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A partire dal trattato Ars cantus mensurabilis di Francone di Colonia i diversi valori
delle note iniziarono ad essere espressi da figure differenti, inaugurando quella che
sarà definita musica mensurale, ovvero musica misurabile: la longa, la brevis, la
maxima e la semibrevis.
Le proporzioni tra questi quattro valori erano regolate sempre secondo una rigida
ternarietà. La “perfezione” associata con il numero 3 ha una chiara matrice teologica:
Dio, essere perfettissimo per eccellenza, è uno e trino allo stesso momento. Ciò
nonostante, intorno all’anno 1300 nel pensiero musicale francese si verificò un
grande mutamento, che la moderna musicologia ha denominato ars nova: nella pratica
musicale “alta” venne introdotta la suddivisione binaria alla pari con quella ternaria.
In aggiunta a ciò, una nuova figura musicale venne ad affiancarsi a quelle preesistenti:
la minima, di valore ancora minore della semibrevis. Le possibilità per i compositori
erano allora assai aumentate e vennero introdotti dei Storia della Musica Occidentale
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segni di mensura, equivalenti alle moderne indicazioni metriche. Contro le
innovazioni dell’ars nova si scatenò intono al 1320 una violentissima polemica che
coinvolse le maggiori personalità dell’epoca, provocando addirittura l’intervento del
papa Giovanni XXII. Ammettere che la duplicità possa essere perfetta quanto la
ternarietà avrebbe significato conferire nuovo credito ad una concezione respinta
come ereticale. Si riteneva inoltre che ogni scienza e arte umana traesse origine da
Dio, e che quindi ne dovesse rispecchiare l’immutabile perfezione. Introdurre principi
nuovi implicava quindi un sottrarsi alle leggi divine.
I teorici trecenteschi propugnatori della nuova concezione del ritmo sostenevano che
la musica poteva essere suscettibile di progresso e che non aveva affatto raggiunto
una stabilità definitiva e immutabile. Sia nelle composizioni di Philippe de Vitry che in
quelle di Guillaume de Machaut è evidente la tensione verso l’autonomia della forma
musicale rispetto al testo.
Entrambi gli autori fecero ampio uso di una artificio che ebbe grande diffusione fino
al Quattrocento: l’isoritmia, che consisteva nello stabilire il ritmo e le scansioni
temporali della musica secondo principi rigorosamente matematici. Fino ad allora la
forma musicale era stata determinata essenzialmente dal rapporto con la parola: nel
canto gregoriano, il testo liturgico suggeriva sia la linea melodica,che il ritmo; la
stessa polifonia era considerata come un’ulteriore amplificazione del gregoriano , il
quale era sempre posto al tenor quasi come le fondamenta di un edificio.
Ma con l’ars nova tutto cambiava: la forma musicale iniziava a mutuare le sue leggi dal
calcolo razionale, sganciandosi dal rapporto con la parola e cercando la strada per
una propria autonomia. E una musica autonoma non poteva che mettere in secondo
piano la percepibilità del testo a cui era legata. La storia della musica
immediatamente successiva proseguirà proprio nella direzione tracciata dall’ars nova.
Di riflesso, la comprensibilità del testo non fu più una preoccupazione molto
importante.
A fomentare la polemica contribuirono anche i testi musicati dagli autori dell’ars nova.
Essi, assunsero spesso un contenuto politico di critica sociale.
I difensori dell’ars antiqua invece sostenevano che l’apparente “progresso” dell’ars
nova fosse in realtà solo un’illusione. L’aver introdotto valori più piccoli cambiava solo
l’aspetto grafico di una composizione, non la sua sostanza. Inoltre, l’alternativa posta
dall’ars nova solo tra suddivisione binaria e suddivisione ternaria giungeva addirittura
ad impoverire la ricchezza ritmica di cui già disponevano gli antichi. Oltre a queste
contestazioni tecniche, ve ne erano altre due di carattere più generale.
La prima era di natura estetica: è preferibile aumentare le complicazioni e spingere
la musica verso una maggiore cerebralità o, piuttosto, cercare di accostarsi alla
semplicità della natura ?
La seconda obiezione riguardava la salvaguardia dell’integrità del testo liturgico:una
composizione dotata di testo può forse prescindere da esso, creandosi leggi
Storia della Musica Occidentale
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proprie come se le parole cantate non esistessero? È accettabile che un testo sia reso
totalmente incomprensibile dall’incastro complicato delle numerosi voci che
costituiscono le composizioni polifoniche?
Capitolo VIII – Ars nova italiana
Il Duecento musicale sembra orientato prevalentemente verso una pratica non
scritta. Anche nel campo della musica sacra sembrerebbe che in Italia, nel XIII e nel
XIV secolo, si fosse continuato ad affidare il rivestimento polifonico del testo liturgico
a pratiche tradizionali di improvvisazione che non necessitavano la scrittura. Sono
rimaste numerose testimonianze di un particolare repertorio sacro extracarolingio di
tradizione prevalentemente orale: le laude.
Esse erano canti devozionali in volgare, monodici, di struttura strofica, eseguiti
prevalentemente in occasione di processioni, riunioni di devoti e simili. Poiché questi
manoscritti adoperano una notazione musicale quadrata il problema
dell’interpretazione ritmica delle laude non ha ancora trovato una soluzione
definitiva. Alla diffusione delle laude nell’Italia centrale duecentesca non fu estranea
la dirompente penetrazione della spiritualità francescana.
