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La cultura convergente e la digitalizzazione
È quella che Henry Jenkins chiama “cultura convergente”, un contesto in cui ogni tipo di contenuto viene digitalizzato e pubblicato su siti, piattaforme, social network, reti locali. Digitalizzare significa ricodificare l’informazione analogica in un codice numerico che, interpretato in seguito da un adeguato software, restituisce una rappresentazione più o meno fedele dell’oggetto. Il problema di questa fedeltà sta nel fatto che durante il processo di digitalizzazione avviene una inevitabile perdita di dati: l’oggetto viene infatti scomposto in tante piccole parti che verranno poi ricomposte nella sua rappresentazione.
Possiamo considerare questo strumento, la digitalizzazione, secondo un’accezione negativa. La trasposizione dal formato analogico a quello digitale del patrimonio culturale è stata uno dei fattori che avrebbero determinato la “liquefazione” della nostra società: è quanto afferma Zygmunt Bauman.
Secondo il sociologo polacco tutti i settori dell'esistenza, tra cui la cultura, sono ormai ridotti ad una condizione di estrema fluidità, di assenza di punti di riferimento e di precarietà. Un altro aspetto negativo analizzato dallo stesso Bauman è quello legato ad un fenomeno esploso nella nostra era post-modernista: il consumismo. Anche i prodotti culturali, oggi, sono mercificati: c'è una tendenza all'accumulo, una ricerca continua del nuovo che immediatamente stufa. Un frenetico tramestio di arte e artisti che, però, alla fine non lasciano segno alcuno nella storia del mondo. "La cultura di oggi è fatta di offerte, 1 professore presso la University of Southern California, Jenkins studia il fenomeno delle culture partecipative nell'ottica della New media Literacy, la capacità da parte di giovani e di adulti di acquisire le competenze necessarie per essere fruitori consapevoli e partecipanti attivi della cultura cheNasce nel contesto dei nuovi media. "Non di norme". E in effetti in questo contesto la digitalizzazione del patrimonio culturale spiana la strada agli "affamati del sapere", coloro che pretendono una certa quantità di informazioni in modo immediato e semplice per una finalità poco scientifica.
D'altro canto però le motivazioni che hanno portato alla digitalizzazione delle nostre opere d'arte, delle schede d'archivio, di testi e di fotografie sono ben altre. La volontà di condividere il proprio sapere; il piacere di conversare tra studiosi e ricercatori; la trasmissione ai posteri.
Secondo la Convenzione di Faro gli stati che hanno aderito all'accordo si impegnano a sviluppare l'utilizzo delle tecnologie digitali al fine di migliorare l'accesso al patrimonio culturale.
Moltissime sono ormai le biblioteche che hanno reso di pubblico accesso i loro cataloghi (OPAC) e, tramite abbonamenti, la fruizione dei documenti.
Proliferano in tutto il mondo tour virtuali attraverso i quali è possibile visitare i più grandi musei. In questo particolare periodo che ci vede costretti nelle nostre abitazioni grazie alle nuove tecnologie è possibile, ad esempio, fare un giro del Louvre o ammirare l'ultima mostra del Museo Egizio di Torino.
Ebbene, la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale è stata ed è un'operazione che alimenta tuttora il dibattito degli operatori del settore. Anche se ha reso il sapere "liquido", fruibile a tutti, incontenibile, il digitale ha in realtà un suo contenitore: il bit. E come tutti i contenitori analogici, quali tele, ardesia, marmi, pergamene, anche quelli digitali come il 2 Bauman Z., Per tutti i gusti. La cultura nell'età dei consumi, Roma-Bari, Laterza, 2016. 3 Accordo elaborato in sede di Consiglio Europeo nel 2005 ed entrato in vigore nel 2011, la Convenzione di Faro conta oggi venti nazioni firmatarie.
3bit hanno le sue fragilità: esiste infatti il degrado dei dati, il "bit rot". Dopo essere riusciti a conservare dipinti e manoscritti tramite la digitalizzazione, ora la sfida del nostro presente e futuro è quella di mantenere leggibili le informazioni conservate nei nostri contenitori digitali.
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