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La terza domanda della preghiera, “sia fatta la tua volontà”, riguarda gli interrogativi: che
cosa si intende per volontà di Dio e che cosa significa fare la volontà di Dio. Secondo la
Bibbia, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti e fare la volontà di Dio non vuol
dire solo eseguire i suoi comandi. Se fosse così, in gioco ci sarebbe l’uomo e perciò
equivarrebbe a una semplice richiesta di aiuto (“aiutaci a fare la tua volontà”). Invece,
questa domanda è teologica e guarda le cose dal lato di Dio; la parola volontà esprime
desiderio e compiacenza, non soltanto decisione e comando. Quindi la volontà di Dio
equivale al compiacimento di Dio, una metafora per dire il disegno divino di salvezza; il
nostro verbo “fatta” in realtà indica divenire, farsi realtà. La volontà è un evento che deve
farsi realtà ma la sua realizzazione spetta a Dio quindi chi prega manifesta il desiderio che
Dio realizzi il suo disegno di salvezza. Tale domanda quindi ha due lati: quello di Dio che
impegna la sua fedeltà e il dispiegamento della sua potenza e quello dell’uomo che esige
l’impegno di conformare la propria volontà a quella del signore.
Il vangelo di Matteo cita più volte la volontà di Dio: c’è chi parla continuamente di Dio ma
poi dimentica di fare la sua volontà o c’è chi si illude di lavorare per il Signore ma poi
scoprirà di essergli sconosciuto. Matteo vuole polemizzare contro certi cristiani che
parlavano sempre del Signore ma non concludevano nulla con il rischio di una preghiera
che non si tradure in impegno o di un ascolto che non diventa pratica. Matteo non
condanna la preghiera e l’ascolto, essendo la radice della prassi cristiana, ma considera
essenziale la concretezza del fare. La volontà di Dio quindi è mettere in pratica le mie
parole, dice Gesù. Questo modo di pensare di Matteo, ci viene confermato dalla prima
parte del discorso ecclesiastico che si conclude così: “Questa è la volontà del padre vostro
che è nei cieli: che neppure uno di questi piccoli vada perduto”. Questa metafora del
piccolo assume 3 significati: 1. sono i bisognosi che la comunità deve accogliere come si
accoglie il signore; 2. sono i membri delle comunità più fragili e la loro fede può lasciarsi
facilmente scandalizzare da idee che non riescono a comprendere; 3. sono gli smarriti, i
peccatori che si sono allontanati dalla comunità. Se i piccoli venissero trascurati nei
progetti pastorali, allora “sia fatta la tua volontà” diventerebbe una preghiera del tutto
insincera.
Presentare Gesù come l’obbediente, appartiene a tutta la tradizione evangelica, non
soltanto alla tradizione di Matteo. La cristologia di Giovanni, è tutta costruita intorno
all’obbedienza di Gesù al Padre. Fare la volontà del Padre è stata la tensione di tutta la
sua vita, il punto verso cui tutte le sue azioni e le sue parole si protendevano, senza
distrazioni. Gesù è sembrato annullare la sua volontà per divenire la trasparenza di quella
del Padre (“Chi vede me, vede il Padre”); un’obbedienza dalla quale Gesù non si è mai
sentito schiacciato e nella quale ha rivelato di essere il Figlio.
La conclusione è che tale domanda acquista spessore se viene letta nella vicenda del
Figlio, nella sua esistenza trinitaria e terrena. Essere la trasparenza della volontà di Dio è
la verità di Gesù e di ogni uomo. Quindi fare volontà di Dio non è semplicemente obbedire
ai comandamenti, ma un modo del tutto nuovo di vivere globalmente la propria esistenza.
6. Come in cielo così in terra
“Cielo” e “Terra” possono sembrare un’espressione per dire ovunque, sottolineando
l’universalità delle prime tre domande: si prega perché Dio venga ovunque santificato, il
suo Regno venga esteso a tutto il mondo e la sua volontà sia fatta in ogni angolo della
terra. Si tratta quindi di una preghiera missionaria così come è l’universalità della missione
dei discepoli. L’espressione può avere però un secondo significato: come in cielo il nome
di Dio è santificato, il suo Regno perfettamente compiuto e la sua volontà realizzata, così
avvenga sulla terra. Quindi, il discepolo chiede al Padre che la terra diventi il risvolto del
cielo. Il regno di Gesù è nel mondo, ma la sua origine è altrove; così come è per il cristiano
che vive nel mondo, ma mutua le regole del proprio vivere dal regno di Dio. Possiamo
considerare l’espressione anche da un’altra angolatura: pregare perché la terra assomigli
al cielo è riconoscere che la pienezza è nel cielo, non ancora qui. Quindi, la terra non è
ancora come dovrebbe essere, non è il nostro tutto perché siamo fatti per una patria che è
altrove. Tale consapevolezza dà grande libertà ed è la condizione per godere veramente
delle cose del mondo. Se si pretende che siano il tutto, deludono; ma se le si considera
anticipazioni della pienezza che Dio donerà, le si rispetta. Questo modo di guardare il
mondo lo relativizza, ma non lo svuota della sua serietà; al contrario, le cose del mondo si
preparano qui, si possono anticipare.
