Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
CAPITOLO 8: L’ESPERIENZA NON VERBALE E IL “CONOSCIUTO NON PENSATO”.
ACCEDERE AL NUCLEO EMOTIVO DEL SE’.
Ciò che “conosciamo”, ma che non pensiamo (o cui non possiamo pensare), è anche ciò di cui non possiamo
parlare. La conoscenza non verbalizzata (o non verbalizzabile) ha un’influenza enorme perché rimane
impressa al di fuori della consapevolezza conscia e gioca un ruolo determinante sia in psicoterapia sia nella
fanciullezza. Rischiamo di permettere che le parole che ci scambiamo durante la terapia monopolizzino la
nostra attenzione mentre ci dimentichiamo che sotto le parole c’è un flusso di esperienza di importanza
determinate che delle parole costituisce il contesto di base. Di natura fondamentalmente emotiva e
relazionale, questa esperienza inizialmente inarticolata è spesso laddove troviamo, in seguito, il punto di leva
per il cambiamento terapeutico.
Strumenti della ricerca per rilevare le esperienze non verbali.
L’evidenza empirica indica chiaramente che le fondamenta dei nostri modelli operativi interni, e anche le
strategie di attaccamento e di regolazione delle emozioni consuete e codificate in questi modelli, sono tutte
messe in opera ben prima dell’acquisizione del linguaggio. Sono questi i dati sottesi alla conclusione di
Shore che “il nucleo centrale del Sé è non verbale e inconscio e risiede fondamentalmente nei pattern della
2
regolazione diadica”. Dato che l’esperienza preverbale costituisce la base del Sé in sviluppo, è assolutamente
di vitale importanza fare posto, nell’ambito della psicoterapia, alla riverberazione e all’elaborazione di queste
esperienze.
In secondo luogo, le relazioni genitore-bambino che hanno maggiore probabilità di poter promuovere con
successo un attaccamento sicuro sono quelle inclusive, intendendo con ciò che il genitore deve saper trovare
quanto più spazio è possibile per l’intero spettro delle esperienze soggettive del bambino. Per dar luogo a una
relazione terapeutica che sia altrettanto inclusiva dobbiamo prestare attenzione non solo a ciò che dicono a
parole, ma anche a ciò che i pazienti espongono con altri mezzi. La teoria di Bowlby, secondo la quale il
bambino integrerà solo ciò per cui la sua esperienza di attaccamento hanno saputo trovare spazio, implica
che il bambino escluderà dalla consapevolezza quei pensieri, sentimenti e comportamenti che rischiano di
provocare rotture nelle relazioni di attaccamento, con il risultato che quei pensieri, sentimenti e
comportamenti, non solo rimarranno non sviluppati e non integrati, ma spesso anche impossibili da
verbalizzare. Per integrare ciò che è stato scisso o escluso, abbiamo bisogno di avere accesso a ciò che nel
paziente è ancora non detto, non pensato e, forse, non sentito. I pazienti possono essere privi delle parole per
descrivere le esperienze determinanti per ragioni che sono evolutive (le esperienze avevano avuto luogo
prima dell’acquisizione del linguaggio) o difensive (le esperienze non potrebbero essere pensate o sentite, né
se ne potrebbe parlare, senza mettere a rischio le relazioni vitali). Esistono delle barriere, sia
neurofisiologiche sia psicodinamiche, che inibiscono un accesso linguistico a certe esperienze formative
(soprattutto se traumatiche). Le ricerche sullo sviluppo neurale hanno mostrato che i centri cerebrali che
mediano il linguaggio e la memoria autobiografica non sono effettivamente connesse in rete fino a un’età
compresa tra i 18 e i 36 mesi. Di qui discende la quasi universale convinzione che esiste un’ “amnesia
infantile”. Inoltre, le emozioni opprimenti della specie di quelle evocate dal trauma inibiscono il
funzionamento di quelle stesse strutture cerebrali. I pazienti con disturbi dovuti a stress angoscianti
postraumatici inondati da un insieme caotico di emozioni di emozioni disturbanti, sensazioni somatiche,
immagini e impulsi, sono privi dei mezzi linguistici per dare un significato o un contesto alle loro esperienze
multisensoriali frammentate. Un trauma che “spenga” l’area di Broca e l’ippocampo può causare un
“sequestro emotivo” nel quale l’amigdala con le sue connessioni con il cervello destro sopraffà l’ippocampo
e le capacità, che gli sono associate, di codificare, recuperare e contestualizzare la memoria del trauma. Le
persone traumatizzate nella fanciullezza hanno in genere l’ippocampo sinistro di dimensioni ridotte e un
ridotto sviluppo del cervello sinistro, se le si confrontano con soggetti di controllo in buona salute. Quando a
degli adulti con storie di abuso si chiese di richiamare alla memoria un episodio precoce disturbante, la loro
attività emisferica mostrò un evidente spostamento a destra. In un gruppo di controllo, al contrario, l’attività
emisferica era bilanciata. Inoltre, si è visto che il volume del corpo calloso (il principale canale di scambio di
informazioni tra i due emisferi, era significativamente più piccolo nelle persone traumatizzate rispetto ai
soggetti di controllo. Sembra pertanto che il trauma impedisca un’integrazione sia neurale sia psicologica,
isolando il cervello emotivo destro dalle risorse verbali del sinistro. La totale dipendenza che il bambino ha
rispetto alla propria figura d’attaccamento significa che dissintonie, depressioni o rabbie croniche della
figura d’attaccamento possono essere vissute come traumatiche. In relazione con tutto ciò, Shore ha fatto
riferimento al “trauma relazionale” che insorge dalle esperienze di attaccamento disorganizzato e che si
risolvono in disturbi borderline e magari in disturbi psicotici. Molti dei pazienti soffrono di ciò che
Bromberg ha descritto come “isole” traumatiche e di scissione, il cui impatto e significato, inizialmente, è
impossibile tradurre in parole.
