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INTERSEZIONALITA’
Sabrina Marchetti
Nel momento in cui ci accingiamo a parlare di “diversità”, siamo obbligati a confrontarci col
fatto che di diversità, ogni persona, rispetto alle altre e rispetto alla società, non ne ha una sola.
Oltre a possedere una certa “cultura” ognuno di noi è, al tempo stesso, diverso o uguale agli altri
dal punto di vista del genere, della razza, della religione, della classe, della lingua, e via
discorrendo. Le persone possono essere uguali per certi aspetti, ma molto diverse per altri. C’è
una gerarchia tra le diversità? A tutto ciò cerca di rispondere il dibattito nato attorno all’idea di
“intersezionalità” che richiede di complicare la definizione di diversità proponendo una visione della
differenza come relazione basata simultaneamente su punti di somiglianza e punti di
differenziazione. L’intersezionalità mette in dubbio la possibilità di parlare di “cultura” senza parlare
anche di “religione” o di “classe” poiché vede la differenza come qualcosa che agisce
contemporaneamente su tutti gli attributi che descrivono un soggetto, per cui non è possibile
parlare di una dimensione della diversità senza chiamare in causa anche le altre. Centrale per il
pensiero intersezionale è la nozione di “categorie sociali”, ossia categorie quali cultura, religione,
classe, razza, genere, etc. che suddividono le persone in gruppi a seconda del contesto sociale in
cui vivono. Dal punto di vista intersezionale, ogni persona “appartiene” a più categorie sociali e che
queste interagiscono fra loro. L’attenzione si sposta così su quelli che le pensatrici intersezionali
chiamano “incroci” oppure “intersezioni fra assi di potere”. Lutz e Wenning arrivano a elencare
ben quattordici possibili categorie fra le quali “scegliere”: genere, sessualità, razza o colore della
pelle, etnicità, appartenenza nazionale, classe, cultura, religione, abilità fisica, età, sedentarietà,
povertà, proprietà, collocazione geografica e status rispetto alla propria tradizione. A cavallo tra gli
anni Settanta e gli anni Ottanta è sempre più evidente la necessità di trovare un modo nuovo per
descrivere come strutture sociali diverse interagiscono e come influenzano l’esperienza
individuale. Sono tuttavia le femministe nere nordamericane coloro che più frequentemente
esprimono il bisogno di una riflessione in cui confluiscano sia l’analisi del genere che quella della
razza. Nel 1989 Crenshaw coniò il termine “Intersezionalità giuridica” per discutere le
discriminazioni e violenze vissute da donne nere nordamericane. L’occasione è fornita da un
processo del 1976, il DeGraffenreid vs General Motors che vede cinque operaie nere disoccupate
accusare la fabbrica per cui lavoravano di discriminazione sia razziale che sessuale. La loro
accusa si basava sull’evidenza che prima del 1964, anno di promulgazione del Civil Rights Act, la
General Motors non aveva mai assunto una donna nera. Quando, dal 1970 in poi, la fabbrica iniziò
a ridurre il proprio personale in risposta alla crisi economica, si decise di tutelare chi aveva più
anzianità lavorativa. Di conseguenza, le operaie nere furono licenziate, visto che nessuna aveva
accumulato abbastanza anni di lavoro. Le donne bianche e gli uomini neri, invece, per la maggior
parte assunti prima del ’64, rimasero in fabbrica. La Corte rispose alle accuse di discriminazione
sessuale sostenendo che non era vero che prima del 1964 la General Motors non aveva assunto
donne. Per quanto riguardava la discriminazione a sfondo razziale, la Corte decise di non
procedere poiché l’azienda era già imputata per lo stesso reato in un procedimento ancora aperto,
in cui l’accusa era sostenuta da un gruppo di lavoratori neri (maschi). Consigliando le querelanti di
unirsi all’accusa del Moley, la Corte dichiarò il caso chiuso. Crenshaw pubblica dunque nel 1989
un articolo in cui riprende il caso DeGraffenreid e analizza la difficoltà incontrata dalle cinque
lavoratrici nel portare avanti le proprie accuse in quanto donne e nere. Per Crenshaw, troviamo in
questa vicenda la dimostrazione della rigidità con la quale è concepito il diritto, una rigidità che
rivela come la nozione di discriminazione sessuale sia concepita in riferimento all’esperienza di
donne bianche. Allo stesso modo, la discriminazione razziale ha come oggetto reale di tutela gli
uomini neri. Da questo quadro, le “donne nere” sono tagliate fuori. Per chiarire la questione,
Crenshaw inserisce nel suo articolo la descrizione di una scena che avrà fortuna nello spiegare
cosa s’intende per intersezionalità. S’immagini che avvenga un incidente di auto al centro di un
incrocio. Diverse strade confluiscono in quell’incrocio e le macchine che si sono scontrate
provengono da tutte le direzioni. Immaginiamo poi che un medico venga chiamato sul posto ma
che gli si chieda di curare le vittime solo a patto di riuscire a rintracciare la direzione della vettura
che ne ha causato le ferite. Ciò è in pratica impossibile, visto che è proprio lo scontro fra due o più
