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IDE OR EUM

chezza, che ha avvilito tanta mia passione, che ha affievolito tanto mio impeto, difformato tanta mia opera, distrutto tanti germi, contaminato tanto

desiderio, umiliato tanto dolore, il mio male originario, il mio male ereditario, ecco, forse per la prima volta, accumulato, isolato, concentrato in me;

e mi duole come dolgono le infezioni mortali.”

Lo scrittore giunge finalmente a comprendere come la guerra, nella sua terribile violenza e atrocità, annulli qualunque differenza sociale e

poteva essere prima dotato: la prospettiva dell’annientamento

renda vani tutti i privilegi di cui un essere umano (anche il più nobile tra tutti) permette

al d’Annunzio uomo (e non più superuomo) di vedersi per quello che è: un uomo appunto, uguale a tutti gli altri.

“Allora i feriti a un occhio si appressarono, e stettero accanto alla branda. I feriti a tutt′e due gli occhi vennero anch′essi, e rimasero intorno alla

quelli del lato sinistro, l′inchinarsi pietoso dei loro turbanti di lino, le loro bocche meste,

branda. Tacevano. Li udivo respirare, sospirare. Travedevo

Avevo compassione di loro com′essi avevano compassione di me.

le loro mani rassegnate. | Ero il loro compagno; erano la mia gente. Ero nudo di

senza singolarità, senza rilievo, senz′altra gloria che il mio umile sacrificio.

ogni privilegio, Non soffrivo di me ma di non poter più combattere, ma di

non aver più le mie ali, le mie armi, il mio compito. Ero messo fuori della guerra, allontanato dal fuoco, escluso dalla fucina dove si fondeva la so-

Com′era il mio viso? Toccavo in quel punto il fondo della tristezza e della dolcezza. Nulla mai nella vita m′aveva fatto tanto

stanza nuova. | male e

tanto bene. Qual era il mio aspetto paziente, su quel lenzuolo, su quella branda dove tanti altri semplici soldati avevano giaciuto? Mi sentivo manca-

Allora un d′essi fece, piano, scotendo li capo bendato, con l′accento schietto del suo paese, con una pietà attonita, uno fece: “Questo è

re. |

quell′uomo!”. | E non dimenticherò mai la sua voce. E, se sapessi dove ritrovarla, dovunque la cercherei.”

Nel sogno d’Annunzio assiste all’apparizione di una figura eroica all’orizzonte, un superuomo visto come messo della nova vita e della

ma come dice d’Annunzio è tutto un sogno. Il sogno, arriva a concludere d’Annunzio, è la vera realtà, una realtà che ci mette di fronte

nova gloria,

alla vacuità e alla nullità delle nostre aspirazioni, della nostra urgenza e volontà di conquistare qualunque cosa a danno degli altri:

“Rivivo il compatto dolore dell′Ultima

in un attimo canzone. | Riodo latrare nel sogno della duna oceanica i cani sardeschi, | i mastini di Fonni, | i

veltri del Monte Spada. | Rivedo la schiera quadrata, | che ha seppellito a Tobras i suoi morti, | salire senza di me su pel sabbione impervio, | senza di

l′alba

me andare verso certa, | andare incontro al certo destino senza colui che aveva creduto | essere il messo della nova vita e della nova gloria il

[…] |

primo nato”. | Tutto è sogno. Tutto è sogno, e fato occulto, e predisposizione di volontà.”

Apparsa per la prima volta nel 1912, la “Contemplazione è una raccolta di quattro prose di carattere memorialistico, dedica-

della morte”

ta al poeta Giovanni Pascoli e all’amico Adolphe Belmond.

Nell’opera d’Annunzio riporta il suo incontro con Giovanni Pascoli. I due poeti, pur rispettandosi a vicenda, avevano sempre avuto rappor-

d’Annunzio trovarsi a

ti contrastanti, a causa della grande differenza nel modo di condurre la propria vita: avrebbe mai potuto il prode e guerriero

proprio agio con un uomo dedito alla vita accademica e incapace di staccarsi dalla propria famiglia? Nessuno dei due programmava di incontrare

l’altro, e così Adolphe Belmond, amico di entrambi, organizzò l’incontro all’insaputa dei due. Ecco come d’Annunzio descrive il poeta romagnolo:

“La nostra amicizia soffriva d'una strana timidezza che non potemmo mai vincere perché i nostri incontri furono sempre troppo brevi. Era un'amici-

zia di terra lontana come l'amore di Gianfré Rudel, e perciò forse la più delicata e la più gentile che sia stata mai tra emuli. Si alimentava di messaggi

e di piccoli doni. Da prima egli temeva che la sua rusticità e la sua parsimonia mi dispiacessero, come io temevo che gli increscesse la mia diretta

discendenza dalla brigata spendereccia. Egli forse pensava che qualcosa di vero ci dovesse pur essere in fondo alle dicerie della cialtronaglia. Un

giorno lo colpì la schiettezza del mio riso dinanzi a certe sue esitazioni ; e allora gli parve di potermi offrire l'ospitalità nella sua casa di Castelvec-

parola”.

chio, poiché l'acqua il pane e le frutta erano il mio regime consueto di operaio della

Arriva finalmente il momento dell’incontro organizzato da Belmond. D’Annunzio inizia proclamando la sua grande amicizia con Pascoli,

cosa che non trova riscontro nella realtà, dove i due invece avevano ben poco in comune. Prosegue poi con la descrizione della propria casa:

“Ma come c'incontrammo la prima volta? A Roma, per insidia. Già ci amavamo da tempo; e avevamo scambiato molti messaggi affettuosi e quelle

lodi acute, d'artiere ad artiere, che s'inseriscono alla cima dello spirito e fanno dimenticare la grossezza dei solenni tangheri i quali oggi in Italia