Ci sono anche risultati che provengono dalla scienza cognitiva che aiutano a chiarire la necessità di
mantenere un’attenzione terapeutica concentrate sulle esperienze non verbali. Gli studiosi che operano nel
campo cognitivo hanno scoperto che la memoria non è monolitica e hanno identificato due sistemi distinti di
memoria, la memoria esplicita che può essere recuperata in modo conscio, è verbalizzabile e simbolica e il
suo contenuto è fatto di informazioni e di immagini, e la memoria implicita, non verbale, non simbolica e
inconscia. Il suo contenuto implica risposte emotive, modelli di comportamento e abilità specifiche. Implica
un “sapere come” piuttosto che un “sapere che”. Detta talvolta “memoria precoce” perché è disponibile
perfino quando si è nel ventre materno e conosciuta originariamente come memoria procedurale, la memoria
implicita ha come proprio marchio soggettivo la familiarità piuttosto che la capacità di ricordare. Queste
procedure ricordate formano quella che è stata chiamata conoscenza relazionale implicita. La conoscenza
implicita si esprime nel come ci comportiamo e sentiamo, nel nostro atteggiamento comportamentale e in
che cosa ci aspettiamo dalle relazioni. Questa conoscenza di solito esiste al di fuori della consapevolezza
riflessiva perché ciò che sappiamo si è impresso in una forma implicita che è difficile recuperare in forma
linguistica. La conoscenza implicita o procedurale costituisce la base del modello operativo interno. I
ricercatori dell’attaccamento hanno documentato che essa emerge presto nella vita in funzione della qualità
delle nostre prime relazioni e che essa persiste nell’età adulta. Per molti pazienti le interazioni precoci sono
3
state problematiche, imprimendosi implicitamente come una visione di sé e degli altri deprimente e
profondamente radicata, che non possono facilmente esprimere a parole, ma che non possono neppure
impedirsi di mettere in atto. Quando queste messe in atto autodistruggenti accadono durante la psicoterapia,
possono diventare una risorsa di valore nella misura in cui ci permettono di impegnare e trasformare quelle
rappresentazioni interne non verbalizzabili che fanno dei nostri pazienti degli ostaggi del passato, se il
terapeuta ha la capacità di afferrare il subtesto non verbalizzato della conversazione terapeutica.
Capire il linguaggio del non verbale.
La direzione del flusso del dialogo parlato è in larga misura determinata dalle correnti emotive e relazionali
che fluiscono al di sotto della superficie della relazione terapeutica. Queste correnti sotterranee danno forma
all’esperienza del paziente e del terapeuta in modo assai simile a come l’esperienza del bambino e del suo
caregiver prende forma dalla qualità della loro comunicazione non verbale. Ne consegue che c’è una
straordinaria congruenza tra i comportamenti non verbali che caratterizzano le interazioni dell’infanzia e
quelli che possiamo osservare nelle interazioni degli adulti. È la qualità di queste interazioni non verbali che
in larga misura determina l’impatto delle relazioni di attaccamento sul Sé che si sviluppa, sia nella
fanciullezza che in psicoterapia. Una tale comunicazione durante l’infanzia può essere vista come una
conversazione tra il Sé somatico-emotivo del bambino e il Sé somatico-emotivo del caregiver o, nella
prospettiva delle neuroscienze, come una conversazione tra sistemi limbici. Il soggetto di questa
conversazione è costituito essenzialmente dagli stati interni del bambino, in particolare dalle emozioni e dalle
intenzioni. Man mano che la conversazione si svolge per mezzo dell’espressione corporea degli stati interni,
il bambino impara qualcosa di sé e degli altri. C’è una coreografia non verbale paragonabile a questa che
influenza l’esperienza del paziente in psicoterapia e che dà forma, idealmente nella direzione di un
miglioramento, a quel senso di sé in relazione con gli altri che è in via di sviluppo. L’autore racconta che
durante una seduta con suo paziente, Eliot, ha notato che la sua voce aveva un suono più forte del solito e che
il ritmo del suo parlare era accelerato. Si rese conto che stava cercando di stimolare se stesso per evitare di
soccombere alla sonnolenza di cui si era appena reso conto. Così decise di cercare l’appoggio della
partecipazione di Eliot. Così aveva scoperto che stava parlando velocemente e ad alta voce per riempire il
silenzio creatosi tra lui e il suo paziente. Aveva cominciato a rendersi conto di quanto si era sentito frustrato
dai suoi tentativi falliti di avere un impatto su Eliot. Da parte sua, quest’ultimo inizialmente era soprattutto
consapevole delle maldestre intrusioni del terapeuta nel suo spazio fisico e mentale. Quando cominciarono a
parlare Eliot cominciò a entrare in contatto con la propria rabbia colpevolizzante