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Hobbes, cioè non ha mai considerato la guerra come un disvalore assoluto e la pace come un valore
assoluto.
Nel corso del pensiero politico degli ultimi secoli, si sono sviluppate due tendenze: a) la tendenza
secondo cui non tutte le guerre sono ingiuste e, correlativamente, non tutte le paci sono giuste,
ragion per cui la guerra non è sempre un disvalore, e la pace non è sempre un valore; b) la tendenza
secondo cui tanto la guerra quanto la pace non sono valori assoluti o intrinseci ma relativi o
estrinseci, per cui una guerra può essere buona se il fine cui tende è buono, e la pace è buona solo
quando il risultato che ne scaturisce è buono.
Vi sono due modi per giustificare la guerra: come risposta a una violazione del diritto stabilito, onde
una guerra giusta per eccellenza è la guerra di difesa e ingiusta quella di aggressione; oppure come
instaurazione di un diritto nuovo contro il vecchio diventato ingiusto, come atto creativo di diritto,
onde guerra giusta per eccellenza è la guerra rivoluzionaria o di liberazione nazionale. Allo stesso
modo che la guerra possa essere giusta, così la pace può essere ingiusta. Il principio in base al quale
si può distinguere una pace giusta da una pace ingiusta è quello stesso che vale per la legittima
difesa, alla quale si richiede che sia proporzionata all’offesa: è il principio che ispira la giustizia
penale, secondo cui vi deve essere proporzione fra delitto e castigo. Ingiusta sarà dunque la pace
che impone ai vinti un castigo. In concreto è difficile stabilire quando una guerra è giusta e quando
una pace è ingiusta, a causa della mancanza di un giudice imparziale. Ogni gruppo politico tende a
considerare giusta la guerra che egli fa e ingiusta la pace che subisce. Quanto poi al tribunale della
storia, il suo criterio di giudizio non è la giustizia o l’ingiustizia, ma il successo.
La seconda tendenza che si allontana dal modello hobbesiano è quella secondo cui la guerra è un
male assoluto e la pace un bene assoluto, considerando guerra e pace come valori strumentali, per
cui se il valore di mezzo dipende dal valore del fine, valgono i due principi “il fine buono giustifica
anche il mezzo cattivo”, “il fine cattivo ingiustifica anche il mezzo buono”. Sono quelle che
considerano la guerra come male necessario e la pace come bene insufficiente. La teoria della
guerra come male necessario è connessa alle teorie del progresso, secondo le quali il progresso
dell’umanità passa o è passato anche attraverso la guerra. La guerra è necessaria al progresso
morale dell’umanità, nel senso che sviluppa energie che in tempo di pace non hanno la possibilità di
manifestarsi, e induce gli uomini all’esercizio di virtù sublimi, quali il coraggio eroico, il sacrificio
di sé per un’idea, l’amor di patria, senza le quali nessun gruppo sociale sarebbe in grado di
sopravvivere; la guerra è necessaria al progresso sociale dell’umanità, perché rende possibile
l’unificazione del genere umano; la guerra è necessaria al progresso tecnico perché l’intelligenza
creatrice dell’uomo risponde con maggior vigore.
L’altra faccia della concezione della guerra come male necessario è la concezione della pace come
bene insufficiente, il che vuol dire che la pace non è in grado da sola di assicurare una vita sociale
perfetta. La pace è considerata di solito come una condizione per la realizzazione di altri valori
come la giustizia, la libertà, il benessere. Si può dire della pace, come del resto si dice del diritto, in
quanto è la tecnica sociale indirizzata alla realizzazione della pace, che essa evita il massimo dei
mali (la morte violenta), ma non persegue il massimo dei beni. Il bene che la pace tutela è il bene
della vita. Ma la vita è il massimo dei beni? A parte il fatto che non esiste in assoluto il massimo dei
beni. Resta da dire che nella visione globale della storia, la pace finisce per essere un valore in
ultima istanza superiore alla guerra. Mentre la pace può essere considerata come un ideale cui
l’umanità deve tendere, la guerra non può essere considerata se non un mezzo per raggiungere un
certo ideale. «di «soddisfazione».
Aron distingue tre tipi di pace, che chiama potenza», d’«impotenza» e di La
«equilibrio»,
pace di potenza viene suddivisa a sua volta in tre sottospecie, che sono la pace di di
«egemonia», «impero»,
e di secondo ché i gruppi politici siano in rapporto o di eguaglianza o di
diseguaglianza fondata sulla preponderanza dell’uno sugli altri o su un vero e proprio dominio. La
pace d’impotenza sarebbe un evento nuovo che regna fra unità politiche di cui ciascuna ha la
capacità di infliggere all’altra colpi mortali. La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo
di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati
sulla fiducia reciproca. Fra le paci di potenza ne mancano almeno due, cioè la pace di sterminio, che
è qualche cosa di più risolutivo che la pace di impero, e la pace federale o confederale, che è
qualcosa di più vincolante che la pace di equilibrio ed è anche ben diversa dalla pace d’impero,
perché il superamento della pluralità di enti in possibile conflitto avviene non sulla base della
forma, ma in base ad un accordo. L’equilibrio del terrore non è che la forma estrema della pace di
equilibrio. Là dove il timore è reciproco, come accade sia nella pace di equilibrio in senso
tradizionale, sia nella pace fondata sull’equilibrio del terrore, il rapporto fra gli stati è insieme di
potenza e d’impotenza in quanto che ciascuno è potente nella misura in cui l’altro è impotente e
viceversa.
