Le radici della sociologia visuale possono essere fatte risalire al periodo successivo
alla Rivoluzione industriale tra XVIII e XIX secolo, quando la modernità introduce
nuovi mezzi di comunicazione di massa come stampa, fotografia, cinema e radio.
Tuttavia, agli albori della sociologia accademica, le immagini vengono spesso
escluse dalla ricerca scientifica perché considerate soggettive, manipolabili e non
misurabili con strumenti statistici. Un contributo fondamentale arriva dalla Scuola di
Francoforte, fondata nel 1923, che inaugura una riflessione critica sui media e sulla
cultura di massa. In questo contesto si colloca anche la nascita della sociologia del
cinema, con l’opera di Kracauer (From Caligari to Hitler, 1947), considerata la prima
vera ricerca di sociologia del cinema. La sociologia visuale è un ambito disciplinare
della sociologia che studia i fenomeni sociali attraverso la dimensione visiva,
considerando le immagini sia come oggetti di analisi sia come strumenti di ricerca.
Essa parte dal presupposto che la realtà sociale non venga conosciuta e costruita
esclusivamente attraverso il linguaggio verbale , ma anche tramite immagini,
pratiche visive e dispositivi di visualizzazione che strutturano la vita quotidiana. Per
rispondere in modo più preciso alla domanda “che cos’è la sociologia visuale”,
bisogna richiamare la cornice teorica proposta da Grady, che individua tre aspetti
fondamentali: 1) Seeing: la vista è il senso privilegiato attraverso cui l’essere umano
conosce e interagisce con il mondo sociale.
2) Communicating with icons: il primato della vista si traduce nell’uso delle immagini
come mezzo di comunicazione, intenzionale o meno; qui la sociologia lavora sulle
immagini.
3)Doing sociology visually: riguarda il cuore metodologico della disciplina, cioè il fare
ricerca con le immagini, utilizzandole nella raccolta e nell’analisi dei dati. La
sociologia visuale assume particolare rilevanza nell’epoca della post-modernità, in
cui come sostiene Mitchell con la sua teoria dell’immagine il fenomeno visuale ha
progressivamente sopravanzato quello testuale. Sebbene l’essere umano abbia da
sempre attribuito alle immagini una funzione comunicativa, l’avvento delle tecnologie
moderne (fotografia, cinema, televisione, digitale) ha profondamente modificato il
rapporto tra immagine e realtà. In particolare, entra in crisi il legame diretto tra
immagine e referente reale, mettendo in discussione i concetti semiotici di icona e
indice. Emergono così le nozioni di realtà mediata e di visione come interpretazione:
vedere non significa più semplicemente constatare ciò che esiste, ma interpretare
una rappresentazione. Nell’“era della simulazione”, la costruzione sociale della realtà
da parte dei mass media non avviene solo per selezione, ma anche per creazione e
invenzione, minando l’assunto positivista “io vedo quindi esiste”. Come sottolinea
Mirzoeff, nella società dell’immagine gli individui costruiscono identità e significati a
partire da dimensioni visuali ambigue, instabili e spesso contraddittorie. Questo ha
reso necessario uno spostamento verso i visual cultural studies, che pongono al
centro la visione nella vita quotidiana e si interrogano non solo su cosa siano le
immagini, ma su cosa fanno le persone con le immagini. Si lavora alle immagini con
il concetto di visualizzazione. Visualizzare significa rendere visibile, ma anche
affermare un punto di vista, decidere cosa mostrare e cosa nascondere, rivelando un
legame profondo tra vedere e controllare. La sociologia visuale, presenta una
duplice natura. Da un lato, è un approccio conoscitivo e metodologico, che utilizza le
immagini nel processo di raccolta dei dati. In questo caso si parla di lavoro con le
immagini. Le fotografie o i video possono essere prodotti dal ricercatore o dai
soggetti stessi oppure usati come stimolo per ottenere informazioni ad es. le foto-
stimolo. In questa prospettiva, la sociologia visuale è considerata un concezione
forte, poiché consente di cogliere dimensioni soggettive, emotive e pre-riflessive
dell’esperienza sociale difficilmente accessibili con strumenti esclusivamente verbali.
Questa trova applicazione sia all’interno della sociologia (famiglia, lavoro, devianza)
sia in discipline affini come antropologia e psicologia. Dall’altro lato, la sociologia
visuale è anche una disciplina autonoma di analisi, che lavora sulle immagini già
esistenti. Qui l’attenzione si concentra: sui processi di visualizzazione, cioè su come
le immagini producono differenze, veicolano ideologie e costruiscono realtà in
specifici contesti storici e sociali;
sulle pratiche sociali basate sulla comunicazione visiva, analizzando l’impatto delle
tecnologie visuali sulle relazioni sociali, sull’attribuzione di significati e sulla
costruzione identitaria. In questo secondo caso, il lavoro sulle immagini è definito
come concezione debole, perché più esposto a sconfinamenti interdisciplinari.
Tuttavia, il dato iconico non può essere interpretato arbitrariamente la sua
connotazione deve emergere da un confronto intersoggettivo e dalla ricostruzione
del contesto di produzione e circolazione dell’immagine.
Che cosa si intende per “cinema di sicurezza nazionale”?
