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Christo viene considerato una delle punte di diamante del Nouveau Realisme. Lui
sceglie il pesante, il macroscopico, l’ingombrante e abbandona la pittura. Nasconde
gli oggetti ma solo per poi mostrarli meglio. La sua arma contro l’ortaggio sono metri e
metri di tessuto con cui fascia le cose più improbabili. Con i suoi impacchettamenti
Christo stende sulle cose una monocronia alquanto neutralizzante che a mala pena ci
fa capire cosa l’artista ha deciso di impachettare anche se prevalentemente, per cause
di forza maggiore, la scelta cade sempre su prodotti industriali. Così impachettati i
ready made perdono la loro indifferenza, ottengono un qualcosa di enigmatico che ci
spiazza a vederlo. Impossibile poi non rimanere shockati quando dai paesaggi
casalinghi, Christo e Jean Claude passano all’impacchettamento dei paesaggi veri e
propri, che talvolta sfociano in sbarramenti di strada, arte da enviroment. E come si
può rimanere impassibili davanti allo sbarramento con barili di petrolio di rue Visconti
nel ’62 o davanti alla diga di 13000 barili posti dentro il gasometro di Oberhausen.
Oppure passeggiare in una città e notare che uno dei suoi movimenti è impachettato
dentro tessuti e polietilene. Christo e la moglie preparano con fotomontaggi i loro
lavori, in maniera molto accurata, ma solo dal ’68 mettono in atto il loro ambizioso
progetto di arte ambientale impachettando la Kunsthalle di Berna, che poi si diffonde a
macchia d’olio in altri monumenti, compreso il reichstag di Berlino che era l’ambizione
dell’artista. Tra i novorealisti troviamo anche Rotella,Hains e De Villegé che sono
occupati nella pratica del decollage, staccano i manifesti dalle strade.
Il ready made nella Pop Art
Pop Art. A metà degli anni ’50 le case sono piene di oggetti attraenti sin dal loro
packaging, dozzinali ma indispensabili anche. Che cosa rende le case moderne così
diverse, così affascinanti? Questa la domanda che si è posto Richard Hamilton in uno
dei manifesti della Pop art in cui compaiono degli stereotipi della cultura di massa, dai
chupa chups alla pin up. Già dal ’47, Paolozzi, in I was a rich man’s Plaything aveva
incollato immagini prese da confezioni di prodotti, coca cola in primis, mentre una
pistola spara con un fumettoso POP su una ragazza. Peter Blake poi si sperimenterà in
collage leggermente aggettanti. Vediamo dunque tornare il collage alla maniera del
dada Berlinese e capiamo che vista la sua bidimensionalità la pop art ha poco a che
spartire con l’oggetto tale e quale. Sembra che non ci sia posto per i readymade o per
l’arte ambientale, anche se molti pop artisti di confine sfruttano il prelievo dell’oggetto
equalizzandolo con i nuovi canoni di riproposta dell’immagine popular. Il caso più
interessante è dato dall’americano George Segal che dimsotra difficoltà a inserirsi
nell’ortodossia delle regole pop. Egli fa dei calchi di persone reali, e ha come
obbiettivo collezionare in un certo senso questi calchi al fine di farne una specie di
catalogo di atteggiamenti, pose ecc. ecco perché i suoi calchi ricalcano sempre figure
integrali. Fin qui niente pop, che arriva quando queste grigie figure vengono poste in
interazione con scenografie ambientali in cui l’oggetto industriale è messo intonso,
senza nemmeno l’ombra del grigiore delle statue. Lo spettatore può però solo
contemplare da lontano, l’interazione invece non è consentita. Simile il lavoro di
Wesselman, il quale però usa un numero maggiore di readymade e appiattisce le
figure umane alla bidimensionalità. Anche Jim Dine esprime un compromesso tra
quadro e readymade, il quale andando contro gli stilemi della pop art, si concede
qualche sbavatura di colore. Egli infatti usa utensili veri e propri ma non rinuncia al
colore, giungendo a epifanie pop diciamo forzate. I suoi utensili sono oggetti di massa,
facilmente reperibili al supermercato. Infine è d’obbligo citare Oldenburg, il quale nel
’63 costruisce la stanza iper kitsch, quasi orrida, con mobili a forma romboidale e
tessuti zebrati. Ovviamente il tutto è intoccabile.
Meno di Zero
In opposizione alla pop art nasce, a partire dal 1964 il minimalismo,che si propone di
azzerare la figurazione di ritorno della pop art con sculture di vaste dimensioni ispirate
alla rigidità dell’angolo retto: una sorta di mano di bianco disinfettante. Morris
confeziona cubi monocromi, poco interessanti dal punto di vista visivo, se non ché la
loro presenza in ambienti li rende altamente stranianti, obbligando lo spettatore a
girare intorno a queste opere per captare i cambiamenti percettivi causati da questi
innesti. LeWitt invece propone una versione scheletrica opposta a quella di Morris.
Judd è più ingombrante e crea dei rettangoli in serie. Andre si distingue per la
floorness, cioè la ploriferazione a pavimento di lastre metalliche. Ognuno può fare ciò
che vuole con queste opere, i minimalisti concordano con l’annullamento. Dan Flavin è
la pecora nera della situazione perché rianima queste rigide strutture con un tocco di
estro, la luce al neon. Anche Morris capendo l’inadeguatezza della forma cambierà
bandiera nel ’67, dandosi all’Antiform, allequalità soffici della materia, tipo feltri ecc.