Il concetto di pace di soddisfazione può essere utilmente adoperato per passare al discorso sul
pacifismo. Per pacifismo s’intende ogni teoria che considera una pace durevole, universale, come
bene altamente desiderabile, tanto desiderabile che ogni sforzo per raggiungerla è considerato
degno di essere perseguito. La pace cui mira il pacifista non può essere altro che una pace di
soddisfazione, cioè una pace che è il risultato di un’accettazione consapevole, quale soltanto può
essere la pace che viene istituita fra parti che non hanno più rivendicazioni reciproche da avanzare.
Questa pace tende ad essere universale, tende cioè ad abbracciare tutti gli stati esistenti.
Il pacifismo tende all’eliminazione di ogni forma di guerra, considerata, nella più benevola delle
ipotesi, la manifestazione di una fase superata della storia dell’umanità. Ogni forma di pacifismo è
caratterizzata dal considerare la guerra come male assoluto. Cioè non implica la valutazione della
pace come bene assoluto. I pacifisti in genere non ritengono affatto che la pace da sola serva a
risolvere tutti i problemi che travagliano l’umanità: ritengono in genere che la pace sia sì un bene
necessario ma non anche sufficiente, e tutt’al più sia un bene prioritario.
Opposto al pacifismo è il bellicismo. Non è però un’opposizione assoluta. Non vi è mai stato
fautore di guerre tanto radicale da considerare come meta altamente desiderabile per l’umanità la
guerra durevole e universale. Ciò che nega il bellicista è che sia desiderabile la pace durevole e
universale. Bellicista è colui che ritiene che in certe circostanze la guerra sia un bene e la pace un
male, e che comunque un mondo senza guerra sarebbe un mondo spiritualmente, moralmente,
materialmente, più povero.
Il pacifismo giuridico è caratterizzato dal concepire il processo di formazione di una stabile società
internazionale ad analogia del processo con cui si sarebbe formato – secondo il modello hobbesiano
– lo stato: processo caratterizzato dal passaggio dallo stato di natura, che è stato di guerra, alla
società civile, che è stato di pace, attraverso il patto di unione.
Il progetto kantiano è semplicemente confederale, con l’aggiunta di una clausola preliminare: che
nessuno degli stati fra cui si dovrà stabilire il patto di unione sia retto da un regime dispotico.
Sono almeno tre le filosofie della storia che hanno ispirato la maggior parte dei movimenti pacifisti
del secolo scorso: quella illuministica, quella positivistica e quella marxista. Hegel e Nietzsche sono
invece considerati da Bobbio tra i sostenitori della teoria secondo la quale la guerra serve al
progresso morale dei popoli. Tra i filosofi illuministi prevale l’idea che la causa principale della
guerra sia il dispotismo e che pertanto anche la guerra dipenda prevalentemente dalla natura del
regime politico. Questo concetto ha influenzato molto il pacifismo ottocentesco, a cominciare da
Kant, il quale, come si è detto, considera come condizione preliminare per l’instaurazione di un
patto confederale fra stati sovrani che gli stati contraenti siano retti a regime repubblicano. Rispetto
al pacifismo giuridico, il pacifismo democratico sostiene che non è la sovranità in quanto tale la
causa della guerra, ma il fatto che il potere sovrano abbia un certo titolare piuttosto che un altro. Un
elemento costante e ricorrente della concezione positivistica della storia è l’idea che il progresso
consista nel passaggio dalle società di tipo militare alle società di tipo industriale.
Nel marxismo le guerre sono il prodotto della società capitalistica.
Questi tre tipi di pacifismo si dispongono a tre diversi livelli di profondità: sul livello
dell’organizzazione politica il primo, della società civile il secondo, del modo di produzione il
terzo. Ciò che hanno in comune è di considerare la pace come il risultato inevitabile del processo
storico.
La pace ha un futuro?
Tra le vie per la pace, la preferenza di Bobbio va al pacifismo giuridico, che persegue la pace
attraverso il diritto, mediante un patto di non aggressione tra gli stati della comunità internazionale;
un patto per la soluzione pacifica dei conflitti; la costituzione di un potere comune al di sopra delle
parti.
Per pace intendo uno stato di non-guerra, intesa la guerra come scontro violento continuato duraturo
fra gruppi organizzati. Questa precisazione è indispensabile perché vi sono movimenti per la pace,
come quello promosso da Galtung, i quali sostengono che la pace implica non soltanto la non-
guerra, ma anche qualcosa di più: la non violenza. L’eliminazione della guerra intesa
restrittivamente non implica affatto l&rsquo