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Inevitabile conseguenza del rapporto con Dio, mediato dal fenomeno del segno, è l'esperienza del rischio.
Il rischio non è un gesto o un'azione che non abbia ragioni adeguate, perché allora non è rischio, è irrazionalità. La
rischiosità sta altrove.
E' uno iato, un abisso, un vuoto tra l'intuizione del vero, dell'essere, data dalla ragione, e la volontà: una dissociazione
tra la ragione, percezione dell'essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione all'essere (il cristianesimo
indicherebbe in questa esperienza una ferita prodotta dal "peccato originale"). Per cui uno vede le ragioni, ma non si
muove. Non si muove, cioè manca dell'energia di coerenza: di coerenza, non nel senso etico di comportamento
conseguente, ma nel senso teorico di adesione intellettuale al vero fatto intravvisto dalla ragione. E' questa coerenza
che inizia l'unità dell'uomo. La coerenza resta così l'energia con cui l'uomo prende se stesso e aderisce, "si incolla" a
ciò che la ragione gli fa vedere.
Invece avviene una spaccatura tra la ragione e l'affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l'esperienza del rischio.
Il senso del rischio si realizza nella misura in cui l'oggetto interessa il significato della propria esistenza. Quanto più una
cosa interessa il significato del vivere, tanto più l'esperienza di questa divisione irrazionale è possibile.
Il problema del significato totale del vivere è l'esistenza del Dio. Qui è grave una divisone fra l'energia di adesione
all'essere e la ragione come scoperta dell'essere: qui il fuoco di fila dei "ma", dei "se", dei "però", dei "forse" fa da
linea di fuoco che fronteggia la ritirata del proprio impegno con il mistero. E' l'immoralità suprema: l'immoralità di
fronte al proprio destino.
Solo una grande forza di volontà potrebbe far superare una paura di affermare l'essere. Ecco la vera definizione
dell'esperienza del rischio: una paura di affermare l'essere, strana, perché è estranea alla natura, è contraddittoria con
la nostra natura. Quanto più una cosa interessa il significato del vivere, tanto più noi abbiamo questa paura di
affermarla. Questa paura dunque sarebbe vinta dallo sforzo di volontà, cioè dalla forza della libertà; ma essa è
altamente improbabile.
C'è in natura un metodo che riesce a darci quest'energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura del ri che ci
fa superare, attraversare la paura del rischio. Per superare il baratro dei “ma” e dei “se” e dei “però” il metodo usato
dalla natura è il fenomeno del comunitario.
La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione dell’energia e della
decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto.
Il vero dramma del rapporto fra l’uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell’esperienza, non
sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto il mondo è una grande ragione e non esiste sguardo umano sulla realtà
che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a quest’immensa evidenza. La drammaticità è definita dal rischio.
L’uomo subisce l’esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come se non si sentisse di muoversi, è
come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la
capacità di adesione all’essere.
Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l’individuo vive la sua dimensione comunitaria. Anche questo
rivela il genio di Cristo che ha identificato la Sua esperienza religiosa con la Chiesa: “Là dove saranno due o tre riuniti
in mio nome, io sarò con loro”.
attraversare la paura del rischio. Per superare il baratro dei “ma” e dei “se” e dei “però” il metodo usato dalla natura è
il fenomeno del comunitario.
La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione dell’energia e della
decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto.
Il vero dramma del rapporto fra l’uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell’esperienza, non
sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto il mondo è una grande ragione e non esiste sguardo umano sulla realtà
che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a quest’immensa evidenza. La drammaticità è definita dal rischio.
L’uomo subisce l’esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come se non si sentisse di muoversi, è
come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la
capacità di adesione all’essere.
Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l’individuo vive la sua dimensione comunitaria. Anche questo
rivela il genio di Cristo che ha identificato la Sua esperienza religiosa con la Chiesa: “Là dove saranno due o tre riuniti
in mio nome, io sarò con loro”.
L'energia della ragione tende a entrare nell'ignoto
Il vertice della ragione è l’intuizione dell’esistenza di una spiegazione che supera la sua misura. La ragione proprio
come esigenza di comprendere l’esistenza è costretta dalla sua natura ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile.
