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IL SISTEMA E LE “VERE” TRASFORMAZIONI DEL DIRITTO.
La lettura sistematica del Codice permette di considerare le nuove questioni
sociali senza snaturare gli istituti giuridici di sempre e senza intaccare i
principi supremi, adattando le certezze del Codice alla nuova realtà. Il
sistema si presenta come espediente per conferire libertà all’interprete, e per
superare il limite della codificazione. La valorizzazione del sistema propone
una rinnovata centralità del Codice contro una risposta alle trasformazioni
sociali affidata a laceranti interventi legislativi speciali o a frammentarie
decisioni equitative del giudice. La necessaria corrispondenza tra diritto e
condizione sociale del momento non implica un continuo intervento del
legislatore sulla società, ma segnala che la società non è un meccanismo che
il legislatore può regolare a suo arbitrio, ignorando quei principi adattantisi a
qualunque tempo e a qualunque condizione che la scienza è chiamata ad
interpretare. Francesco Guelfi (giurista sensibile ai mutamenti in atto) affermò
che si guardava al sistema per fornire risposte alle trasformazioni sociali e
per conservare l’unitarietà del diritto. Grazie al sistema l’area del diritto civile
poteva espandersi senza dividersi, tutelare nuove situazioni senza invocare
leggi speciali per i nuovi soggetti ed i nuovi beni. Esemplari in questo senso
sono le scelte di Carlo Fadda ed Emilio Bensa che hanno tradotto in italiano
“Il diritto delle Pandette” di Windscheid, una delle opere più significative della
Pandettistica tedesca. Essi scrivono che il diritto positivo non è il prodotto
della volontà del legislatore, ma è un prodotto sociologico. Il legislatore ha un
ruolo centrale e allo stesso tempo marginale. Infatti gli autori considerano
“pura fantasia” le affermazioni di Matteo Pescatore, secondo cui “ i principi
del diritto romano si fondano su verità assolute”. A tale affermazione gli autori
oppongono il richiamo ad un sistema tratto solo dal diritto positivo che non è
“assoluto e immutabile”. Insistendo sull’estensibilità del sistema, la legolatria
è progressivamente sgretolata a vantaggio della scienza. Barassi, davanti
alle lacune del Codice nei confronti del nascente diritto del lavoro, rivendica il
ruolo del diritto romano come strumento integrativo a cui appellarsi. 14
RIFORMARE L’IMMUTABILE .
Nel 1899 compare sulla rivista Il Filangeri un importante saggio di Lodovico
Barassi, intitolato “Sui limiti della codificazione del contratto di lavoro”. Due
sono i punti centrali che emergono:
1) la distinzione tra campo sociologico e campo giuridico; e
2) l’attribuzione al giurista di uno spazio ampio per interpretare la parte
stabile del contratto fissata dal Codice.
Barassi, pur schierandosi contro la codificazione del contratto di lavoro,
ritiene però ammissibile “riformare” la parte immutabile del contratto
(“riformare l’immutabile”). Per Barassi non occorrono mutamenti radicali o
l’intervento del legislatore, in quanto la vera riforma è data da una lettura
sistematica in grado di ripensare la parte immutabile del contratto di lavoro,
confermando e piegando le certezze di sempre. L’immodificabilità della
sostanza però non imprigiona l’interprete nella contemplazione di una forma
rigida e sempre uguale ma, al contrario, in virtù della sua elasticità, gli
fornisce uno spazio ampio di indagine, uno spazio in cui la fantasia del
giurista non esegeta può continuare a ricercare la parte stabile di tutte le
relazioni individuali e sociali. È solo lavorando sull’elasticità della sostanza
dell’istituto giuridico che si può dare alle relazioni di lavoro una struttura
scientifica capace di comprendere anche i nuovi fattori sociali.
LE LEGGI SOCIALI E LA GIURISPRUDENZA. VITTORIO POLACCO.
A partire dagli anni ‘80 emersero i primi “difetti sociali del Codice Civile” e
vennero avanzate richieste di una sua riforma radicale o di un suo
abbattimento per lasciar posto ad un “Codice dell’avvenire”, un “Codice di
diritto privato-sociale”, un “Codice sociale”. La richiesta di “leggi
sociali/speciali” mostra l’inadeguatezza del vecchio Codice e preannuncia un
nuovo sistema del diritto privato. In nome di ideali socialistici e solidaristici si
invocano “leggi civili speciali” per sanare i contrasti creati dalle norme
borghesi, per disciplinare situazioni ignorate dai principi individualistici. Tale
prospettiva di progressiva erosione del Codice civile (individualistico) si rivela
presto fragile. Le (poche) leggi speciali-sociali furono infatti considerate dalla
scienza giuridica dominante come separate dal vero diritto civile e relegate in
un angolo appartato, quasi fossero fonti minori e irrilevanti per la ricostruzione
del sistema. Le leggi “speciali” furono contrapposte all’universalità dei principi
codificati. Marchiando le leggi speciali con lo stampo dell’eccezionalità, non
era possibile l’interpretazione analogica ed estensiva delle nuove norme. Un
15
atteggiamento simile a quello tenuto verso le leggi speciali, si ha verso la
giurisprudenza. La dottrina nutrì nei confronti della giurisprudenza una
diffidenza costante (le decisioni dei giudici si rivelerebbero sparpagliate e non
ordinate organicamente). Le posizioni assunte da Gabba offrono una
testimonianza dell’atteggiamento dominante tra ‘800 e ‘900. Gabba fu tra i
primi a sostenere la necessità di un allargamento dell’orbita del diritto civile
oltre i confini del Codice per risolvere con un diritto civile razionale le
ingiustizie generate dall’applicazione del vecchio diritto alle nuove situazioni
sociali. Gabba inoltre richiama i giudici ad applicare sempre la legge, anche
se ritenuta palesemente ingiusta; quindi il giudice non può sostituire la legge
o eluderla usando i principi generali del diritto in opposizione alle norme.