San Francesco d’Assisi è il primo compositore di musiche su testi in lingua italiana di
cui la storia ci abbia tramandato il nome. Nel Trecento le cose cambiarono: a fianco
della musica di tradizione orale, che continuava a pervadere quasi interamente
l’intero modo poetico e musicale, numerosi manoscritti ci offrono un nutrito
corpus di musiche polifoniche profane in volgare.
I primi importanti esempi italiani di polifonia profana scritta sono stati prodotti dai
musicisti provenienti da centri dotati di celebri università: Padova e Bologna, dove
l’ambiente universitario interessava numerosi scambi internazionali. In questo clima
di intese contaminazioni culturali, anche gli sviluppi della musica francese erano ben
noti in Italia: la presenza di trovatori nelle corti del nord-est italiano vi aveva
stimolato un’autonoma produzione di canti anche in lingua provenzale.
Presso le grandi signorie dell’Italia del nord fu accolta quindi l’abitudine francese di
compilare alcuni manoscritti musicali. Sottolineando dunque questo collegamento
coni fermenti dell’ars nova d’oltralpe, la moderna terminologia musicologica definisce
ars nova italiana la musica polifonica prodotta nella penisola durante il Trecento.
A Padova nacque e lavorò il primo tra i più importanti musicisti dell’ars nova italiana:
Marchetto, detto da Padova. Egli scrisse due trattati sulla notazione.
Il sistema italiano di notazione sistematizzato da Marchetto, pur se indipendente da
quello dell’ars nova francese, ammetteva anch’esso tanto la suddivisione ternaria
quanto quella binaria. Nella pratica musicale italiana, tuttavia, i due sistemi
coesistevano anche all’interno dello stesso manoscritto, in una sorta di bilinguismo
musicale. Storia della Musica Occidentale
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Nel tardo Trecento, i due criteri notazionali si fusero dando luogo ad un unico sistema
di scrittura musicale detto “notazione mista” o di “maniera” o ars subtilior.
Da Bologna , l’altro antico centro universitario italiano, proveniva invece il musicista
Jacopo da Bologna, che si dedicò soprattutto al genere che fu il prediletto dell’ars
nova italiana: il madrigale.
Il madrigale de Trecento era una composizione generalmente a due voci, d’impianto
strofico. Esso era infatti costituito generalmente da due o più terzine di endecasillabi,
intonate tutte sulla stessa musica (A). Alla fine della serie di strofe, il componimento
veniva chiuso da una coppia di endecasillabi a rima baciata detta ritornello, che era
cantata su una musica (B) diversa da quella delle strofe.
Questa forma della struttura assai semplice (AA…B) fu chiamata in Italia madrigale
proprio perché era il genere musicale in lingua madre.
Il soggetto dei madrigali descriveva le scene di caccia: la musica imitava
l’inseguimento di una preda da parte di cani e cacciatori, sia con frequenti
onomatopee, sia nel tessuto polifonico stesso: una voce intonava la prima; dopo
qualche istante mentre essa continuava la sua corsa, partiva anche la seconda voce,
ripentendo nota per nota lo stesso percorso melodico tracciato dalla prima voce.
Il punto di entrata della seconda voce rispetto alla prima doveva essere attentamente
calcolato, in modo che la loro sovrapposizione non creasse sgradevoli sconti sonori.
Questo artificio si chiama canone.
Dopo la metà del secolo, l’Italia musicale sembra ruotare intorno ad un altro centro di
produzione: Firenze.
I tre compositori fiorentini del Trecento più citati dalle cronache e più rappresentati
nei manoscritti musicali sopravvissuti (Lorenzo Masini, Gherardello da Firenze e
Francesco Landini) erano attivi soprattutto nella produzione di musica profana
polifonica. Il genere più frequentato a Firenze era la ballata.
I musicisti di questo periodo legarono strettamente la forma delle loro composizioni
alla forma poetica dei testi stessi; contrariamente a quanto accadde in Francia, non
risulta che nei generi italiani più tipici siano stati impiegati artifici matematici per
dotare la loro veste musicale di leggi proprie, indipendenti dalla parola.
La scarsa autonomia della musica rispetto alla parola può spiegare come mai solo
tardi, in Italia, si sia avvertito il bisogno di annotare anche la musica; e come mai, nel
successivo Quattrocento, i compositori nativi della penisola ritornarono ad esercitare
quasi esclusivamente la prassi consueta della tradizione orale: dei musicisti italiani più
celebrati nel XV secolo (Leonardo Giustinian, Pietrobono del Chitarrino e Serafino
Aquilano) del non è stata conservata neppure una composizione.
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Capitolo IX – La gestione della forma musicale nel Quattrocento
Il germe dell’autonomia della musica era stato gettato dal Magnus liber della Scuola di
Notre Dame: il compositore iniziava a stabilire autonomamente tutti i particolari della
sua musica, annotandone con precisione le altezze e il ritmo. Questo processo rese
necessaria la compilazione di un Liber, ancorando strettamente alla pagina scritta la
prassi di comporre musica a più voci.
Con l’ars nova francese la musica giunse decisamente a svincolarsi da legami troppo
stretti con il testo e si avviò alla ricerca di leggi forma