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Shinoda e la ricerca della sostanza nascosta

Shinoda ha bisogno di indagare al di sotto dei fenomeni, letteralmente di "ciò che appare", per entrare in simpatia armonica con la sostanza, con ciò che "sta sotto", magari a un livello di percezione che a noi è precluso se non ci avvaliamo di adeguate strumentazioni. E così sulle vasche di latte Shinoda fa scattare il fattore "effetto speciale": lungo il perimetro parietale vediamo dei binari fusi in un acciaio freddo e asettico, su cui scorrono dei neon fluorescenti raddoppiati nel riflesso del liquido. Le luci si spostano con movimenti lenti; il fruitore rimane sedotto da un'estasi inconscia. Dobbiamo aprire i pori e acuire la percezione, pronti a ricevere ventate di esperienze che nella "Mano di Dio" (2002) si rilevano nel movimento rotatorio di una trave metallica. A un'estremità del braccio è fissato un LED rosso, all'altra un motore che, azionato e aumentato gradualmente di velocità,

Uniforma la luce in una magnifica fascia continua. È suggerito dalle piattaforme "Engawa", le pedane che delimitano i giardini zen, il lavoro omonimo, solo che dinuovo Shinoda lo rivisita nella sua chiave hitech usando un basamento di alluminio lucido e minimale, levigato e dotato di ruote per poter essere trasportato con facilità. "Personal Satellite Project" (1999) è una forma evoluta dei tanti dispositivi di trasmissione/ricezione costruiti con burro e cavi elettrici da Beuys.

Un azzeramento "white-out". Non potendone più di nuove pitture e di citazionismi, meglio un'altra mano di bianco proprio come ai tempi del Minimalismo, sebbene con tutti gli aggiustamenti del caso. Cominciamo da Yoshiaki Kaihatsu. Tra gli artisti che riconoscono nell'installazione il baluardo di uno spazio rinnovato, vivibile in contatto diretto con forme di esperienza e di modulazione ambientale alternative, familiari e sconvolgenti allo

Stesso tempo, Kaihatsu è tra i più ingegnosi, tanto è raro restare insensibili allo SFX delle sue invenzioni. Kaihatsu è anche tra gli artisti impegnati a rendere il mondo un posto migliore. L'arte dei primi anni '90 è un'arte che mette il dito nelle piaghe sociali, nella dimenticanza, come avviene in Nakahashi, nelle silenziose conseguenze di un benessere di facciata. Viviamo per pagarci oggetti, lavoriamo per usufruirne, ma noi? Siamo sicuri di trattarci come dovremmo? Kaihatsu non ne è affatto convinto. Uno dei suoi primi lavori, "No Brain is Functioning any Longer - Part 2" (1993), ha una componente concettuale evidente: "Ho creato uno spazio che rappresenti lamente di persone stanche di lavorare per niente, alla ricerca di un balsamo spirituale, che finiscono per. Agli angoli del soffitto sono collocate delle gabbie da cui escono delle braccia in agognare l'infanzia" gesto di implorazione.

Quelle di Kaihatsu sono le suppliche dell'uomo comune, messo in croce dall'aridità dell'abitudine. Sul pavimento l'artista stende il rimedio: un carillon diffonde una musichetta infantile riposante, per l'aria si spande il profumo del borotalco disseminato a terra insieme alla tattilità morbida di granella di uretano. Sopra il disastro, sotto la soluzione sottile, bianca, candida, che ripristina una condizione di re settaggio, di riformattazione mentale, "erase and rewind" (vedi i Cardigans), ricomincia da capo: è un "white out" (vedi l' "Elevage depoussière" di Duchamp). Ma il movimento che più si avvicina a Kaihatsu è il Minimalismo, maria dattato, attualizzato all'inquietudine dei giorni d'oggi (vedi Radiohead). Ma sentirsi attanagliati da un'inspiegabile sensazione di sofferenza esistenziale è il primo passo per agguantare una relazione più

Genuina con la realtà (vedi Sartre, Camus, Moravia). Basta non arrendersi. Il bianco ci salverà, soprattutto quello del polistirolo. Tra le prime apparizioni di questo materiale nel curriculum dell'artista va considerata un'esposizione apparentemente asettica: "Packing" (1991). Il richiamo alle rigidezze del Minimalismo è lampante: notiamo dei rettangoli di legno, dei volumi rigorosamente squadrati. Sembra l'ennesima mostra di forme funeree. Ci si accorge ben presto che le strutture non sono sculture fini a se stesse, sono astucci che contengono dei listoni di polistirolo, come le custodie di un elemento da curare, prezioso. Ma è con la serie "Vanity" che il suo talento deflagra. L'"eraser" si arma delle sagome di polistirolo usate per imballare gli oggetti e si mette a rivestire, a "obliterare" pareti intere, fino a saturare l'ambiente, a neutralizzarlo del tutto depurandolo dalle sue.

Connotazioni originarie con un bianco che di fatto falci qualsiasi aspettative per quel che riguarda le nostre facoltà percettive. Ora i muri sono annullati, rinfrescati da una pennellatura che nonostante il bianco immacolato si presenta con un volto tutt'altro che riduttivo e minimale: le superfici sono scanalate da forme regolari, ma all'impazzata, con geometrie infinite di vuoti e pieni. Ma perché proprio il polistirolo?: "Penso sia dovuto al fatto che il polistirolo assomiglia ai. Inoltre il polistirolo ha il pregio di offrirci le scatole che di solito ospitano i prodotti del Lego... nostro habitat. Ma ha pure il vantaggio di essere leggero, un elemento quasi concettuale che si accosta alla nozione zen del "ku", appunto del vuoto purificante e spirituale, capace di bonificare il corpo dalla presenza massiccia delle cose. Fra l'altro "Vanity" significa "vuoto" (vedi il "Vuoto" di Yves Klein).

