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Come in precedenza precisato, la Legge.n.222/1985, accanto alla forma di finanziamento diretto
finora esaminato, ha previsto un secondo tipo di finanziamento: quest’ultimo non comporta un
flusso di denaro diretto dallo Stato alle confessioni, ma piuttosto una rinuncia dello Stato a
percepire una parte dell’imposta sul reddito dei cittadini: si tratta, dunque, di un finanziamento
indiretto o privato. Esso si realizza per mezzo di erogazioni liberali in denaro dalle persone fisiche a
favore di enti specificamente individuati dalle confessioni religiose: le erogazioni costituiscono
oneri deducibili dal reddito complessivo in sede di dichiarazione ai fini dell’imposta sul reddito
( IRE, già IRPEF), fino al limite generalizzato di 1.032,91 Euro. Le erogazioni liberali suddette
sono anche deducibili dal reddito d’impresa ai fini dell’imposta sul reddito delle società ( IRES, già
IRPEG), per un ammontare complessivamente non superiore al 2 % del reddito d’impresa
dichiarato.
Anche in questo caso, come avvenuto per il flusso finanziario pubblico, il sistema è stato
inizialmente varato a favore della Chiesa cattolica ( art. 46 L.n.222/1985) prevedendo la
deducibilità della somma versata dalle persone fisiche all’Istituto centrale per il sostentamento del
clero. Successivamente , tuttavia, norme analoghe sono state previste dalle leggi di approvazione
delle Intese con le altre confessioni. Per quanto riguarda, invece, le confessioni religiose prive di
Intesa, non è stata, a oggi, prevista alcuna norma che consentisse una analoga deduzione dal reddito
ai fini dell’IRPEF delle erogazioni liberali. E’ stata, infatti, sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 10, 1° comma, del d.p.r.n.917 del 1986 ( Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi) nella parte in cui riserva tale deducibilità alle sole confessioni che abbiano
stipulato un’Intesa con lo Stato, per violazione degli artt. 2, 3, 8, 19 e 53 Costituzione. La Corte
Costituzionale ( sentenza n.178/1996) ha, tuttavia, dichiarato inammissibile la questione per la
mancanza di un modello univoco ( sia quanto alle finalità, sia quanto alla natura dell’elargizione e
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al destinatario della stessa, sia quanto alla misura della deducibilità) estensibile, tramite pronuncia
additiva, a ogni confessione senza Intesa.
Altro profilo in cui evidente emerge il trattamento deteriore delle confessioni religiose senza Intesa,
è quello dell’edilizia di culto. La disponibilità, per i fedeli di tutte le confessioni, di edifici deputati
al culto è espressione di una delle facoltà costitutive della libertà religiosa individuale e collettiva,
vale a dire l’esercizio del culto, garantito dalla Costituzione a tutti i cittadini, stranieri e apolidi,
senza distinzione di religione ( art. 19 Cost., in combinato disposto con gli artt. 3 e 8 Cost.). La
riconduzione dell’edilizia di culto all’alveo della libertà religiosa è dato acquisito e indiscusso nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale che, da lungo tempo, ha ritenuto condizione essenziale
del pubblico esercizio del culto “l’apertura di templi e oratori” ( Corte Cost. n.59 del 1958). I
giudici costituzionali hanno, in particolare, affermato che la realizzazione dei “servizi religiosi”
consente di “rendere concretamente possibile, e comunque di facilitare, le attività di culto, che
rappresentano un’estrinsecazione del diritto fondamentale e inviolabile della libertà religiosa
espressamente enunciato nell’art. 19 della Costituzione ( Corte Cost. n. 195 del 1993 e n.346 del
2002 su cui vd. amplius infra).
La materia della costruzione e manutenzione degli edifici di culto è compresa nel “governo del
territorio” ( Corte cost. n.196 del 2004, in materia di edilizia e urbanistica) e, in forza del 3° comma
dell’art. 117 Cost. novellato, è di competenza concorrente tra Stato e Regioni: spetta, pertanto, a
queste ultime la potestà legislativa, mentre allo Stato è riservata la determinazione dei principi
fondamentali in materia.
Ad oggi, tuttavia, manca una legge statale contenente i principi fondamentali della materia tant’è
che sono stati i legislatori regionali a predisporre le soluzioni normative concernenti sia i soggetti
beneficiari delle aree destinate alla costruzione degli edifici di culto e/o dei contributi finanziari per
la loro realizzazione a carico di comuni e regioni, sia le opere che devono ritenersi incluse tra i
servizi religiosi. Ne è derivato un panorama di soluzioni legislative assai variegato: si rileva,
tuttavia, che molte regioni hanno limitato il novero dei beneficiari alla Chiesa cattolica e alle
confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato sono regolati da un’Intesa ex art. 8 Cost.
