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Bonaparte per legittimare il suo potere arbitrario ne è la dimostrazione macroscopica. Se il

dispotismo antico si mostra allo scoperto e si confessa come tale, il dispotismo moderno

esemplificato nella usurpazione napoleonica ha bisogno di presentarsi con nuovi strumenti, più

raffinati e difficili da combattere, come la contraffazione dell’opinione e l’intimidazione che agisce

sugli animi, necessari a simulare l’esistenza di una legittimazione popolare.

La necessità di preservare l’apparenza di uno spirito pubblico induce il potere a mantenere un

simulacro di opposizione, che viene tollerata quando è puerile e che viene dispersa non appena fa

ombra. Il bisogno di esibire l’esistenza di una libertà pubblica nel momento stesso in cui la si

coarta produce i suoi effetti più vistosi nella sfera dell’opinione pubblica. Secondo Constant il

dispotismo moderno dell’usurpatore non soffoca la libertà di stampa, ma ne fa la parodia. E lo fa

ricorrendo al lavoro di giornalisti prezzolati, che discutono come se fosse questione di convincere.

Così il nuovo dispotismo che usurpa la libertà, crea un danno ancor maggiore di quello provocato

un tempo con i mezzi tradizionali della soppressione della libertà di stampa, quando l’opinione

pubblica era addormentata, ma non traviata. Esso piega gli animi, costringendo gli uomini ad

affermare pubblicamente ciò che negano intimamente. La dominazione del pensiero diviene così la

caratteristica distintiva della nuova autorità.

Il dispotismo napoleonico che Constant chiama usurpazione non è più un dispotismo diretto,

fondato sulla forza e sull’aperta violazione della legalità, ma ha i caratteri di un dispotismo indiretto

o occulto, la cui pretesa di legittimità si basa sulla semplice presenza dei sintomi del consenso. Ma

se la forza non è stata lo strumento principale di legittimazione; se il potere ha trovato la sua fonte

in un consenso apatico, sottilmente manipolato, realizzato con il contributo stesso dei cittadini,

come ha potuto il popolo francese lasciare che tutto ciò accadesse? Per quali motivi ha accettato

che la libertà politica fosse ridotta a simulacro? A queste domande Constant fornisce due risposte

congiunte. La prima è che la Francia era ormai esausta della libertà promessa dalla Rivoluzione:

una libertà ricalcata sul modello antico e tesa a proclamare, contro lo spirito del tempo, che ogni

bene individuale può e deve essere sacrificato sull’altare della volontà collettiva. La seconda

risposta chiama in causa invece l’abile strategia di manipolazione, da parte di Napoleone, di quella

nuova filosofia che veniva ora proclamando movente esclusivo delle azioni umane l’interesse

personale e la ricerca della ricchezza. Constant conclude che se nel cuore dell’uomo non sussiste

altro che l’interesse, basterà alla tirannia per conquistarlo o il terrore o la seduzione. Bonaparte

scelse la seconda via. Si affrettò infatti ad offrire ricchezze e prestigio ai ceti emergenti, per creare

le basi del suo consenso. Il suo obiettivo era quello di sostituire nuovi nobili alla vecchia nobiltà e di

arricchire nuovi proprietari legati a filo doppio alla sua causa. La sua strategia non fu del tutto

vincente ma il popolo francese accettò immediatamente il patto iniquo proposto da Napoleone:

cessione di libertà politica (lasciateci fare) in cambio di soddisfazioni private (felicità). Secondo

Constant, una sola cosa conserva il suo prestigio, ed è la ricchezza.

L’errore di Napoleone e dei francesi è stato di ritenere che l’interesse possa prosperare dove le

opinioni sono rese uniformi, dove la libertà di pensiero si riduce al fare dei panegirici. Quando lo

spirito di un popolo è oppresso accade che la generale apatia si diffonde anche ai commerci, ai

mestieri, perché la sacra fiamma del pensiero è ormai spenta. Spegnere la fiamma del pensiero e

la fiducia nella perfettibilità umana è per Constant il principio stesso del male.

Il dispotismo dei moderni non differisce sotto questo aspetto da quello degli antichi. Anch’esso

destina l’uomo all’esistenza presente, sottraendogli ogni aspettativa per il futuro. Nell’Esprit des

lois, Montesquieu aveva sintetizzato l’essenza eterna del dispotismo in un’immagine folgorante:

“quando i selvaggi della Louisiana vogliono dei frutti, tagliano l’albero al piede, e li colgono. Ecco il

governo dispotico”. Qualcosa di molto simile è ora evidenziato da Constant quando descrive l’uso

strategico dell’interesse personale fatto da Napoleone, con il sostegno del popolo francese.

Per comprendere la natura del dispotismo occorre osservare l’altro volto della medaglia e cercare

di capire come si produca nell’animo mano un tale immiserimento dell’interesse, che sottrae ogni

attrattiva al tempo futuro, consegnando il singolo all’avidità di un presente continuo. La risposta è

cercata nell’erosione di quelle facoltà che se non possono dirsi più nobili, non però forse più

segnalate: l’indipendenza dello spirito, le facoltà del pensiero e del giudizio. Ciò che condanna gli

uomini alla servitù non è l’interesse ma la sua degradazione a riflesso istintuale, incapace di trarre

alimento e senso di prospettiva da quella seconda realtà, non meno necessaria all’uomo di quella

materiale, che si manifesta attraverso l’esercizio riflessivo dell’opinione.

