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Giorgio Strehler è uno dei grandi padri della regia italiana, si impone da subito grazie alla sua regia
critica con la quale legge e interpreta con sensibilità, intelligenza e fervore politico di sinistra, i testi della
drammaturgia tradizionale. La caratteristica delle regie è che con ogni messa in scena ogni regista
introduce un timbro personale, da una propria interpretazione dando vita ad un corpo a corpo tra testo
e messinscena. Un esempio di realismo critico è dato dalla messa in scena della Trilogia della
Villeggiatura dove Strehler si attiene alla prima indicazione che la tradizione critica diffonde: Goldoni è
autore di commedie, il pubblico a teatro deve ridere vedendo Goldoni. Una caratteristica del realismo
strehliano è che non è mai superficiale e meccanico e non ignora l’esplorazione degli stati d’animo più
nascosti.
Del tutto opposto ciò che accade nella messa in scena dello stesso testo di Mario Missiroli nel
1981: se per Strehler il protagonista è Filippo, per Missiroli lo è Fulgenzio. Strehler ci teneva ad
evidenziare la dimensione ridicola un po’ caricaturale di Filippo; Missiroli invece sottolinea la
dimensione grottesca del culto del denaro di una borghesia mercantile avida e cinica. E’ chiaro che
Missiroli ha scelto un filo del tessuto testuale goldoniano per poi svilupparlo a suo modo.
Al pari di Strehler, Missiroli non interviene sul registro testuale, ma lo filtra attraverso la lente
deformante del linguaggio scenico: la trilogia non si svolge negli interni o negli esterni previsti
dall’autore settecentesco, la scenografia è astratta, geometrica, assolutamente simbolica e viene
rappresentata quasi come fosse una quarta parete forata attraverso la quale lo spettatore assiste alla
rappresentazione.
Anche Massimo Castri non rinuncia ad un utilizzo libero della scenografia, ma all’interno di un
contesto spaziale assolutamente più attento alle coordinate della visione realistica. Per quanto riguarda
il trattamento dei personaggi, Castri sembra partire proprio dalla lezione di Strehler. Il Filippo di Castri,
proprio come quello di Strehler, entra in scena con un tovagliolo rosso intorno al collo. Se Strehler si
limitava ad accennare il rapporto che intercorre tra Filippo e il cibo, Castri insiste e martella. Il regista
dilata i tempi facendo durare la scena dodici minuti contro i nove di Strehler e i sei di Missiroli, perche
dà al suo Filippo tutto il tempo necessario per mostrarci lo schema del suo percorso psicologico:
dalla cordialità iniziale, alla chiusura sospettosa, per finire con una nota sorridente e
soddisfatta. In Strehler, invece, Filippo conosceva solo il lato comico.
La via italiana al realismo si rivela capace di interrogare i testi e comprenderne le sfumature più celate
e suggestive. Il regista ci dice sempre qualcosa che l’autore non ha detto, ma che in qualche modo è
scritto nel testo e che si può leggere attraverso il sottotesto.
È ormai risaputo che andando a teatro si va sempre incontro ai sogni, ai fantasmi, alle
ossessioni del regista, dell’unico grande creatore dello spettacolo teatrale moderno. Fare teatro
è un modo per conoscere se stessi.
Luca Ronconi, genialità e insoddisfazione
Anche Luca Ronconi sembra collocarsi sulla linea della tradizione registica italiana più illustre;
nessuno più di lui è stato tanto genialmente sottile nel analizzare i testi classici, soprattutto ibseniani.
Per esempio prendiamo un classico che la critica ci ha raccontato tante volte senza riuscire a sfiorarne
la profondità: Mirra, allestita da Ronconi nel 1988, vede nella scena finale, la protagonista
abbandonarsi in un abbraccio incestuoso e nella confessione del proprio amore proibito per il padre.
Quest'ultimo, a questo punto, risponde senza il disprezzo dovuto, anzi la vicinanza del corpo della figlia
lascia trapelare i mostri dell’inconscio. Ma questa vicinanza permetterà a Mirra di prendergli l’arma, di
esibirla al padre incredulo e, dopo un attimo che sembra lunghissimo, di trafiggersi. Dopo essersi
trafitta ricolloca la lama dentro la custodia del padre.
Ronconi volutamente esagera la scena. Nella scena finale Mirra svela la propria pulsione incestuosa,
ma la rivelazione è duplice perché Ciniro si specchia nella rivelazione della figlia. Si tratta di desideri
perversi che vanno contrastati, combattuti e quindi Mirra castiga il proprio sentimento uccidendosi, e
Ciniro si adegua lasciando che la figlia agusca. La morte di Mirra è l’unico modo per esorcizzare il
mostro ed eliminare la tentazione.
Durante la scena dell’accoltellamento, Ronconi rallenta estremamente i tempi e questa è una
scelta stilistica di grandissima audacia, che sembra violentare il testo ma che risponde alla
presa di posizioni del regista e alla volontà di far suscitare nello spettatore una reazione
precisa.
Nel 1982 allestisce Spettri e lo allestisce all'interno di una serra fatta costruire in una chiesa
sconsacrata, tutto ciò, ovviamente, non ha nulla a che fare con il testo di Ibsen. La grande attenzione
verso la scenografia che caratterizza Ronconi, allude a un’insoddisfazione del regista rispetto
all’orizzonte drammaturgico; le sue scenografie impossibili sono sempre prima di tutto, una sfida al
pubblico, un modo di spiazzarlo.