vetture a provocare il danno. L’esperimento si chiude così, con l’impossibilità di identificare l’origine
delle ferite, la decisione del medico di non intervenire e il traffico che riprende come prima, come
se nulla fosse accaduto, mentre i feriti giacciono al suolo senza ricevere aiuto. Per Crenshaw il
caso DeGraffenreid vs General Motors dimostra come il comune approccio alla discriminazione
marginalizzi le donne nere. Diana Meyers sostiene che l’idea stessa di intersezionalità si basa
sulla convinzione che “ciò che siamo” dipende dalle nostre esperienze sociali. Per Yuval Davis,
nonostante ogni soggetto sia teoricamente situato all’intersezione di molteplici categorie sociali,
nella realtà le persone tendono ad identificarsi con una, a volte due, categorie, ad esempio come
“nero” o come “donna” o, in alcuni casi, come “donna nera”. Inoltre per l’autrice guardare alle
differenze in modo intersezionale chiama in causa la dimensione etica e ideologica che determina
il privilegio (o la discriminazione) di certe “identità” piuttosto che altre, a seconda del valore che
viene loro attribuito in un determinato contesto. Collins apre la possibilità di attribuire un valore
“scientifico” all’intersezionalità, a patto che questa si applichi al solo livello soggettivo. In questo
caso l’intersezionalità diventa una vera e propria teoria sostantiva che ha successo nello spiegare
la differenza fra esperienze personali nella vita quotidiana. McCall individua tre approcci
metodologici. La prima posizione è quella “anti-categoriale”, termine con cui l’autrice raggruppa
tutti gli approcci che fanno loro il presupposto che le categorie sociali siano da decostruire. Le
categorie non sono nient’altro che “finzioni” per rendere conto di una vita sociale complessa,
mentre in realtà i fattori che determinano sia i soggetti che le strutture sono inafferrabili, fluidi e
molteplici. Questo approccio ha origine all’interno della corrente post-strutturalista del pensiero
femminista e anti-razzista che sostiene la necessità di sbarazzarsi delle categorie se si vuole
conquistare una visione egualitaria. L’approccio più diffuso tra le pensatrici intersezionali è tuttavia
quello “intra-categoriale”, per cui le categorie invece che eliminate devono essere “complicate”.
Chi usa questo approccio si concentra su gruppi sociali che vivono all’intersezione fra categorie
diverse per portare alla luce il significato di tale esperienza. Questo approccio è il più usato nella
ricerca qualitativa condotta in sociologia, antropologia, storia orale, etc. per l’analisi delle differenze
che esistono “all’interno” di un gruppo. L’analisi intra-categoriale prende in esame gruppi o individui
andando a guardare le categorie sociali (genere, razza, etc.) rilevanti, a cui questi appartengono,
intersecando solamente una dimensione di ciascuna categoria. Infine abbiamo l’approccio “inter-
categoriale”, che richiede di considerare come valide le categorie esistenti con l’obiettivo di
documentare le relazioni fra gruppi sociali e definire quelle che McCall chiama le “configurazioni
della diseguaglianza”. L’attenzione è posta sulle trasformazioni che avvengono nelle relazioni fra
gruppi, piuttosto che a livello individuale. Il metodo corrispondente è quello di un’analisi empirica
delle molteplici dimensioni in cui le categorie sociali sono configurate, in senso comparativo e
trasformativo. Al cambiare del contesto emergeranno per McCall diverse “configurazioni della
diseguaglianza”. Approfondendo la concezione “inter-categoriale” descritta da McCall, Hancock
parla di dimensione “istituzionale” dell’intersezionalità. L’uso che Hancock fece di intersezionalità
enfatizzava la soggettività delle donne situate all’intersezione di categorie marginalizzanti quali la
razza, il genere, la classe, l’orientamento sessuale, etc. La comprensione di un numero sempre
maggiore di categorie era necessaria per capire più in dettaglia questa loro esperienza.
Attualmente però, Hancock dice di essere convinta che è necessario promuovere l’intersezionalità
come paradigma in ambito normativo e come modello di ricerca empirica, piuttosto che come
specificazione relativa a contenuti. E’ in tale ottica che Hancock propone il primo tentativo di
sistematizzare i principi fondamentali dell’intersezionalità nel seguente elenco: 1) Più di una
categoria di differenziazione gioca un ruolo nell’analisi di complessi problemi politici e di fenomeni
quali povertà cronica, guerra civile, violazione dei diritti umani, etc.; 2) Queste diverse categorie
devono essere prese in considerazione in modo uguale nel processo di ricerca; 3) le categorie di
differenziazione sono il risultato di fattori sia individuali che istituzionali; 4) Ognuna di queste
categorie ha una sua varietà interna; 5) Un’indagine di tipo intersezionale prenderà in
considerazione le categorie sociali a diversi livelli; 6) Infine, la validità dell’intersezionalità come
paradigma si poggia su l’attenzione agli aspetti sia teorici che empirici dell’interrogativo che si
cerca di risolvere. Ferree prosegue questa riflessione introducendo la nozione di intersezionalità
istituzionale “di tipo i