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EPPUR SI MUOVE! PERCHE’? PER CHI?

Spesso le persone vengono “spinte” a fare certe cose o a prendere decisioni in assenza di una chiara

motivazione interna, o addirittura pur desiderando di fare tutt’altro. Può essere il caso del ragazzino costretto

a studiare o del lavoratore ingaggiato in mansioni faticose e impegnative. Il movimento e la motivazione

appartengono a chi si sposta.

Nella migliore delle ipotesi, pur essendo stati “lanciati” o spinti da costrizioni esterne, possiamo percepire di

poterci appropriare del nostro movimento e della direzione da imprimergli.

Questo processo, studiato da Ryan e Deci, prende il nome di internalizzazione, la quale non è altro che il

passaggio da una motivazione esterna a sé ad una assolutamente molto interna a sé. È evidente che una

motivazione sostenuta dall’internalizzazione e dal sentire che l’attività svolta è parte di sé risulta essere più

ricca e piena.

Il fare implica un qualche tipo di costrizione esterna, mentre la dimensione essere comporta un convergere

di valori, abilità, identità in ciò che si sta facendo, spesso la propria professione o un’attività importante del

tempo libero.

Tutti vorremmo “averla”, ovvero essere intrinsecamente motivati. Come fare si evince dal modello di sviluppo

dell’internalizzazione che i due autori propongono.

L’ambiente passato e quello presente soggettivamente percepiti giocano un ruolo fondamentale. Un contesto

definito controllante tende a far scadere il desiderio di internalizzare. In ambienti di questo tipo le persone

sperimentano una spinta che le porta a sentirsi valide per ciò che fanno, non per ciò che sono. Esiste infatti

una motivazione innata e universale a percepirsi competenti, autonomi e in relazione: quando viene

disattesa, la persona non si sentirà realizzata e non avrà alcuna intenzione di internalizzare qualcosa che

sente distante da sé e imposto.

Al contrario, un ambiente definito autonomo, che valorizza la scelta, il miglioramento e l’espressione di sé

tende a favorire questa naturale “ascesi”. Tale termine sta a significare che è davvero bello avere

internalizzato la motivazione poter dire “io sono, lo voglio” anziché “io faccio, sono obbligato”.

È evidente che il passaggio non è sempre facile e che l’internalizzazione può essere in fieri per alcuni aspetti

della propria vita, più matura per altri. Internalizzare richiede, infatti, una ristrutturazione della nostra

relazione con i compiti, le attività, i rapporti: fatti imposti o vissuti come propri. In questo processo, l’ambiente

oggettivo è certamente determinante, ma lo è almeno altrettanto anche l’ambiente percepito.

È fuor di discussione che le persone non vivono in un solo contesto e che vi possono essere ambienti più o

meno pronti a rispondere a questo bisogno di appropriarsi delle proprie motivazioni.

MOTIVATI PER E MOTIVATI DA

Il timore è giudizio. C’è una paura e c’è qualcuno che giudica o è percepito come giudicante. Sono due le

istanze:

• Timore del giudizio

• Giudizio effettivo

La prima è quella che demotiva e ci può far desistere prima ancora di iniziare un’attività. Non serve sapere

se gli altri giudicheranno o meno e se gli eventuali giudizi saranno positivi o negativi. Il timore del giudizio

che alberga in noi ci impedisce di proseguire, di motivarci. Talvolta non ci impedisce di agire, ma ci lascia nel

continuo timore di venire appesantiti da svalutazioni o derisioni.

La nostra mente invece di avere risorse libere per affrontare compiti, persone, situazioni, è tutta assorbita in

pensieri del tipo: “non riuscirò e mi diranno che non sono bravo, che non valgo niente”. Si chiamano pensieri

distraenti e hanno la capacità di sottrarci risorse cognitive e affettive fondamentali per affrontare al meglio la

situazione.

Una delle principali cause può essere rintracciata nelle convinzioni, ovvero in quell’insieme piuttosto stabile

di pensieri e di idee personali sul mondo, sulle persone e su di sé. Di queste, la studiosa Carol Dweck ha

approfondito l’impatto motivazionale, distinguendo due tipi di visioni:

• Entitaria: porta a credere di essere nati così, fatti così, possedere una certa quantità di abilità o di

intelligenza e di poter fare poco per accrescere il livello delle proprie competenze, abilità, facoltà

intellettive e relazionali.

• Incrementale: fa credere che si può sempre imparare, migliorare, crescere, si possono sviluppare

nuove competenze.

Una visione entitaria tende a farci sentire giudicati, diversamente da quanto accade se abbracciamo una

visione incrementale. Se sono una entità i miei comportamenti dicono “chi sono”, se invece sono in crescita

(incrementale) i miei comportamenti dicono “dove sto andando”. La differenza è fondamentale.

Nel caso entitario “persona” e “comportamento” vengono quasi a sovrapportsi: “da come ti comporti so

giudicare chi sei”.

