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La vera ragione dell’elevazione del lavoro nell’età moderna fu la sua “produttività” e
l’affermazione apparentemente blasfema di Marx che il lavoro (e non Dio) creò l’uomo o che il
lavoro (e non la ragione) distinse l’uomo dagli altri animali, fu solo la formulazione più radicale e
coerente di un’idea con la quale tutto il mondo moderno era d’accordo.
Sia Smith che Marx convenivano con l’opinione pubblica moderna nel disprezzare il lavoro
improduttivo come parassitario. La distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo contiene la
distinzione più fondamentale tra lavoro e opera. È caratteristico di ogni lavoro il fatto di non lascia
nulla dietro di sé, il fatto che il risultato del suo sforzo sia consumato quasi con la stessa rapidità
con cui lo sforzo è speso. L’effettivo sviluppo storico che sottrasse il lavoro dall’ombra per renderlo
dominante nella sfera pubblica, dove può essere organizzato e “diviso”, costituì un potente
incentivo allo sviluppo di queste teorie. Tuttavia il fatto anche più significativo a questo riguardo è
che la stessa attività lavorativa, indipendentemente dalle circostanze storiche e dalla sua posizione
nella sfera privata o in quella pubblica, possiede una “produttività” sua propria, per quanto possano
essere futili e non durevoli i suoi prodotti. Nell’opera di Marx ogni lavoro è produttivo, e l’antica
distinzione tra l’assolvimento di compiti servili che non lasciano traccia e la produzione di cose
durevoli abbastanza da essere accumulate, perde la sua validità.
La divisione del lavoro tende ad abolire tutto il lavoro specializzato, come giustamente aveva
previsto Marx. Il risultato è che quanto si compra e si vende nel mercato del lavoro non è l’abilità
individuale ma la “forza lavoro”, di cui ogni essere umano dovrebbe approssimativamente
possedere la stessa quantità. Poiché l’opera non specializzata è una contraddizione in termini, la
distinzione stessa è valida solo per l’attività lavorativa, e il tentativo di usarla come più ampio
quadro di riferimento indica che la distinzione tra lavoro e opera è stata abbandonata a favore del
lavoro.
Del tutto differente è il caso delle categorie più popolari di lavoro manuale e di lavoro intellettuale.
Il pensare, tuttavia, che è presumibilmente l’attività della mente, sebbene sia in qualche modo
simile al lavorare è anche meno “produttivo” del lavoro.
L’opera richiede sempre del materiale da cui sarà eseguita e che attraverso la fabbricazione,
l’attività dell’homo faber, sarà trasformato in un oggetto mondano. La specifica qualità dell’opera
dell’intelletto è dovuta, come qualsiasi altro genere di opera, all’”opera delle nostre mani”. Il
criterio antico di discriminazione è in primo luogo politico. Le occupazioni che comportano la
prudentia, la capacità di formulare giudizi oculati, che è la virtù dell’uomo di stato, e professioni di
rilevanza pubblica, sono liberali. Tutti i mestieri sono sordidi, sconvenienti per un cittadino degno
di questo nome. C’è una terza categoria in cui la fatica e lo sforzo stesso sono pagati, e in questi casi
il salario stesso è il marchio della schiavitù.
I prodotti dell’operare – e non i prodotti del lavoro – garantiscono la permanenza e la durevolezza
senza le quali un mondo non sarebbe possibile. È nell’ambito di questo mondo di cose durevoli che
troviamo i beni di consumo, mediante i quali la vita si assicura i mezzi di sopravvivenza.
Agire e parlare sono manifestazioni esterne della vita umana, la quale conosce solo un’attività che
non si manifesta necessariamente: l’attività del pensiero. Azione, discorso e pensiero non
producono, non portano nulla alla luce, sono labili come la vita stessa. Per diventare cose del
mondo, cioè azioni, fatti, eventi, modelli di pensieri o idee, devono prima di tutto essere visti,
sentiti, ricordati e poi trasformati. La realtà e l’esistenza duratura dell’intero mondo effettivo degli
affari umani si fondano, in primo luogo, sulla presenza di altri che hanno visto, sentito e
ricorderanno e, in secondo luogo, sulla trasformazione di ciò che è intangibile nella tangibilità delle
cose. Senza il ricordo le attività viventi dell’azione, del discorso e del pensiero perderebbero la loro
realtà alla fine di ogni processo e scomparirebbero come se non fossero mai esistite. La realtà e
l’attendibilità del mondo umano riposano principalmente sul fatto che noi siamo circondati da cose
più permanenti dell’attività con cui sono prodotte.