Il cinema di sicurezza nazionale è un concetto analitico che indica un insieme di
produzioni cinematografiche strettamente legate all’apparato di sicurezza, difesa e
politica militare di uno Stato, in particolare degli Stati Uniti. Dal punto di vista della
sociologia visuale, esso rappresenta un caso emblematico di come le immagini
cinematografiche possano diventare strumenti centrali nella costruzione del
consenso, attraverso meccanismi di propaganda più o meno esplicita. Il cinema di
sicurezza nazionale ha origine dalla necessità di costruire consenso attorno alla
guerra e alle politiche di sicurezza. I primi film giocano sull’aspetto fondamentale che
è quando le immagini diventano familiari, ripetute e riconoscibili, tendono ad
avvicinarsi al reale e a essere percepite come una rappresentazione naturale della
realtà. In questo senso, il cinema non si limita a raccontare la guerra o la sicurezza
nazionale, ma contribuisce attivamente a definirne il significato sociale. Nel corso
delle grandi guerre del Novecento, il cinema ha cercato in vari modi di dare
un’immagine della guerra, selezionando cosa mostrare e cosa invece lasciare fuori
campo. Il cinema di guerra classico, ad esempio, tende spesso a rappresentare gli
aspetti più eroici, spettacolari e prestigiosi del conflitto, minimizzando o occultando la
crudeltà, il dolore e la sofferenza individuale. Un esempio emblematico è Salvate il
soldato Ryan, che pur mostrando scene di forte realismo bellico, mantiene una
struttura narrativa fondata sull’eroismo, sul sacrificio e sulla legittimità morale
dell’azione militare. Accanto al cinema di guerra tradizionale, si sviluppa un cinema
specificamente orientato alla sicurezza nazionale, che non si concentra solo sul
campo di battaglia, ma affronta tematiche come lo spionaggio, il terrorismo, la
minaccia interna ed esterna, la difesa dei confini e l’ordine globale. In questi film, la
sicurezza del Paese diventa il fulcro narrativo attorno a cui ruotano personaggi,
conflitti e soluzioni. Un elemento centrale del cinema di sicurezza nazionale è la
collaborazione strutturata tra lo Stato e i grandi studios cinematografici. Questa
alleanza si consolida soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, quando il
cinema viene riconosciuto come uno strumento fondamentale di propaganda e
mobilitazione. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla serie di documentari
Why We Fight, realizzati da Frank Capra su incarico del segretario alla Difesa degli
Stati Uniti, George Marshall. Questi film avevano l’obiettivo dichiarato di spiegare e
al tempo stesso convincere i giovani americani del perché fosse necessario
combattere. Attraverso una narrazione semplice, dicotomica e fortemente emotiva, i
documentari costruivano una netta opposizione tra “noi” e “loro”, tra democrazia e
barbarie, rendendo la guerra non solo inevitabile, ma moralmente giusta.
L’integrazione dell’esercito e dell’immagine bellica nel cinema rispondeva dunque
all’esigenza di migliorare l’immagine delle forze armate e di conferire prestigio ai
conflitti. L’accesso a mezzi militari, consulenze tecniche e supporto logistico veniva
concesso in cambio di una rappresentazione positiva e legittimante dell’apparato
militare. In questo modo, il cinema contribuiva a costruire una vera e propria fabbrica
del consenso, in cui le immagini svolgevano un ruolo essenziale. Con la fine della
Seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda, Negli Stati Uniti si consolida
una collaborazione sistematica tra Hollywood e l’apparato di sicurezza nazionale,
che coinvolge esercito, marina, aviazione e, in seguito, servizi di intelligence. Tale
collaborazione in cambio dell’accesso a mezzi, consulenze tecniche e location
militari, le produzioni cinematografiche accettano di modellare le narrazioni in modo
da presentare le forze armate come competenti, morali e necessarie. Questo
sistema può essere definito una vera e propria fabbrica del consenso, che funziona
attraverso diversi meccanismi strutturali:la concentrazione economica e il peso
finanziario delle grandi imprese mediatiche; il ruolo centrale della pubblicità come
principale fonte di finanziamento;
l’uso privilegiato di fonti ufficiali governative e militari come garanti di verità; la
possibilità di esercitare pressioni e critiche per disciplinare contenuti non conformi; la
costruzione di un nemico ideologico prima il comunismo, poi il terrorismo globale.
Quali argomenti affrontano i film L’odio e I miserabili ?
I film L’odio di Mathieu Kassovitz e I miserabili di Ladj Ly affrontano una serie di temi
centrali della sociologia urbana e della sociologia visuale, concentrandosi in
particolare sulle periferie francesi (banlieue), sui conflitti sociali e sulle relazioni di
potere che attraversano questi spazi. Pur realizzati a distanza di oltre vent’anni l’uno
dall’altro, i due film possono essere letti come parti di un unico discorso sociologico e
visivo sulla crisi dell’integrazione, sulla violenza strutturale e sull’assenza di dialogo
tra istituzioni e cittadini. Entrambi i film pongono al centro della narrazione le
banlieue parigine, rappresentate non solo come luoghi fisici, ma come spazi sociali
stigmatizzati, segnati da marginalità economica, segregazione urbana e isolamento
simbolico rispetto al centro della città. La periferia diventa un territor
-
Domande frequenti Sociologia del mutamento
-
Risposte alle domande d’esame di Sociologia generale
-
Domande sociologia
-
domande economia