Anche se in alcune circostanze l’art. 3 del Codice Civile autorizza il
giureconsulto a risalire ai principi generali del diritto, tuttavia non si può usare
questa facoltà in contrasto al un espresso canone di legge. In ogni caso è da
escludere che la giurisprudenza possa, per ragioni di equità ed utilità sociale,
estendere specifiche disposizioni del Codice a casi non contemplati. Ritorna
quindi la netta distinzione tra dottrina e pratica. La dottrina deve opporsi a
sentenze raggiunte senza alcuna preparazione scientifica. Gabba conclude
dicendo che la giurisprudenza deve avvalersi di un canone generale
presieduto dalla scienza. Nel caso in cui, stando all’ordine della scienza, non
si riesca comunque a negare l’ingiustizia del caso concreto, il giudice non
potrà in nome dell’equità e dell’utilità sociale violare la legalità. Nel
Programma della Rivista di diritto civile nel 1909 si prende atto che l'opera
della giurisprudenza e le leggi speciali hanno ridisegnato il volto del diritto
civile, relativizzando la centralità del Codice. Emerge quindi l’esigenza di
stabilire un collegamento tra scienza e pratica, di fissare una via unitaria
(quindi nazionale) nella quale tale collegamento sia più facile. Due anni dopo,
Vittorio Scialoja scrive che è necessario che la teoria e la pratica
ricostituiscano la loro unità al fine di superare la crisi del presente, ponendo
dei limiti alla sempre più caotica trasformazione del diritto. Intanto i limiti
vanno posti all’attività del giudice per evitare che si allontani troppo dalla
legge, decidendo secondo la sua coscienza. Questo infatti rischia di
infrangere le certezze consolidate. Secondo Scialoja unire teoria e pratica
significa formare una comune coscienza giuridica nazionale, significa non
affidarsi alla particolarità del caso concreto ed essere consapevoli che,
relativamente al diritto generale, manca in Italia una coscienza chiara e
precisa delle presenti necessità. Il compito della scienza nazionale è quello di
bloccare l’incertezza del presente, indicando un programma chiaro per il
futuro.
TRA 2 SECOLI: POLACCO E LE “GRANDI IDEALITÀ” DELLE “PATRIE
LEGGI” 16
Nel 1884, relativamente al rapporto tra legislazione civile e questione sociale,
Vittorio Polacco affermava che “anche in campo giuridico, la questione
sociale (la cui natura è essenzialmente economica) non può essere rinviata,
in quanto si tratta di una questione grave che minaccia il diritto civile e i suoi
istituti fondamentali. Di fronte a questi pericoli, la legge deve intervenire sulle
questioni sociali respingendo sia le tesi di coloro che vogliono uno Stato
passivo e muto di fronte ai nuovi problemi, sia le proposte della sociologia
che rifletta “l’età della transizione” caratterizzata da una confusione di lingue.
Una confusione che il giurista vuole respingere. Polacco non nega l’esigenza
di un intervento legislativo, ma teme che si affermi una “socialità invadente”
pronta a sopprimere la libertà individuale. Egli inoltre affermava che il Codice
doveva rimanere inalterato, e i provvedimenti di legislazione sociale potevano
gravitare attorno al Codice senza sostituirlo. Pochi anni dopo Polacco cambia
un po’ il suo pensiero affermando che queste leggi speciali possono, qualora
si presenti la necessità, modificare il Codice e addirittura travolgere
completamente una parte di esso.
“ LA RIVOLUZIONE ATTUATA”: LA LEGISLAZIONE ECCEZIONALE DI
GUERRA.
L’unico articolo della legge 22 maggio 1915 n. 671 (Conferimento al governo
del re di poteri straordinari in caso di guerra) conferì al governo la facoltà, in
caso di guerra, di emanare disposizioni aventi valore di legge per quanto sia
richiesto dalla difesa dello Stato, dalla tutela dell’ordine pubblico e da urgenti
straordinari bisogni dell’economia nazionale. Nel 1919, ripercorrendo il
fenomeno della legislazione di guerra, Vassalli scriveva che: “la guerra aveva
attuato una grande rivoluzione, era una condizione alquanto particolare
perché quelle che erano teorie della dottrina ormai consolidate appaiono
improvvisamente fragili e in crisi (la legislazione di guerra costituisce crisi nel
diritto privato)”. Il messaggio sottointeso era chiaro: la dottrina doveva
prendere atto che le certezze del Codice erano state travolte e, con esse, era
stata travolta la presunzione della scienza giuridica di resistere alle
contaminazioni della politica. Si è trattato di una rivoluzione vera che aveva
mutato i confini del diritto civi