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Cassavetes è uno dei pochissimi umanisti rimasti al cinema americano. Egli affronta il problema dell’uomo,

che però al cinema è l’attore. Di qui il suo personale approccio di ripresa ravvicinata, nonché il suo tipo di

ripresa fondata sul pianosequenza più che sul montaggio.

Mariti (1970), ad esempio, è un’impietosa riflessione sulla condizione umana. Non, si badi bene, sul

matrimonio. La condizione matrimoniale funge solo da innesco. Il vero protagonista è il tempo. E meglio

ancora, la presenza di coscienza che le istituzioni sociali creano abitudine, atrofizzano le conseguenze degli

impulsi. Non a caso il film si apre con un’immagine di morte. La morte dell’amico non è solo un fatto

biologico, ma una metafora della vita dei protagonisti in relazione a ciò che essi sono stati e che ancora

ritengono di poter essere.

Nel film non accade molto, nonostante le vicende a cui assistiamo siano numerose. Esse ci vengono

presentate con una piattezza che ci rivela direttamente l’incidenza marginale di questi eventi sui

personaggi.

Il regista usa poi la macchina da presa con stilemi da cinema-verità. La muove spesso, ma sempre incollata

ai suoi personaggi. Non c’è un momento in cui si lascia andare alla curiosità del luogo nuovo.

I piani lunghi sono una logica conseguenza della necessità di seguire da vicino i personaggi, studiarli nella

loro trasformazione che li porta dal primo gioioso impulso alla coscienza di quello che ormai sono e non

possono essere.

6. Una, due, tre Hollywood

Il cinema americano degli anni Settanta è molto meno “nuovo” di quel che sembra.

C’è una prima Hollywood, in presa diretta, giovanilistica, protestataria, che segue le prime avvisaglie

crepuscolari di registi appartenenti a precedenti generazioni, giovani entusiasti, appassionati, nutriti a una

visione critica della società americana, politicamente orientati in senso progressista e così via. E c’è una

seconda Hollywood formata da cinefili spesso cresciuti nelle scuole universitarie di cinematografia.

Ma c’è anche una terza Hollywood, che ha fatto le sue profonde conoscenze tecniche della seconda, ma

che si è avviata verso un cinema o marcatamente spettacolare oppure più introspettivo, come una

testimonianza indiretta di quella “cultura del narcisismo” che verso la metà dei Settanta ebbe buon gioco in

un’America ormai slegata da qualsiasi riferimento sia ai valori comuni sia a quelli usualmente definiti

“alternativi”.

7. Quando hai visto un’astronave di plastica, le hai viste tutte

All’interno della seconda “ondata” tuttavia si distingueranno alcuni cineasti che pur senza abbandonare la

componente metalinguistica, autoallusiva del loro cinema seguiranno una strada meno riflessiva e più

spettacolare, abbracciando proprio quella direzione restaurativa che, si badi bene, non si identificò in un

ritorno al cinema del passato, ma con un rilancio della “grande avventura”, del cinema plateale e

sensazionalistico, eccitato e sostanzialmente infantile.

I cineasti tecnologici della terza ondata danno vita ad opere di grande successo come Guerre stellari (1977)

e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), rispettivamente di Lucas e Spielberg, opere anche essere

“nostalgiche”, nel senso che la prima si articola secondo una struttura precisa di citazioni e riferimenti al

cinema del passato, e la seconda si pone come metafora dell’operazione cinematografica stessa, come

parabola narrativa il cui unico oggetto è il cinema. Il contrasto rapporto realtà/cinema che aveva nutrito il

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miglior Bogdanovich diviene in Lucas e Spielber rapporto cinema/cinema, poiché le opere non consentono

a priori alcuna altra struttura referenziale.

In Incontri ravvicinati del terzo tipo, per quasi tutto il film il mistero ne percorre la storia. Quel che nella sua

eccezionalità era quotidiano in Guerre stellari, nel film di Spielberg assume la suggestione della paura. Nel

film di Lucas tutto è noto, in quello di Spielberg non si sa nulla: lo scarto fra personaggi e pubblico si affida

unicamente alle leggi contraddittorie dell’attesa e della certezza che caratterizza la parabola spettacolare.

Ma la chiave del film è nel finale: ormai il luogo dell’incontro è stato approntato, maestranze di ogni genere

vi si avvicendano incessantemente, la scena è perfettamente organizzata. A questo punto un regista prende

il comando: ordina al musicista di accellerare i tempi di esecuzione e fra il ronzio delle macchine da presa

dirige l’intera azione. È chiaro, questo è un film sul cinema e Truffaut non fa altro che interpretare se

stesso. Spielberg celebra lo sforzo comune di una ripresa cinematografica. Il disco volante variopinto non è

altro che il prezioso, misterioso, affascinante oggetto di ogni ripresa cinematografica, l’essenza della

creazione da vincere, da catturare nella visione impressionata della pellicola, il quale a sua volta rimanderà i

“rapiti” non invecchiati di un singolo giorno, esattamente come un film cattura la giovinezza degli attori.

Ma non meno importante nei due film-guida dell’intera produzione fantascientifica di questi ultimi dieci

anni è la concezione della loro costruzione prospettica, che ne interpreta il senso in modo preciso. Guerre

stellari è infatti concepito come film in 3-D, nel senso che ogni sua linea dinamica tende a perforare lo

schermo in direzione dello spettatore. È lo spettacolo che invade lo spazio dello spettatore, che non

“avviene” ma inter-viene.