Giova, a tal proposito, fare riferimento all’articolo 1 della L.reg. Lombardia n. 20 del 1992 ( Norme
per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzatture destinati a servizi religiosi) che indicava
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come finalità della medesima legge la promozione della “realizzazione di attrezzature di interesse
comune destinati a servizi religiosi, da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in
materia di culto della Chiesa cattolica, e delle altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato
siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione e che abbiano già una
presenza organizzata nell’ambito dei comuni ove potranno essere realizzati gli interventi”.
Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 per contrasto con gli artt.8, primo comma, e 19 Cost., nella parte in cui
condiziona la corresponsione dei contributi per la realizzazione di attrezzature destinate a servizi
religiosi all’intervenuta stipulazione dell’Intesa ex art. 8, terzo comma, Cost., tra lo Stato e la
confessione religiosa. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 346/2002, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge regionale lombarda limitatamente alle parole
“i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione”,
richiamando, peraltro, la sua precedente pronuncia n.195/1993 in cui ha dichiarato l’illegittimità
(parziale) dell’art. 1 della legge regionale dell’Abruzzo n. 29 del 16 marzo del 1988 (“Disciplina
urbanistica dei servizi religiosi”) nella parte in cui tale disposizione limitava il diritto all’erogazione
dei contributi in essa previsti esclusivamente alla Chiesa cattolica e alle confessioni diverse dalla
cattolica i cui rapporti con lo Stato fossero regolati sulla base di Intese, ai sensi dell’art.8 comma 3
Cost. Secondo la Corte, infatti, limitare l’accesso a benefici previsti da norme interne ( in questo
caso leggi regionali) alle confessioni che hanno stipulato un’Intesa con lo Stato, cui è stata data
applicazione con legge, rappresenta un’irragionevole discriminazione a danno di tutte le confessioni
senza Intesa censurabile per contrasto con gli artt. 3 e 8, primo comma, della Costituzione. Le
Intese, affermano i giudici costituzionali, sono “lo strumento previsto (…) per la regolazione dei
rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti che si collegano alle specificità delle
singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere,
invece, una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di
organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art.8, né per
usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose”. Inoltre, posto che, nella fattispecie
concreta, i contributi avevano lo scopo di promuovere la realizzazione di edifici destinati a servizi
religiosi, essi incidevano “positivamente proprio sull’esercizio in concreto del diritto fondamentale
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e inviolabile della libertà religiosa e in particolare sul diritto di professare la propria fede religiosa”
e di “esercitarne in privato o in pubblico il culto”: ne consegue che “qualsiasi discriminazione in
danno dell’una o dell’altra fede religiosa è costituzionalmente inammissibile in quanto contrasta con
il diritto di libertà e il principio di uguaglianza” (Corte cost. n.195/1993).
La Regione Lombardia ha provveduto ad adeguarsi alla pronuncia n.346 del 2002 attraverso la
nuova disciplina contenuta nel capo III (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di
attrezzature destinate a servizi religiosi, artt. 70-73) della L.reg. n.12/2005 (“Legge per il governo
del territorio”) con esiti che non sembrano del tutto soddisfacenti. In particolare, l’art. 70 di detta
normativa promuove la realizzazione degli edifici di culto e delle attrezzature “religiose” della
Chiesa cattolica (art. 70.1) e degli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base
a criteri desumibili dall’ordinamento e aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito
del comune ove siano effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo, e i cui statuti esprimano
il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il
comune e le confessioni interessate” ( art. 70.2). La nuova legge, dunque, conformandosi alla
sentenza della Corte, ha espunto la necessità della previa stipula dell’Intesa con lo Stato dall’elenco
dei requisiti richiesti alle confessioni per essere destinatarie delle aree edificabili e dei contributi
pubblici, ma ha riservato ai comuni una serie di accertamenti discrezionali. Ogni comune, infatti, ha
il compito di stabilire se una confessione sia diffusa, organizzata e stabile, e se gli statuti esprimano
il carattere religioso delle sue finalità istituzionali; da ultimo, ha riservato di decidere se e a quali
condizioni stipulare una necessaria previa “convenzione” con la confessione religiosa. I margini di
discrezionalità in capo alle competenti autorità comunali, dunque, sono molti ampi perché manca
qualunque parametro normativo che conformi il potere della P.A.: queste si trovano, di fatto, già in
questa prima fase di “abilitazione” all’istanza a essere arbitre del buon esito o meno della richiesta
della confessione, diversa dalla cattolica, di avere la disponibilità di un luogo deputato al culto.
Occorre, altresì, precisare, che nonostante la presa di posizione della Consulta, avvenuta prima nel
1993 e poi nel 2002, tesa a escludere la legittimità della subordinazione della concessione di aree
edificabili e di contributi per la costruzione di edifici di culto alla stipulazione di Intese e