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Le Sezioni Unite rilevano, pertanto, la stretta connessione della questione della usucapibilità
dell’azienda con quella, più generale, della natura giuridica di essa; questione, quest’ultima,
oggetto di un dibattito dottrinale che si protrae da svariati anni e che non è ancora sfociato in una
soluzione unanimemente condivisa da studiosi e interpreti.
Il codice civile del 1942 ha introdotto nell’ordinamento una disciplina dell’azienda e ha dato, per la
prima volta, anche una definizione di essa: in particolare, l’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come il
complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
Dalla definizione codicistica di azienda emerge la qualificazione dei “beni” come requisito
strumentale all’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Come rilevato in dottrina, i “beni” che compongono l’azienda possono essere di diversa natura e,
principalmente, materiali ( denaro, merci, beni mobili e immobili) e immateriali ( ditta, insegna,
marchi, brevetti). Può, inoltre, trattarsi di beni di cui l’imprenditore è direttamente proprietario o
che sono, invece, nella sua disponibilità in virtù di altro titolo; ciò che li contraddistingue è l’essere
tutti avvinti dalla loro utilizzazione unitaria e coordinata ai fini dell’esercizio dell’attività
economica imprenditoriale .
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1 G.U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Tratt. dir. priv. Rescigno, XVIII, Torino, 1983, p.10
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E’, pertanto, l’organizzazione che garantisce il mantenimento della destinazione unitaria anche tra
beni di diversa natura, ed anche qualora uno di essi venga a mancare o venga sostituito; in altri
termini, è l’organizzazione che trasforma un insieme di beni in un collegamento di beni, cioè in un
complesso di beni complementari, che soddisfano nel loro insieme un bisogno diverso da quello che
potrebbero soddisfare separatamente, cioè il bisogno di produzione .
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Se quanto finora detto è ciò che è dato ricavare dalla definizione codicistica di azienda, occorre,
tuttavia, precisare che sull’esatta qualificazione della natura giuridica dell’azienda varie e, in
contrasto tra loro, sono state le soluzioni prospettate da studiosi ed interpreti.
A tal proposito, l’interrogativo, che è stato oggetto di risposte differenziate e che ha dato luogo al
diffondersi di una pluralità di definizioni giuridiche di azienda, è stato principalmente quello
inerente la configurabilità o meno dell’azienda come bene autonomo, distinto dalle sue
componenti.
I sostenitori della tesi cd. unitaria danno risposta positiva al quesito: varie sono, tuttavia, anche
all’interno degli esponenti di tale tesi, le definizioni di azienda formulate.
Vi è, in particolare, chi parla di azienda come di una universitas rerum; chi la definisce come
universitas jurium e chi come universitas juris. Altri esponenti della tesi cd. unitaria hanno, invece,
qualificato l’azienda come bene immateriale, consistente nell’organizzazione, che assurge a bene
nuovo e diverso da quelli costituenti il complesso aziendale, i quali diverrebbero ad essa accessori;
ancora, altri studiosi, sempre aderenti alla tesi citata, hanno definito l’azienda come cosa composta.
Secondo taluni della tesi cd. unitaria, invece, l’azienda sarebbe sì una universalità di beni, ma di
genere diverso e più ampio rispetto alla universalità di beni mobili espressamente disciplinata
dall’art. 816 c.c.: si tratterebbe, in particolare, di una “universalità mista”, come tale non soggetta ai
requisiti previsti dalla norma citata e, in particolare, a quello della necessaria natura mobiliare dei
beni che la compongono e alla disponibilità di essa a titolo di proprietà.
Denominatore comune delle diverse definizioni appena citate è la considerazione del complesso
aziendale come bene unitario, oggetto di diritti in via autonoma rispetto ai singoli beni che la
compongono.
2 G. Auletta, Azienda, in Comm. c.c. Scialoja e Branca, XVI, Bologna-Roma, 1947, p.1
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I sostenitori della tesi cd. unitaria affermano la ragionevolezza dei loro assunti facendo riferimento
ad una serie di dati normativi ritenuti idonei a confermarli: in primo luogo, il disposto letterale
dell’art. 2555 c.c. che considera l’azienda come “complesso di beni”; in secondo luogo, l’art. 670
c.p.c. che, ai fini del sequestro giudiziario, sembra equiparare l’azienda ad una universalità di beni
mobili ex art. 816 c.c… Si fa, inoltre, leva su quelle disposizioni codicistiche che, facendo
riferimento ai concetti di usufrutto dell’azienda ( art. 2561 c.c. ), di proprietà del complesso
aziendale ( art. 2556 c.c. ), nonché di tutela unitaria dell’azienda dagli atti di concorrenza sleale (art.
2598 n.3 c.c.), confermerebbero l’esattezza della tesi consistente nella qualificazione dell’azienda
come bene unitario, suscettibile di costituire autonomo oggetto di diritti.
Alla considerazione, propria della tesi cd. unitaria, dell’azienda come autonomo bene giuridico,
consegue la prospettazione della stessa quale bene usucapibile, poiché, in quanto bene, essa
sarebbe idonea a costituire oggetto di diritti ex art. 810 c.c.