Gli spazi vengono mutati, stravolti da una nuova pelle, dove altri dispositivi di fantasmagoria immateriale trasformano la fruizione in un'esperienza mistica e silenziosa. Il polistirolo illuminato da luci fluorescenti diventa una specie di miraggio con riverberi colorati, ottenuti grazie a vaschette piene di Gatorade. Il polistirolo funziona quindi da dispositivo isolante, crea uno scudo di difesa dalle insidie della consuetudine dando all'ambiente un assetto rinnovato benché monocromo. Inoltre il mondo delle merci slitta in secondo piano: presente solo nelle sagomature degli imballaggi, risulta accessorio rispetto alla funzione primaria di ritrovare se stessi. Dal 2001 Kaihatsu inizia a dedicarsi alla sua serie di lavori più conosciuta, le "Happō", case da tè speciali dove spesso è lui in prima persona a officiare ai riti secolari di una delle cerimonie più note del mondo nipponico, allestendo allo stesso tempo un ambiente di.

Ristoro legato alle tradizioni zen in una eccezionale armonia di superfici. Tra i tanti esempi che si possono citare, “White House” (2003) è uno dei più spettacolari; lì la luce interna filtra attraverso le aperture degli imballi. Oppure possiamo citare “Wall” (2002), o “Cover” (2002). Gli artisti che appartengono al nuovo nucleo di ari“fredda”, optano per mezzi tipicamente extra-artistici, facendo scattare il disinteresse per abilità manuali, a tutto vantaggio di soluzioni basate sullo sviluppo di idee e concetti attraverso la multimedialità, dalla fotografia ai dispositivi elettronici. Perfino Kaihatsu, che si specializza nelle mano di bianco del polistirolo, si avvale di più mezzi espressivi senza tralasciare luce elettrica, suono e così via. Motoi Yamamoto no. Con Kaihatsu, Yamamoto condivide la radice minimalistadella tabula rasa. Usa sale, quintali di sale, quindi è pure lui un “eraser”.

lo è pure nell'impulso ad usare polvere e affini. Inoltre il sale, nella cultura giapponese, è un elemento di purificazione usato nei funerali, vissuti dall'artista in una circostanza biografica tragica e toccante come la perdita della sorella. Qualcuno, forse non a torto, direbbe che la sua opera è una infinita rielaborazione del lutto. Le cifre compositive di Yamamoto sono sostanzialmente tre, tutte eseguite in parallelo. Il white-out ispira la serie degli "Utsusemi", muri che fungono da sipario minimalizzante eretti dalle geometrie friabili di mattoni di sale. Le forme sono regolari, apparentemente solide, ma è giusto un' impressione; nel giro di un breve lasso di tempo le formelle iniziano a sfarinarsi. La seconda serie è rappresentata dai "Corridoi della memoria", variante un po' più elaborata della precedente poiché ingloba il modulo della scala racchiudendolo in passaggi angusti einaccessibili; sbirciando all'interno vediamo un pertugio che si incunea tra le pareti del solito sale bianco. La terza serie è detta "Labirinti". Il loro supporto è il pavimento. Partito da un mucchietto di sale, lo sparge al suolo, fino a quando il cumulo inizia ad assumere le linee di un dedalo che dipanano in una decorazione complicata, geometrica o arabescata. Sono labirinti senza sbocco e senza soluzione. Appartiene alla pattuglia degli "eraser" anche Noriko Ambe, condividendo con Yamamoto l'indole artigianale-decorativa. La Ambe ha un avvio da kusamiana accanita, vibrante e colorata, modalità a cui interpone cali di tensione del white-out. Dopo una serie di quadri da "bad painting" in cui l'artista sguaina una vena aggressiva da mano che tormenta, scava, solca la superficie, la Ambe inizia a respirare zaffate di pixel, ovvero sente anche lei l'impulso fisico dell'uomo contemporaneo, asmerigliare la

realtà in immagini discrete e a usare utensili contundenti per tagliuzzare fogli di carta; così, oltre a coincidere con gli “Infinite Nets”, la serie “Linear-Actions VII” svela nel titolo un’intenzione performativa. Dapprima la Ambe ricama e ricama, calca e ricalca la sua rete usando lame affilatissime, finché qualcuno dei tasselli si allarga smangiandosi gli altri, inesorabile, talmente sicuro del suo potere corrosivo da tentare ben presto un affondo che l’artista intraprende con mano sempre più precisa e sempre più pesante. Un foglio non l’accontenta più. Ci sono delle riserve di carta che si prestano a meraviglia: i libri, così belli compatti nelle loro rilegature. Perché mai resistere alla lusinga di corromperli con delle sapienti fenditure? Ecco che i libri vengono crivellati, per scavarne gli strati uno a uno in espansione concentrica, come in “LACP “Animal Tracking” (2004).

E non si butta via niente; gli strati che avanzano dall'escavazione crescono all'insù. Del resto la lavorazione della Ambe trae spunto dagli anelli di crescita di un albero anche nella processualità lenta e meticolosa, sintomo di una relazione zen.
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Publisher
A.A. 2009-2010
73 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/03 Storia dell'arte contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Moses di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Tecniche dell'arte contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Fabbri Fabriano.