Il vangelo ci aiuta a capire meglio il rapporto fra il cielo e la terra e risulta che la pace fra gli
uomini è ciò che in terra corrisponde alla gloria che Dio ha nei cieli. Un’ultima
considerazione riguarda il fatto che è vero che il cristiano esprime nella preghiera il
desiderio dell’avvento del Regno, ma desidera che tale Regno avvenga già sulla terra. La
correlazione “come … così” non esprime una differenza temporale, ma spaziale e
simultanea perché cielo e terra dicono l’alto e il basso, non il presente e il futuro.
Seppure diversamente formulate, le prime tre domande del padre nostro esprimono un
solo grande desiderio: il Regno. Queste domande mostrano il teocentrismo di Gesù: Dio è
al primo posto e tutto è considerato a partire da lui. Nei suoi insegnamenti, Gesù non ci ha
detto cosa deve fare l’uomo per Dio, ma cosa Dio fa per l’uomo. In tutte le tre domande si
chiede qualcosa che riguarda Dio e che solo lui può fare, ma il fatto che lo si chieda
significa che interessa anche a noi. Il tutto implica un abbandono completo nelle mani di
Dio perché l’azione dell’uomo è completamente racchiusa in quella di Dio. Si chiede
qualcosa che riguarda sia Dio che noi, e proprio il “noi” è nascosto nel “tuo”. La
santificazione del nome, la venuta del Regno e il compimento della sua volontà sono
manifestazioni di Dio tra gli uomini e per gli uomini.
7. Il pane nostro quotidiano dà a noi oggi
Il padre è colui che procura il pane ai suoi bambini quindi il legame tra l'invocazione
iniziale e la domanda del pane è immediata. Il padre nostro è la preghiera di un uomo che
non si vergogna di rimanere bambino davanti a dio. Per Gesù questa infanzia spirituale è
la vera maturità dell'uomo perché chiunque diventerà piccolo come un bambino sarà il più
grande nel regno dei cieli. La domanda del pane è la più umile ed è posta al centro delle
altre indicandone l'importanza che è funzionale: il regno è chiesto per se stesso, il pane in
funzione del regno. L'importanza è indicata dal fatto che viene dopo le domande che
esprimono il grande desiderio, accanto al quale non c'è posto. Precede la domanda del
perdono ma viene dopo la grande domanda del regno. La differenza con le altre domande
sta nel fatto che qui l'oggetto viene prima del verbo per porre l'enfasi sul pane
testimoniando la concretezza e l'umanità del padre nostro.
Nella versione di Luca e Matteo la domanda del pane è identica ma con alcune varianti.
Nella versione di Matteo il verbo dare è all'imperativo aoristo ed esprime un pressante
appello, un bisogno urgente e un'azione unica che inizia e termina. Nella versione di Luca
c'è l'imperativo presente che ha un significato iterativo. Inoltre Luca non dice oggi come
Matteo ma usa un'espressione temporale che indica giorno per giorno. Matteo accentua
l'atteggiamento del mendicante alla giornata: trovato il pane per oggi gli basta ed è
soddisfatto, al domani penserà domani. Luca è più sottile perché chiede oggi il pane,
sapendo che glielo darà anche domani. Però non chiede il pane di oggi e di domani in una
sorta di accumulo perché il discepolo avanza nel suo cammino giorno per giorno.
L’aggettivo “quotidiano” è l’unico del Padre Nostro e deriva dal greco “epiousios”, un
termine sconosciuto, assente sia nel greco letterario che nel greco parlato. Nel vangelo
degli ebrei al posto di quotidiano si è usata la parola “mahar” che vuol dire domani e quindi
sta ad indicare: “Dacci oggi il nostro pane di domani”. Le interpretazioni si sdoppiano: c’è
chi pensa al “grande domani” quindi all’avvento del regno ed in questo caso la domanda
del pane si allineerebbe alle altre domande precedenti; c’è chi pensa che domani significhi
il giorno seguente cioè tale domanda la pone un povero alla sera con lo scopo di passare
una notte tranquilla. Le interpretazioni sono soltanto due, raggiunte per strade diverse: il
pane di cui l’uomo ogni giorno ha bisogno per vivere, il pane del regno. L’uomo della
Bibbia non si vergogna di chiedere a Dio il pane, la fertilità dei campi e degli armenti, la
salute, un poco di tranquillità.
I bisogni dell’uomo sono tanti ma la preghiera ne sottolinea solo tre: il pane, il perdono e la
forza di non soccombere nella tentazione. Sono stati scelti questi 3 e non altri perché
ritenuti essenziali. Il padre nostro specifica quali sono i veri bisogni, ci invita a indugiare su
questi e a lasciar perdere gli altri perché inutili. Nella domanda del pane, l’imperativo “dà a
noi” racchiude la dipendenza e il dono, nell’aggettivo “nostro” c’è la condivisione e la
fraternità, nell’”oggi” la quantità necessaria (no alla miseria e all’accumulo). Dalla domanda
del pane traspare la dipendenza da Dio: il pane è “nostro”, frutto del nostro lavoro ma lo si
chiede al Padre come un dono. Accanto al senso della dipendenza da Dio si trova un
senso di fraternità: il