Messaggio che recapita anche con l'allestimento dell'Orlando Furioso, spettacolo caratterizzato
da diversi palcoscenici attorno ai quali lo spettatore poteva muoversi. Il colpo di genio
ronconiano è nella scoperta e costruzione di uno spazio indistinto, che coinvolge attori e
spettatori; è nella pratica inedita e sovversiva di un pubblico passeggiante che decide
soggettivamente che cosa vedere, che si sposta a proprio piacimento all’interno di un
continuum spaziale che avvolge unitariamente spettatori e attori. Non importa il contenuto, né il
testo, conta essenzialmente la ricostituzione dello spettatore di un contesto fruizionale.
La perdurante efficacia dei “classici”: Ariane Mnouchkine
Proprio a Ronconi è debitrice Ariane Mnouchkine per il suo spettacolo più celebre 1789, affresco
suggestivo della Rivoluzione Francese. Organizzato su cinque pedane differenti strutturate
come in una fiera, presenta un pubblico parzialmente mobile.
L'animo di questa regista è caratterizzato da una passione politica sessantottina molto forte.
Paradossalmente questa tensione a raccontare la contemporaneità con slancio militante, finisce per
offrire il meglio di se quando decide di mettere in scena testi classici, come per esempio il Tartufo di
Moliere, 1995.
Il primo dato da cui partire è l’impianto scenico: non c’è sipario e spicca uno spazio aperto con
un cortile chiuso da una cancellata e con una grande porta sul centro del fondo scena. Al di là
della porta una strada e oltre la strada il muro di una grande casa con tante finestre tutte con le
persiane abbassate. L’interno della casa è immaginato in platea, disposta su gradinate con un
corridoio in mezzo. E’ proprio da questo corridoio che entrano gli attori, ma il primo
personaggio che appare sul palcoscenico non esiste nel testo di Molière, ed è “le Marchand” o
un vucumprà.
La regista da qui vita al suo primo colpo di scena, le Coup de Theatre: il marchand estrae una radio
portatile e accende una musica araba a tutto volume. Le donne sono vestite di bianco e gli
uomini di nero. Deduciamo che non ci troviamo nella Francia secentesca di Moliere e nemmeno
nella Francia contemporanea, tutto si svolge in qualche città dell’Algeria. E’ sempre il Tartufo di
Moliere, cambiano le ambientazioni, ma testo e dialoghi non sono stati modificati. Il suo scopo è
quello di denunciare il Tartufo non come un individuo isolato, un privato truffatore, ma come
espressione di un ceto sociale, di una comunità di integralisti musulmani.
Sciamani e poeti della scena: La linea Grotowski – Barba
Nella storia della regia del secondo Novecento il punto di svolta è rappresentato dall’imporsi di uno
sguardo nuovo sorretto da un inedito atteggiamento antropologico. L’antropologia studia le società
primitive considerate autentiche, basate su un intreccio di relazioni concrete tra soggetti, consolidate da
una tradizione orale. Esattamente il contrario di ciò che avviene nel mondo moderno, sempre più
inautentico. Ciò che conta è dunque l’incontro tra attori e spettatori, lo sforzo di coinvolgere
intimamente la platea abbattendo il muro che separa platea e palcoscenico.
Il Living Theatre è una compagnia fondata nel 1947 a New York da Judith Malina, allieva di Piscator e
da Julian Beck, attore visionario. Secondo le loro ideologie la realtà dello spettatore doveva essere
rappresentata dall'unione tra corpo e spirito, tra sensi e intelligenza. Naque così l’esigenza di uno
spettacolo capace di agire profondamente sui nervi e sulla pelle. Un artaudiano teatro della crudeltà; il
primo “spettacolo crudele” prodotto è stato The Brig, titolo che indica la prigione dei marines
indisciplinati, dove vige la legge della violenza fisica e psicologica. Per affermare la realtà all'interno
della messa in scena gli attori si impartivano colpi veri, al punto che ogni sera si scambiano le parti per
evitare che sempre gli stessi prendessero i colpi. L’effetto sul pubblico fu traumatico.
Ma il più spirituale regista del secondo novecento resta il polacco Grotowski, fondatore nel 1959
del celebre teatro laboratorio. Egli riconosce sin da subito l’inferiorità tecnologica del teatro di fronte ai
nuovi mezzi di comunicazione che si stavano affermando, tv e cinema, evidenziando l’impossibilità di
ribaltare le sorti del teatro utilizzando strumenti a lui non connessi. Il teatro doveva ammettere i propri
limiti, doveva ricoonosciersi teatro povero cosicché, rinunciando a tutto, si scoprirà ricco di qualcosa
che manca a cinema e televisione, ossia la presenza viva dell’attore. Per Grotowskij, oltretutto, il teatro
poteva vivere non solo senza apparato tecnologico, ma anche e senza testo. In Grotowski il testo è
essenzialmente una partitura e lo spettacolo è costruito a partire dal rapporto con l’attore; ciò che conta
non è il testo, ma l’incontro tra regista e attore e poi attore e spettatore.
Il capolavoro di Grotowski rimane senza dubbio il “Principe Costante” del 1965. Per la messa in
scena il regista inventa un ampio spazio rettangolare, circondato da alte pareti di legno; gli
spettatori sono al di là della staccionata lungo i ¾ del recinto. Si trovano quindi a seguire la
scena dall’alto in basso. Secondo Grotowski durante lo spettacolo si assisteva al compimento
della tragedia e quindi bisognava allontanare il pubblic