La riflessione sul cinema diventa quindi non solo considerazione operativa del suo dissolversi nel mare dello

spettacolo “generalizzato”, ma tentativo di trovare un’altra forma spettacolare di rapporto con il pubblico.

All’opposto il film di Spielberg è concepito dall’irruzione dell’anormale nel normale non soltanto

idealmente, ma anche verosimilmente.

8. Superproduzione e cinema di consumo

Così ad un cinema che implicitamente si proponeva come funzionale, si sostituisce un cinema del tutto

svincolato da qualsiasi riferimento che non sia la gratuità del puro spettacolo.

Il soggetto si dilegua, si eclissa, in piena coerenza con la teorizzazione e la pratica dell’arte americana

contemporanea. Il soggetto non esiste più: rimane l’opera, asettica, costruita, sfarzosa, spettacolare

persino. Ecco ciò a cui conduce l’istanza iperrealistica nel momento in cui il suo supporto teorico ne viene

escluso: essa diventa pura fantasia senza creatore, senza stilemi individuali, autoriali riconoscibili.

9. Ossessioni: la paranoia post-kennedyana

Può anche darsi che la piega spettacolare del cinema hollywoodiano a partire da metà degli anni Settanta

circa, sia stata una specie di reazione alla cupezza di qualche anno prima.

In un certo senso si tratta di un cinema di personaggi ossessionati. Paranoia post-kennedyana, d’accordo.

Ma le ossessioni americane si innestano spesso in qualcosa di meno facilmente identificabile, qualcosa cui

non sempre è facile dare un nome.

Caratteristiche costanti di questo cinema sono, prima di tutto la presenza della tecnologia, o meglio

dell’oggetto tecnologico, quasi come fosse un attore comprimario che accompagna passo passo i

protagonisti fornendo loro un incubo di efficienza che è anche una minaccia di estinzione. Sempre più

privato di dimensioni umane, il cinema americano odierno può vantare, lo si diceva, ben pochi registi il cui

interesse umanistico supera tale asettica visione del mondo: Pollack, Coppola, Altman.

10. Ossessioni: lo spazio 30

Se si esclude una ricca tradizione western, il cinema del passato ha raramente mostrato l’ossessione

assoluta dello spazio. Per ossessione dello spazio si intende non solo la presenza degli spazi sconfinati e

praterie, ma anche di un diverso rapporto fra individuo ed ambiente.

Se si confronta l’uso dello spazio con quello degli anni Trenta notiamo che non c’è più qui l’insieme urbano

nel senso e nella visione della sua struttura globale come referente della formicolante anonimità di una

società che è già di massa, ma quadri che, realisticamente o meno, segnano un’attenzione soprattutto ai

particolari, una funzionalità iconografica decisamente superiore a quella del passato. La città del gangster

film hollywoodiano era per lo più una città notturna nella quale tutto rimandava alla sua morbosità, alla sua

trasgressione. La città odierna è invece ripresa nella sua luminosità, ma sempre specchio di un’America non

meno anonima dell’altra. Si tratta in parte della matrice semidocumentaria che ha marcato gran parte del

primo cinema della New Hollywood.

Lo spazio urbano di questo cinema, insomma, mostra una “normalità” che è direttamente proporzionale

alla carica di violenza, alienazione, mostruosità che essa cela.

Lo spazio dunque trova in anni recenti modi di trattazione addirittura fantasiosi ed onirici. Lo spazio come

entità metafisica e non solo come presenza architettonica, è un’iterazione molto cara al cinema americano

degli ultimi lustri. Si pensi a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, opera per alcuni versi sopravvalutata, ma la

cui scenografia è testimonianza esemplare dell’idea di metropoli come ambiente tutt’altro che concreto e

reale, ma, piuttosto, disastrato, onirico, assurdo. La fantascienza di Los Angeles in quel film non allude solo

ad una decadenza fisica della città, ma anche ad una decadenza dell’idea stessa di essa come utilizzatissimo

background di tanto cinema.

Ovviamente questo utilizzo dello spazio non riguarda solo quello urbano, ma anche quello rurale. L’America

diventa un altro personaggio della storia, come in Easy Rider. In un certo senso queste opere sono dei

cripto-western e quasi si può dire che, da questo punto di vista, il cinema hollywoodiano si è westernizzato.

Paradossalmente il western contemporaneo ha in parte eliminato questa sua classica componente,

interiorizzando la sua scenografia e/o strutturandosi secondo un’ideologia immediata. Si pensi alla nota

revisione storico-ideologica del genere, come in Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn o La ballata di

Cable Hogue (1970) di Peckinpah. Per non parlare dell’esasperazione della violenza e dei suoi aspetti

esteriori, la quale, pur non condizionando di necessità l’impiego dello spazio western però comunque lo

sviluppo iconografico di una strada diversa da quella classica.

11. Ossessioni: il passato

Tipico di questo momento è anche il ripiegamento verso un passato che è puro mito, la vitale costruzione di

un’idea di America che è stata e non &eg

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
34 pagine
21 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher erica.davanzo di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del cinema nordamericano e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Fadda Michele.