Le cose tangibili meno durevoli sono quelle richieste dal processo vitale stesso. Tutte le attività
umane che scaturiscono dalla necessità di far fronte a essi sono legate ai cicli ricorrenti della natura
e in se stesse non hanno nessun inizio e nessuna fine, propriamente parlando; diversamente
dall’opera, il cui fine è raggiunto quando l’oggetto è finito, pronto per essere aggiunto al mondo
delle cose, il lavoro si muove sempre nello stesso circolo, prescritto dal processo biologico
dell’organismo vivente, e la fine della fatica e della pena viene solo con la morte di questo
organismo. Lavoro e consumo non sono che due fasi del ciclo sempre ricorrente della vita
biologica. Questo ciclo ha bisogno di essere mantenuto attraverso il consumo, e l’attività che
provvede ai mezzi di consumo è il lavoro. La necessità di sopravvivere governa sia il lavoro sia il
consumo, e il lavoro, quando incorpora, raccoglie, le cose fornite dalla natura e fisiologicamente “si
mescola con” esse, compie attivamente ciò che il corpo fa anche più intimamente quando consuma
il suo nutrimento. Si tratta in entrambi i casi di processi divoranti che afferrano e distruggono la
materia, e l’opera fatta dal lavoro sui suoi materiale è solo l’inizio della sua definitiva distruzione.
Questo aspetto distruttivo dell’attività lavorativa è certo visibile solo dal punto di vista del mondo e
separatamente dall’opera. Dal punto di vista della natura, è l’opera piuttosto che il lavoro ad essere
distruttiva, perché il processo dell’operare sottrae la materia alla natura senza restituirgliela, come
avviene nel rapido corso del metabolismo naturale del corpo vivente.
L’improvvisa e spettacolare ascesa del lavoro al rango supremo e alla più stimata tra le attività
umane, cominciò quando Locke scoprì che il lavoro è la fonte di ogni proprietà. Continuò quando
Adam Smith asserì che il lavoro era la fonte di ogni ricchezza e trovò il suo culmine nel “sistema
del lavoro” di Marx, dove il lavoro divenne la fonte di ogni produttività e l’espressione della vera
umanità dell’uomo. Ma al lavoro sono state attribuite certe facoltà che solo l’opera possiede.
Locke per salvare il lavoro dal suo manifesto inconveniente di produrre solo “cose di breve durata”
fu costretto a introdurre il denaro. Lo sforzo del lavoro non libera mai l’animale che lavora dal
ripeterlo continuamente, e rimane quindi una “eterna necessità imposta dalla natura”. Quando Marx
insiste sul fatto che il “processo [lavorativo] finisce nel prodotto”, dimentica la sua stessa
definizione di questo processo come “metabolismo tra l’uomo e la natura” in cui il prodotto è
immediatamente “incorporato”, consumato e annullato dal processo vitale del corpo. Il lavoro è
l’eterna necessità imposta dalla natura, e poiché la più umana e la più produttiva delle attività
dell’uomo, la rivoluzione, secondo Marx, non ha il compito di emancipare le classi lavoratrici ma di
emancipare l’uomo dal lavoro, solo quando quest’ultimo sarà abolito, il regno della libertà
soppianterà il regno della necessità. In tutte le fasi della sua opera Marx definisce l’uomo come
animal laborans e poi lo conduce in una società in cui la più grande e la più umana delle sue facoltà
non è più necessaria. Siamo lasciati nell’alternativa piuttosto angosciosa fra schiavitù produttiva e
libertà improduttiva.
Di tutte le attività umane, solo il lavoro, e non l’azione né l’opera, è senza fine e procede
automaticamente in accordo con la vita stessa e fuori dalla portata delle decisioni della volontà o
degli scopi a cui l’uomo attribuisce significato.
Il lavoro era per Marx la “riproduzione della propria vita”, che assicurava la sopravvivenza
dell’individuo, e la procreazione era la produzione “di vita estranea”, che assicurava la
sopravvivenza della specie. Questa idea è cronologicamente l’origine mai dimenticata della sua
teoria, che egli poi elaborò sostituendo al “lavoro astratto” la forza-lavoro di un organismo vivente e
interpretando il surplus di lavoro come l’ammontare di forza-lavoro rimanente una volta prodotti i
mezzi per la riproduzione del lavoratore.
Il vero significato della riscoperta della produttività del lavoro divenne manifesto solo nell’opera di
Marx, dove esso si basa sull’equazione di produttività e fecondità, così che il famoso sviluppo delle
“forze produttive” del genere umano in una società caratterizzata dall’abbondanza di “buone cose”
non obbedisce in pratica ad altra legge se non al precetto originario “crescete e moltiplicatevi”.
La fecondità del metabolismo uomo-natura, che scaturisce dalla naturale abbondanza di forza-
lavoro, appartiene alla sovrabbondanza che vediamo ovunque nel regno della natura. La
“benedizione o la gioia” del lavoro è la maniera umana di sperimentare la mera beatitudine di essere
vivi che condividiamo con tutte e creature viventi, ed è inoltre il solo modo in cui anche gli uomini
possono rimanere e muoversi con soddisfazione nel ciclo prescritto della natura, faticando e
riposando, lavorando e consumando, con la stessa regolarità felice e senza scopo con ci si
susseguono il giorno e la notte, la vita e la morte. La benedizione del lavoro è che lo sforzo e la
ricompensa si susseguono altrettanto strettamente della produzione e del consumo dei mezzi di
sussistenza, così che la felicità è concomitante al processo stesso, proprio come il piacere è
concomitante al funzionamento di un corpo sano.
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