione, ma anche quello di sorvegliare gli avvocati e di esercitare la potestà disciplinare.
Come se non bastasse, la professione forense fu ulteriormente svilita dalla previsione del modello inquisitorio (il quale riduceva notevolmente lo spazio della difesa nel processo penale), facendo diminuire drasticamente il prestigio dell'avvocato.
A questi provvedimenti, soprattutto nel corso del 1848, seguirono una serie di rivolte da parte degli avvocati fino ad arrivare all'abbandono della
Professione forense di Giuseppe Marocco, il quale considera ingiusto un processo che esclude la presenza dell'avvocato e affida la difesa al giudice-accusatore. In particolar modo, ai sensi del codice di procedura penale del 1865, l'avvocato non poteva assistere alle perizie, alle ricognizioni, ai confronti e alle perquisizioni, non poteva assistere all'esame dei testimoni e all'interrogatorio dell'imputato, non poteva avere colloqui con l'imputato detenuto ed, infine, non poteva prendere visione degli atti.
Il codice del 1865, inoltre, conteneva anche alcune norme relative al controllo disciplinare dei giudici sugli avvocati. L'art. 635 del c.p.p del 1865 permetteva al giudice di sanzionare l'avvocato in tre ipotesi:
- Se la difesa degli imputati o accusati fosse trascurata;
- Se nelle loro arringhe o negli atti si allontanassero dal rispetto dovuto alla dignità dei giudici;
- In qualunque altro modo si rendessero reprensibili.
Nell'esercizio del loroministero. Su questa formula, nonostante la chiara fissazione delle circostanze nelle qualii magistrati potevano esercitare la potestà disciplinare, si innesta lagiurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale interpretò in modoeccessivamente estensivo il contenuto della formula, tanto da ricomprendereall'interno di essa l'ipotesi di abbandono di difesa considerandola come difesatrascurata, sebbene, ai sensi dell'art. 633, c.p.p fosse concessa per giustificatimotivi, ovvero per incompatibilità.
A partire dall'Unificazione, tuttavia, si inizia ad avvertire la necessità diunificare la disciplina dell'avvocatura in tutto il territorio nazionale. Il primoprogetto che viene proposto è quello del ministro De Falco. A questo progettoseguirono molte modificazioni fino a giungere alla legge 8 giugno 1874, n.1938.
Come in quasi tutti gli ambiti legislativi, nella prassi, le previsioni furono in uncerto
senso anticipate: a partire dall'Unificazione, infatti, si formarono spontaneamente in diverse città italiane associazioni di avvocati. Queste associazioni realizzavano l'autonomia degli avvocati che per molti anni mancò: le associazioni erano rette da un consiglio, al quale spettava la giurisdizione disciplinare sui propri membri.
Giuridicamente parlando, tali associazioni si concretizzano nel 1874, anno in cui la professione forense riceve riconoscimento esplicito e disciplina da parte dello Stato. La legge istituisce infatti l'ordine degli avvocati presso ciascun tribunale e ciascuna corte d'appello, salvo che vi fossero meno di 15 iscritti. Nonostante possa apparentemente sembrare un passo in avanti, al col tempo, l'Italia ne compie due indietro: l'istituzione di tanti piccoli ordini locali, se non affiancati da un organo nazionale che rappresentasse l'avvocatura a livello generale, indebolisce la forza rappresentativa di fronte allo Stato.
In ogni caso, resta comunque il fatto che le professioni di avvocato e procuratore costituirono, in un certo senso, il modello su cui modellare la disciplina di altre professioni. Nel 1875, ad esempio, fu promulgata la legge sul notariato. L'art. 34 della legge 1938/1874 prevede un'adunanza generale, ossia di un'assemblea di tutti gli avvocati iscritti presso l'albo, che deliberava per la rinnovazione del consiglio dell'ordine e per l'approvazione dei conti e, straordinariamente, per altre questioni. L'istituzione degli ordini professionali, quindi, realizza l'autonomia dell'avvocatura, in particolar modo attraverso l'attribuzione di due funzioni: la tenuta degli albi e l'esercizio della potestà disciplinare. All'art. 3 della legge subordina l'esercizio delle professioni di avvocato e procuratore all'iscrizione all'albo. La legge mantiene la distinzione tra le due professioni istituendo due albi differenti,
Ammettendo tuttavia il cumulo delle due professioni. In relazione all'iscrizione all'albo degli avvocati, il primo elemento di intromissione della magistratura lo troviamo in fase di esaminazione. La legge richiedeva infatti all'aspirante avvocato il superamento di un esame teorico-pratico da svolgersi dinnanzi ad una commissione composta tanto da avvocati quanto magistrati; questo in quanto le due professioni collaborano e si integrano nel sistema dell'amministrazione della giustizia. Quanto al sesso non erano previste alcune restrizioni, tuttavia, gli ordini escludevano le donne. Per procuratori, inoltre, ai sensi dell'art. 41, fu reso obbligatorio il giuramento, da prestarsi in una pubblica udienza davanti al tribunale o alla corte d'appello. Un analogo obbligo non è previsto nella legge del 1874 per gli avvocati: anche questo è un elemento abbastanza significativo in quanto in realtà l'obbligo del giuramento rappresenta un elemento.
