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DECOSTRUIRE L’UTOPIA: LA DISTOPIA
Nella società rinascimentale del XVI secolo Thomas More (in completa opposizione al forte realismo di
Machiavelli) con la sua opera pubblicata nel 1516 ed intitolata appunto “Utopia”, si dedica alla descrizione
di un’isola felice e perfetta, una sorta di luogo ideale ed alternativo all’Inghilterra del suo tempo (dal greco u-
topos, ovvero che non esiste in nessun luogo), così come Tommaso Campanella nel 1602 descriveva “La
città del sole”, la città ideale, di stampo platonico, in cui non esisteva né la proprietà privata, né la famiglia.
L’utopia di More, la Città di Campanella, così come la Repubblica di Platone, non avranno mai una loro
corrispondenza nella realtà, non saranno mai realizzabili da nessun punto di vista, ma fungono come sorta di
speranza per l’uomo del tempo.
I primi cedimenti del pensiero utopico si ebbero già nell’Ottocento, i poeti decadenti come Baudelaire,
parlavano di un destino condizionato dall’esistenza del peccato originale, ogni utopia veniva quindi
condannata al fallimento, poiché non vi era la speranza in alcun tipo di felicità; pensatori come Voltaire
criticavano il pensiero di felicità , ed affermava, attraverso il personaggio di Candido: “Limitiamoci a
coltivare il nostro giardino”.
Un esempio di utopia realizzata fu la repubblica dispotica di Cromwell. Secondo una lettura kantiana
dobbiamo distinguere una “forma regiminis” (come si governa: repubblica/dispotismo) da una “forma
imperii” (chi detiene il potere: democrazia/oligarchia). La repubblica di Cromwell non è dunque in realtà di
stampo repubblicano, ogni tentativo di realizzare l’utopia, la società perfetta, passa da un’euforia iniziale ad
un terribile dispotismo. Kant critica il modello rivoluzionario: un violento sovvertimento del sistema doveva
portare per forza ad un regime dispotico. Inoltre realizzare l’utopia è mettere in discussione l’utopia stessa.
L’atteggiamento anti-utopistico di Kant può avere relazione con l’epistemologia di Popper.
Il tema del tramonto dell’utopia è affrontato invece da Marcuse. Per lui l’utopia rappresentava un concetto
storico, un progetto di trasformazione sociale impossibile da realizzare nell’epoca in cui è descritto, poiché i
fattori oggettivi e soggettivi che vanno verso una determinata trasformazione sociale o non sono presenti o
sono ingabbiati in una struttura sociale che la ostacola, e sono all’interno di un processo di rivoluzione. Le
trasformazioni possono avvenire soltanto con sovvertimento antropologico dei soggetti.
E’ nel Novecento invece che prende forma il genere della distopia, che prende piede nell’ambiente letterario,
cinematografico, fantascientifico e nasce da un senso insostenibile di precarietà, da un impoverimento
dell’uomo a causa delle manipolazioni totalitariste, e si nutre di una paura specifica, la paura della politica
come male di vivere.
Il termine “distopia” viene coniato nel 1868 da John Stuart Mill, per indicare un sistema politico e sociale
chiaramente opposto a quello utopico, dunque in una concezione totalmente negativa. La storiografia si
trovava di fronte ad una domanda fondamentale: la distopia è la decostruzione, l’opposto dell’utopia oppure i
due generi rappresentano in realtà la medesima cosa? Fino agli anni '80 vi erano studiosi che appoggiavano
l’una o l’altra opzione.
Tra coloro che operavano una netta distinzione tra i due generi, spesso non menzionando nemmeno il mondo
distopico vi era Marcuse. A sostegno della tesi sull’identità tra le due parti vi erano per esempio Popper o
Dahrendorf, ma anche gli intellettuali del marxismo, che nei loro saggi contro l’utopia, definiscono
quest’ultima un inganno storico, una distopia.
E’ importante dunque notare come fino al Seicento l’utopia indicasse qualcosa di felice e perfetto, mentre
dal Settecento fino al Novecento, con la Rivoluzione russa e l’esperienza dei totalitarismi, l’aggettivo
utopico sia andato a definire un qualcosa di dannoso e velenoso, identificandosi con il distopico.
Differenza fondamentale però tra le due che entrambe sono prodotti dell’immaginazione, ma hanno modi
differenti di declinare speranza e paura. Fin dall’utopia di Thomas More non viene mai menzionata la paura,
anche il trapasso dalla vita alla morte è piacevole, l’uomo è provato di tutto il dolore e degli aspetti terribili
della vita come le malattie.
Con la modernità però possono essere individuati tre motivi ispiratori della paura:
La paura dell’utopia stessa (Huxley diceva che bisognava evitare che l’utopia si realizzasse, che
bisognava cercare un correttivo al perfezionismo ideale);
La paura contro un’utopia specifica (nascono quindi libri anti-utopici, sono in realtà distopie perché
descrivono un mondo malvagio e in quanto scritte in chiave di polemica contro una ben precisa
realtà utopica;
La paura contro il male sociale, politico, ambientale (capitalismo, sovrappopolazione, totalitarismi,
disastri ecologici, falsificazione storica, manipolazione delle menti, violenza e controllo)