[…]

giudicano di poesia. Io era in giorni di splendida miseria, abitando nell'antica selleria dei Borghese, tra Ripetta e il Palazzo, tra il fiume torbo e

quel gran clavicembalo d'argento celebrato in un sonetto dell'adolescenza. La vuota selleria principesca era di cosi smisurata grandezza che ram-

la sala padovana del Palazzo della Ragione, se bene mancasse non giustamente in su l’ingresso la pietra del vitupero:

mentava LAPIS VITUPERII ET

. In tanta vastità io non avevo se non un letto senza fusto, un pianoforte a coda, una panca da tenebre, il gesso del Torso di Bel-

CESSIONIS BONORUM

vedere, e la gioia del respirar grandemente. Come Adolfo spinse alla soglia il poeta delle Myricae e mi chiamò al soccorso, balzai mezzo vestito. E

due confusioni si abbracciarono senza guardarsi. L'ingannatore rideva nel vederci così vergognosi mentre tuttavia ci tenevamo per mano. Poi ci se-

demmo su la panca, felici, senza far molte parole, nessuno di noi temendo il silenzio che è sì soave quando il cuore si colma. Eravamo sani e resisten-

ti entrambi, sentivamo la nostra purità nel divino amore della poesia, preparati alla disciplina e alla solitudine. L'uno promettendo di superar l'altro,

eravamo certi di non scoprire mai su i nostri volti il livido color della petraia. Una potenza oscura si accumulava nelle nostre profondità: egli doveva

ancora comporre i Poemi conviviali e io dovevo ancora cantare le Laudi.”

Dopodiché, d’Annunzio osserva attentamente le mani di Pascoli, ammirandole, e citando i versi della prima strofa del componimento Con-

trasto del romagnolo, ovviamente riferiti a lui:

“Come gli guardai le mani, delle quali sono sempre curioso, egli le ritrasse con un atto quasi fanciullesco. Io volevo osservare le dita che avevano

foggiato l'odicina per le due sorelle e i madrigali dell'Ultima passeggiata. Allora sorridendo gli ripetei i primi versi del Contrasto:

Io prendo un po' di silice e di quarzo:

lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:

ve' la fiala come un dì di marzo,

G. d’Annunzio azzurra e grigia, torbida e serena!

Un cielo io faccio con un po' di rena

e un po' di fiato. Ammira: io son l'artista.

Io vo per via guardando e riguardando,

solo, soletto, muto, a capo chino:

prendo un sasso, tra mille, a quando a quando: G. Pascoli

lo netto, arroto, taglio, lustro, affino:

chi mi sia, non importa: ecco un rubino;

vedi un topazio; prendi un'ametista.

Con quelle stesse mani che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. Sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili mi-

rici per salire verso la rupe scabra. E poi parlammo d'Odisseo e della predizione di Tiresia. Questo fu il nostro primo incontro. E l'ultimo fu nella

sua casa bolognese dell'Osservanza, qualche settimana prima della mia partenza per l'ultima avventura: triste commiato di chi era per farsi fuorusci-

to a chi restava legato dalla catena scolastica.”

L’ultimo incontro dei due poeti ha luogo nella umile dimora di Pascoli a Castelvecchio. Una casa che serba al suo interno solo lo stretto

È solo in questo momento, di fronte all’evidente

necessario per vivere, le stesse cose di poco conto con cui Pascoli riusciva a creare la sua poesia.

romagnolo che lo avrebbe condotto inevitabilmente alla morte, che d’Annunzio riesce finalmente a riconoscere e ad apprezzare

malattia del poeta la

grandezza del suo compatriota, una grandezza che deriva dalla semplicità, ma che non per questo è inferiore a quella che deriva dalla grandi imprese:

“Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l'arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza

era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l'arte non sia se non una magia

pratica. Insegnami qualche segreto, gli dissi a voce bassa. E volevo soltanto farlo sorridere; ma, in verità, un'ombra di superstizione era sul mio sen-

[…]

timento. Poi fece l'atto d'alzarsi, mi prese per mano e mi disse: Vieni ora a vedere la cameretta che ho per te, quando tu la voglia. Un candore

infantile ardeva in lui; e il primo verso del sonetto di Francesco Petrarca mi sonava nella memoria. Era una piccola stanza chiara, quasi una cella di

minorità, con un di quei letticciuoli che persuadono a serbare una sola attitudine per tutta la durata del sonno. Come rispondendo alla domanda

sommessa che gli avevo fatta dinanzi alla sua tavola prodigiosa, mi mormorò in un orecchio: Quando sarai qui, allora sì che t'insegnerò un segreto.

Lietamente gli dissi: non potrò venire se prima non abbia uccisi tutti quei mostri che sai. Mi bisogna ancora andare alla guerra. Ahimè, era egli in pa-

ce? Non lo travagliava di continuo la stessa abbondanza del suo amore?”

Il momento del commiato finale, l’ultimo saluto, è il momento in cui d’Annunzio veramente e totalmente esterna il proprio rispetto per

l’autore romagnolo, che seppur così diverso da lui e così riservato al limite dell’isolamento totale, riesce comunque ad essere grande in ciò che fa. È

uno dei pochi momenti in cui d’Annunzio da voce ai propri che aveva condotto una vita all’insegna della menzogna

pensieri più profondi e veri; l

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A.A. 2014-2015
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/11 Letteratura italiana contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher lorenzo.tecchioli di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana moderna e contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Siena o del prof Vecchio Alfio.