Tra oggetto e performance
Follow the white rabbit
Yves Klein fa ufficialmente parte dei novorealisti. Eppure sia lui che il suo corrispettivo
italiano, Manzoni, hanno solo poche cose in comune con il Nouveau Realisme. Klein va
dall’oggetto al concetto e tra gli altri suoi espedienti ricorre alla patina omogenea del
suo blu. Klein si distacca dalla pop art e dal suo pericoloso state of mind. La
brillantezza della pop art infatti avrebbe determinato un passaggio fondamentale
dall’essere all’avere. Per raggiungere un nuovo stato mentale però, Klein si dedica alla
pittura, un mezzo che sembrava ormai dimenticato. È un rilancio che però gioca
solamente su un colore soltanto. Ma sebbene sembri un’opera semplicemente da
contemplare appare presto noto che per Klein la pittura non è solo un qualcosa per la
vista, ma è per la nostra stessa VITA. Il suo blu monocormatico non è solo un colore,
bensì ha la volontà di irradiarsi sull’UDS con la carica di una nuova era: l’epoca Blu. E
l’epoca in questione è quella del video (parole di Klein pag. 175).
Inizialmente questa epoca viene inaugurata da una mostra a Milano dove il blu è
ancora ancorato alla bidimensione, ma poi, così come la tv riflette la luce bluastra
sugli oggetti, lo stesso faa Klein. Egli si irraggia nell’oggetto, con la volontà di ricreare
una specie di cielo terreno: abbandona il peso terreno per galleggiare nell’etere. Il
percorso di Klein si articola in due tipologie di lavoro: 1. Ancora legata al prodotto
finale, 2. Una pi innovativa, messa nelle mani dell’intervento dello spettatore.
Per quanto riguarda la prima categoria, Klein usa il fuoco vero di 16 petardi per
realizzare il blu immacolato di fuochi di bengala. Gli aloni bruciacchiati che restano
sulla tela testimoniano che qualcosa di esplosivo, di energico è avvenuto. Dopo questi
pennelli di fuoco passa ai pennelli viventi come li chiama lui, che danno origine alle
sue più famose antropometrie. Accompagnate dalla sinfonia monotono, delle modelle
si impregnano di IKB, il suo colore brevettato e diventano dei pennelli viventi,
imprimendo le loro forme sulla tela. La musica di accompagnamento da all’azione un
tono quasi sacrale,molto zen. È un gesto d Body art, ma che ancora una volta, non
rimane altro che la traccia di un happened,un qualcosa di già avvenuto testimoniato
solo da una tela. È solo la registrazione di rimasugli, che però non viene registrata nel
qui ed ora. Idem per quanto riguarda le opere fatte con il fuoco. Non c’è modo per noi
di registrare quanto è avvenuto prima, ma come dice Klein stesso la tela è una
testimone silente. Improvvisamente però Klein cambia bandiera: inizia con il colpire un
ambiente reale senza lasciare alcuna traccia pittorica. Con il vuoto (che darà inizio
all’epoca pneumatica )del ’68 Klein fa strike, presentando una stanza vuota, bianca
che contrasta con la scenografia blu dell’esterno. Due guardie sorvegliano all’esterno
l’entrata, in modo da rendere più ufficiale il passaggio, l’entrata, da un mondo all’altro.
E lo spazio vuoto di Klein in effetti sembra quasi un altro mondo, un luogo ideale in cui
esercitare le capacità noetiche. Follow the white rabbit. Klein ( e molti artisti con lui)
hanno capito il mondo dell’informatica, quello che oggi ci ha abituato a vedere le cose
ridotte ai minimi termini, estremamente zippate (penso agli sms…). L’arte concettuale
non fa altro che mostrarci ciò a cui siamo abituati da tempo. È un qualcosa molto
trattato, dalla letteratura (Calvino) ai film (Matrix). (ultime due opere pag. 178,179).
Bit Generation #2: Piero Manzoni
L’artista coglie il vento della sua epoca: egli capta in anticipo delle nuove tendenze.
Nel caso di Klein e di Manzoni abbiamo detto che si tratta della bit generation. E le
orecchie di Manzoni sono ben tese già dalle sue prime opere sulle quali usa esserini
fatti da sagome di cavatappi, con antenne e caschi da extraterrestri. È il caso di senza
titolo de ’56. Le antenne degli ominidi di Manzoni poi sono simili a quelle della tv, che
in quel periodo stava spopolando. E la somiglianza è inequivocabile con gli space
invaders o con Pacman nel caso di Stomp. È un concettuale fatto di pixel, ergo c’è un
discredito totale delle cose. E proprio le cose è il titolo di un altro quadro di Manzoni:
attorno a due omini in stile smile e in atteggiamenti affettuosi ci sono una serie di
sagome di spilli, fatti a impronta. Questi spilli sono espressione, codificazione di altri
dispositivi di codificazione – emissione: in pratica delle antenne. In Giappone Murakami
o Mariko Mori cambiano l’operatività di apparati tecnologici nel corrispondente visivo
di animaletti e personaggi fumettosi. Non sono certo readymade questi quadri. Anzi
c’è da dire che Manzoni non abbandonerà mai il quadro, ma, come molti suoi colleghi,
andrà a creare dei veri e propri quadri azzerati, cioè gli achrome, che sulla linea
kleniana dei monochrome, suggeriscono uno spazio fertile, riformattato. Alcuni
achrome sono accompagnati da numeri o lettere, che saranno consoni all’anticipo
della bit generation. Spesso per capire le opere di Manzoni bisogna procedere per
capriole mentali. Alcune operre sfociano nell’assurdo, altre invece hanno una
sp