Quando la ragione prende coscienza di sé fino in fondo e scopre che la sua natura si realizza ultimamente intuendo
l’inarrivabile, il mistero, essa non smette di essere esigenza di conoscere.
Forza motrice della ragione
La vita della ragione è data dalla volontà di penetrare nell’ignoto.
Anzi è proprio la tensione a entrare in questo ignoto che definisce l’energia della ragione.
Tutto l’andare umano, tutto il tentativo di questa forza operosa che ci affatica di moto in moto, è la conoscenza di Dio.
Perché il movimento dei popoli riassume come formula tutto quanto l’immenso sforzo di ricerca dell’uomo. Scoprire il
mistero, entrare nel mistero che sottende l’apparenza, sottende ciò che noi vediamo e tocchiamo, è il motivo della
ragione, la sua forza motrice.
Così è il rapporto con quell’al di là che rende possibile anche l’avventura nell’al di qua, altrimenti la noia, origine della
presunzione evasiva, illusiva o della disperazione eliminatrice, domina. E’ solo il rapporto con l’al di là che rende
realizzabile l’avventura della vita. La forza umana nell’afferrare le cose dell’al di qua è data dalla volontà di
penetrazione nell’al di là.
Al di là dei confini sperimentali positivisticamente intesi c’è solo fantasia o, comunque, impossibilità di sicurezza.
Andar oltre era nella sua natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo. Questa è la lotta tra l’umano, cioè il
senso religioso, e il disumano, cioè la posizione positivistica di tutta la mentalità moderna.
Uno comincia a sentirsi uomo quando supera questo limite estremo posto dalla falsa saggezza, da quella sicurezza
oppressiva, e si inoltra nell’enigma del significato.
E’ nella Bibbia, quando dall’esilio, cioè dalla dispersione o da una realtà estranea a sé, Giacobbe sta ritornando a casa
sua. E giunge al fiume ormai all’imbrunire, e l’imbrunire è veloce. Sono passati gli armenti, i servi, i figli, le donne.
Quando tocca a lui, ultimo, penetrare nel guado: è totalmente notte. E Giacobbe vuole continuare nel buio. Ma prima
che metta il piede dentro l’acqua, sente un ostacolo davanti a sé; una persona che lo affronta e cerca di impedirgli il
guado. E con questa persona, che non vede in viso, con cui gioca tutte le sue energie, si stabilisce una lotta che durerà
tutta la notte. Finché al primo lucore dell’alba quello strano personaggio riesce a infliggere un colpo all’anca, sì che
Giacobbe ne andrà per tutta la vita zoppo. Ma nello stesso momento quello strano personaggio gli dice: “Sei grande
Giacobbe! Non ti chiamerai più Giacobbe, ma ti chiamerai Israele, che significa: “Ho lottato con Dio”. Questa è la
statura dell’uomo nella rivelazione ebraico-cristiana. La vita, l’uomo, è la lotta, cioè tensione, rapporto – “nel buio” –
con l’al di là; una lotta senza vedere il volto dell’altro. Chi giunge a percepire questo di sé è un uomo che se ne va, tra
gli altri, zoppo, vale a dire segnato; non è più come gli altri uomini, è segnato.
Una posizione vertiginosa
La Bibbia dirà: “Come gli occhi di un servo attento ai cenni del padrone”.
L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno
apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’”ignoto signore” ci trascina, ci
provoca al suo disegno. E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle
occasioni. E’ una posizione vertiginosa.
L’impazienza della ragione
La Bibbia rivela che un eccessivo attaccamento a sé (“amor proprio”) spinge la ragione dell’uomo, nel suo desiderio
appassionato, nella sua pretesa di capire questo supremo significato da cui tutti i suoi atti dipendono, a dire, a un
certo punto: “Ecco, ho capito: il mistero è questo”.
Esistenzialmente cioè questa natura della ragione come esigenza di conoscere, di comprendere, penetra tutto, e
perciò pretende penetrare anche l’ignoto da cui ogni cosa dipende. La ragione non tollera, impaziente, di aderire
all’unico segno attraverso cui seguire l’ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente
casuale, come è il susseguirsi delle circostanze.
Nella sua situazione esistenziale la natura dell