Se vi è accordo, nell’ambito della tesi cd. unitaria, in ordine all’ammissibilità dell’applicazione
dell’istituto dell’usucapione all’azienda, si registrano, invece, all’interno della medesima, posizioni
differenziate in merito alla specifica tipologia di normativa applicabile.
A contendersi il campo sono principalmente due tesi: quella dell’applicazione dell’art. 1160 c.c.,
riferito alle universalità di mobili, in base al quale l’usucapione si verificherebbe col possesso
continuo ed ininterrotto della cosa protrattosi per venti anni, e quella che ritiene, invece, applicabile
nel caso di imprese commerciali, soggette a registrazione, l’art. 1162 c.c. , relativo a beni mobili
registrati, che disciplina l’usucapione triennale.
Su posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle su cui si attestano i sostenitori della tesi cd.
unitaria, si collocano gli esponenti della teoria cd. atomista: secondo quest’ultimi, infatti, l’azienda
andrebbe considerata come una semplice pluralità di beni, funzionalmente collegati in vista
dell’esercizio dell’impresa. Ne deriverebbe che l’imprenditore potrebbe essere ritenuto sì titolare di
una somma di diritti distinti sui singoli beni che compongono l’azienda, ma non di un diritto
autonomo sul complesso aziendale unitariamente considerato.
Gli atomisti criticano, in particolare, la tesi unitaria nella parte in cui perviene a qualificare
l’azienda come universalità di beni: si fa notare come una qualificazione in termini siffatti sarebbe
impedita, in primis, dall’eterogeneità dei beni che tradizionalmente compongono l’azienda e, in
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particolare, dalla possibilità dell’appartenenza degli stessi anche alla categoria dei beni immobili, e,
in secundis, dalla non necessaria appartenenza degli stessi beni ad una stessa persona. Tali
connotazioni caratteristiche dell’azienda determinerebbero l’impossibilità di accostare la disciplina
dell’azienda a quella dettata dall’art. 816 c.c con riferimento, testuale, alle universalità di beni
mobili; si rileva, inoltre, come non sarebbe consentito ammettere la creazione di concetti di
universitas non codificati ( cfr. la cd. “universalità mista” cui ci siamo riferiti poco sopra), in quanto
privi di reale significato giuridico e di ogni riferimento normativo.
I sostenitori della tesi cd. atomista, pur ammettendo il possesso e, quindi, l’usucapione dei singoli
beni che compongono l’azienda, rigettano la teoria dell’usucapibilità del complesso aziendale
considerato come tale, sul presupposto dell’impossibilità di configurare il possesso sull’azienda.
Si sostiene, infatti, che la relazione di fatto che lega l’imprenditore all’azienda potrebbe, al più,
produrre l’acquisto per usucapione dei soli beni singolarmente considerati, nella decorrenza
temporale legislativamente prevista in relazione alla natura di ogni singolo bene.
1.3 La soluzione delle Sezioni Unite
Venendo all’esame del ragionamento logico-giuridico seguito dalle Sezioni Unite della Suprema
Corte per giungere alla soluzione del caso di specie, occorre rilevare come essa affermi di non
ritenere elemento decisivo e dirimente ai fini della considerazione dell’azienda come cosa
suscettibile, o meno, di possesso e, quindi, usucapibile, la qualificazione della stessa come bene
unitario ( sia che questo avvenga definendola in termini di cosa immateriale, che di universalità di
beni, secondo le diverse “sub-teorie” in cui, come sì è visto, si è andata articolando la tesi cd.
unitaria).
Gli Ermellini ritengono, piuttosto, fondamentale, ai fini della risoluzione della questione, constatare
come l’elemento dell’organizzazione, conferendo unità economica ai beni che compongono
l’azienda, permetterebbe di considerare gli stessi come complesso unitario.
Le Sezioni Unite affermano, altresì, che, pur non essendo l’organizzazione, di per sé, altro che
un’attività qualificata in senso finalistico ( poiché rivolta all’esercizio dell’impresa) e, come tale,
insuscettibile di possesso, essa sarebbe, comunque, idonea ad assumere una connatazione
oggettivata, indipendente dal collegamento con l’impresa, tale da renderla qualificabile come
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“cosa” : da ciò deriverebbe la possibilità di considerare l’azienda come oggetto di negozi giuridici
e diritti.
A parere della Suprema Corte, pertanto, l’unità economica impressa all’azienda
dall’organizzazione, renderebbe possibile la configurazione unitaria dell’azienda medesima anche
dal punto di vista giuridico.
Da ciò, gli Ermellini fanno derivare la seguente conseguenza: alla disciplina dell’azienda sono
applicabili tutte quelle soluzioni unitarie che non siano escluse da previsioni che dispongano,
espressamente, in senso contrario. Ai fini della risoluzione del caso di specie, la Suprema Corte
verifica, pertanto, che non vi siano disposizioni codicistiche ostative alla configurabilità di un
possesso dell’azienda, strumentale all’usucapione della stessa: i giudici di legittimità rilevano che
disposizioni di tal fatta non si rinvengono nel codice e che, anzi, il possesso dell’azienda risulta
essere un elemento supposto da diverse norme. Il riferimento è, segnatamente, agli artt. 2556 c