Richiesto sin dal medioevo e dall'età moderna; tuttavia la legge del 1874 ritiene di non accogliere questo requisito proprio per non sottolineare la subordinazione dell'avvocatura allo stato. Infatti, l'obbligo del giuramento sarà introdotto solo nel corso del fascismo proprio a sottolineare questa subordinazione.
Troviamo tracce di un altro elemento di ingerenza della magistratura in fase di iscrizione all'albo. Il consiglio deliberante, una volta verificati la sussistenza dei requisiti, era tenuto a comunicare l'iscrizione o il rigetto della domanda tanto all'interessato tanto al Pubblico Ministero. L'aspirante poteva presentare reclamo alla corte d'appello contro le delibere che respingono la domanda di iscrizione; mentre il PM poteva presentare reclamo contro le delibere che accolgono la domanda di iscrizione.
Nonostante il procedimento disciplinare sia promosso dal cliente o, ancora, dal PM davanti all'ordine di appartenenza,
la potestà disciplinare, ai sensi degli artt. 24 (per gli avvocati) e 50 (per i procuratori) era attribuita, rispettivamente, ai consigli degli ordini ed ai consigli di disciplina. Si ravvisa in ogni caso una certa ingerenza della magistratura: le decisioni del consiglio dell'ordine, infatti, potevano essere impugnate davanti alla corte d'appello o dall'incolpato o, in caso di violazione di legge, dal PM. L'autonomia degli avvocati che viene a costituirsi grazie all'istituzione degli ordini è ridotta: per legge sono previsti alcuni poteri della Magistratura nelle funzioni assegnate agli ordini. La situazione si aggrava ulteriormente nel quinquennio 1925-1930, durante il quale la legislazione fascista tentò di trasformare la figura dell'avvocato in interprete di una cultura che tenesse conto delle esigenze supreme della giustizia medesima, modificando profondamente l'ordinamento professionale. Le riforme chieste degli avvocati vengonoAccolte durante il Fascismo. In primoluogo, con la legge 25 marzo 1926, n. 453, viene istituito il consiglio superiore forense, composto da 32 avvocati, per metà nominati dal Ministro della Giustizia e per metà dagli ordini.
Inoltre, come già preannunciato, viene esteso agli avvocati l'obbligo di giuramento, che vincolava a svolgere con lealtà i doveri professionali per i fini superiori della giustizia e gli interessi superiori della nazione.
Tuttavia, il 6 maggio dello stesso anno i consigli dell'ordine e di disciplina vengono sciolti e sostituiti da commissioni reali straordinarie nominate dal ministro, le quali avevano il compito di provvedere alla revisione degli albi. La revisione degli albi viene disposta in quanto il RD 6 maggio 1926, n. 747 negava l'iscrizione agli albi a coloro che esercitassero una pubblica attività in contrasto con gli interessi della Nazione.
Il decreto, inoltre, sospende le elezioni per il consiglio superiore forense.
E losostituisce con la commissione reale superiore, composta da 15 membri nominati dal Ministro della giustizia. Inizialmente, una volta esaurito il compito di revisione degli albi, tali commissioni si scioglievano, ma, nel 1928, da straordinarie diventano definitive. Con lo stesso decreto, inoltre, i membri del consiglio superiore forense passano da 32 a 24, tutti di nomina governativa.
Nel 1933 si arriva alla definitiva soppressione degli ordini degli avvocati, i quali vengono sostituiti con i sindacati, ai quali vengono trasferiti i compiti di tenuta degli albi e di potestà disciplinare.
Questi provvedimenti e lo svolgimento del processo penale conciliano con la nuova concezione della professione forense: l'avvocato fascista è innanzitutto un ausiliario della giustizia.
Questa concezione si afferma nel 1935, quando il Duce definisce gli avvocati 'colonne del regime', assegnando loro la funzione, complementare a quella dei giudici, di collaboratori nella realizzazione degli obiettivi del regime.