Molti elementi sembrano avvicinare la letture del dispotismo napoleonico fornita da Constant alla

diagnosi funesta di Platone e alla tesi della servitù volontaria presentata da La Boètie. C’era

ancora una volta, prima di tutto, l’idea fondamentale che il dispotismo nasca dalla libertà, e più

propriamente da una concezione malintesa della libertà. Ricompare nuovamente la convinzione

che il cattivo uso della libertà dal quale origina la servitù abbia una relazione privilegiata con gli

appetiti individuali. Si ritrova infine la tesi secondo la quale il primato concesso alla ricerca del

piacere conduce a spezzare il legame tra passato e futuro, gettano l’esistenza individuale, come

quella della società, in un eterno presente. In Constant non c’è il pessimismo platonico, né

l’affidamento di La Boètie all’azione emancipatrice di una minoranza, chiamata a risvegliare nei

popoli il desiderio assopito di libertà. Constant crede che all’arbitrio, gli uomini non possono

volontariamente rassegnarsi. Questa ottimistica convinzione trova fondamento nella persuasione

che il principio del piacere, la passione calma dell’interesse, non potrà mai giungere fino al punto

da scalzare definitivamente dall’animo umano la spinta profonda, e inquieta, al perfezionamento di

sé. Anche per Constant, come Kant e per Stuart Mill, l’uomo è un essere teologico, capace di trarre

gratificazione dall’appagamento immediato degli appetiti e dal perseguimento dei fini morali e dalla

ricerca di un domani migliore. Secondo Constant, la nobile inquietudine, nella quale si esprime lo

scarto sempre esistente nell’uomo tra l’essere e il dover essere, è moltiplicata nel mondo moderno

dai molti ambiti nei quali l’intraprendenza umana alimentata dalla vita riflessiva del pensiero può

ora esprimersi. Il dispotismo può spegnere la fiamma ma non può impedirle di riaccendersi. Basta

una sola scintilla e il dispotismo è perduto.

La concezione progressista dell’uomo e della storia, lo porta a considerare la servitù volontaria

come una parentesi o una momentanea interruzione, nel corso della storia umana. L’abisso

profondo toccato dai totalitarismo novecenteschi potrebbe forse far sorridere di questa fiducia,

come riflesso di una concezione ingenua della natura umana, che non può più essere alimentata.

Eppure nella convinzione che la ricerca del piacere non bastano a riempire il cuore dell’uomo, c’è

forse una delle risposte più lungimiranti, se non ai totalitarismi, certamente al dispotismo mite che

nelle società contemporanee prende forma nella chiusura su di sé del cittadino democratico. SI

tratta semmai di comprendere che cosa possa oggi far scoccare la scintilla. Proviamo a

ripercorrere gli antidoti proposti da Constant per combattere il virus della servitù volontaria: nutrire

l’inquietudine dei soggetti, anziché sedarla, alimentare la libertà politica anziché usare i cittadini

come strumenti per la macchina del consenso, indirizzare gli interessi individuali verso fini lontani,

anziché degradarli nei godimenti immediati. Ma non sono forse questi i compiti di fronte ai quali

appaiono oggi del tutto inadeguati, insieme, i cittadini e le forme politiche delle democrazie

contemporanee?

Capitolo quarto. Le servitù dei moderni.

L’interpretazione del dispotismo proposta da Constant presenta due elementi distintivi che trovano

il loro più ampio e organico sviluppo, negli anni 30 e 40 dell’800, nelle opere di Alexis de Toqueville

(1805-1859).

Il primo aspetto è il profilo antropologico dell’uomo libero che sceglie di servire: un soggetto che

appare come un protagonista (e non come vittima) della società del profitto, che ha disciplinato i

suoi istinti appetitivi, traducendo le passioni in interessi, ma che proprio per questo è ormai

esposto al rischio di un’estrema privatizzazione dell’esistenza. Il secondo aspetto, strettamente

connesso al primo, riguarda le modalità con le quali il dispotismo si fa strada in epoca moderna:

non attraverso la pura e semplice negazione della libertà politica, ma piuttosto mediante un suo

depotenziamento, che si manifesta nelle forme primarie dell’acquiescienza, del consenso

superficiale e soprattutto interessato.

Nei suoi scritti politici Tocqueville introduce un decisivo cambiamento di prospettiva rispetto a

Constant, che gli consente in ultima analisi di innovare in modo decisivo la tesi di una servitù figlia

della libertà. Egli analizza ora i due elementi appena ricordati in quanto prodotti, e continuamente

riprodotti, non più da una indifferenziata condizione moderna, bensì dalla democrazia, considerata

come una forma del tutto inedita di coesistenza umana. Più precisamente, il centro dell’analisi

diviene ora quel fatto nuovo della storia dell’umanità, al quale egli dà il nome di rivoluzione

democratica, prodottasi dall’umanità, al quale egli dà il nome di “rivoluzione democratica”,

prodottasi secondo Tocqueville al termine di una storia secolare, che ha reso l’eguaglianza sociale

e politica una r

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A.A. 2015-2016
40 pagine
6 download
SSD Scienze politiche e sociali SPS/02 Storia delle dottrine politiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Valeder di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia delle dottrine politiche e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Sassari o del prof Magrin Gabriele.