Nel caso incrementale i due si distinguono: una è “la persona” con i suoi desideri, le abilità bene o male

espresse, le potenzialità, le opportunità e soprattutto la capacità di direzionare tutte queste “ricchezze

psicologiche”; altro sono i suoi comportamenti, che derivano certamente dall’insieme di abilità fino a quel

punto sviluppate, ma possono essere anche il frutto d’impegno, di circostanze favorevoli, di caratteristiche

specifiche di quel compito e di quella situazione. Insomma i comportamenti sono un sotto-insieme. Le

persone valgono, possono e sono molto di più dei loro comportamenti.

Sempre in questo contesto teorico si collocano due contrapposti orientamenti motivazionali:

• Alla padronanza: conduce a voler padroneggiare le situazioni e a voler migliorare. Di solito è

sostenuto a una teoria incrementale.

• Alla prestazione: promuove invece un atteggiamento di dimostrazione, ovvero porta a ostentare le

proprie abilità, spesso nel confronto con quelle altrui, e a capire giudizi positivi da parte di altri

evitando accuratamente le situazioni in cui si rischia di essere giudicati negativamente. A sostenere

un orientamento motivazionale alla prestazione è una teoria entitaria.

Pertanto, in base a semplici equivalenze, la persona potrebbe essere o sentirsi:

• Giudicata per i suoi risultati (obiettivo alla prestazione e teoria entitaria), per cui conta “ciò che fa”

• Valorizzata per i suoi cambiamenti effettivi o potenziali (obiettivo alla padronanza, a crescere, e

teoria incrementale), per cui conta “chi è”.

Quali siano le effettive emozioni provate è un indicatore del tipo di orientamento (padronanza o prestazione)

e della visione sottostante (entitaria o incrementale). È molto più probabile, dopo un insuccesso, provare

vergogna se la teoria abbracciata è entitaria, gli obiettivi sono alla prestazione e vi è qualche forma di

giudizio da parte di se stessi o di altri. Diversamente sarà la colpa l’emozione più probabile allorché vi siano

prevalenti obiettivi alla padronanza, una visione incrementale e assenza di giudizio o del timore di essere

giudicati.

Colpa e vergogna anche se spesso confuse nel linguaggio comune, sono emozioni profondamente differenti.

• La colpa è rimotivante poiché spinge a voler riparare. Ci fa sentire male.

• La vergogna vorrebbe far scomparire. Ci fa sentire malissimo.

La distinzione sostanziale è però che la colpa riguarda il comportamento, ritenuto magari anche sbagliato,

ma non la persona; al contrario, la vergogna si riferisce alla persona.

Nel linguaggio comunemente utilizzato queste distinzioni sono ancor meno sottili.

Ad alimentare la paura per il giudizio è quindi una visione entitaria delle proprie abilità.

Il giudizio spesso si tratta di un bisogno di “chiusura” della situazione o di “sicurezza”. L’etimologia del

termine giudizio richiama, infatti il concetto di terminare, di mettere un punto fermo.

Giudicare consente di attribuire certe caratteristiche o costanti alle persone e quindi di prevedere con

discreta affidabilità i comportamenti futuri.

In virtù di un bisogno di sicurezza e talvolta anche a scopo di difesa, si rinuncia ad un sistema aperto che

prevede delle possibilità di crescita e di miglioramento preferendone uno chiuso e più definito fatto di giudizi.

Al di là dei facili, veloci e tranquillizzanti giudizi che dal comportamento degli altri vanno a costituire aggettivi

che definiscono la persona, succede spesso che non gli altri, ma noi stessi siamo i maggiori giudici del

nostro comportamento.

La paura del giudizio è nostra, non di chi ci giudica. Anche il giudizio può essere nostro, ma solo se davvero

lo vogliamo.

Se la risposta a “per chi” lo faccio sarà “per gli altri” probabilmente prevale in voi la dimensione giudizio

(prestazione-entitaria), se sarà “per me” a prevalere è il non giudizio e l’accettazione di sé come essere in

crescita, che può sbagliare, ma che proprio in virtù dell’errore può migliorare.

Sta a voi scegliere il “per chi” del vostro agire e quale visione abbracciare. Da questa scelta dipenderà il

livello di paura del giudizio e la propensione a giudicare o giudicarvi. Scegliere se stessi può liverare dalla

paura e alimentare le speranze di miglioramento.

LA MOTIVAZIONE FRA SPERANZA E PAURA

Vi sono davvero tante motivazioni innate e tante altre acquisite nel tempo. Sono così tante le fonti e le forme

di motivazione che sembrerebbe incredibile che una persona non sia motivata per almeno alcune fra le tante

ragioni.

Lo possiamo essere per spinte di diversa natura o per ambiti differenti da quelli desiderati.

Ciò che però accade è che spesso almeno alcune di queste motivazioni siano bloccate o deviate per paura.

La paura del giudizio è paura di fallire, di essere giudicati, di non valere, di essere rifiutati, delle proprie

emozioni, di non essere controllati.

Chi teme eccessivamente il giudizio altrui è fondamentalmente orientato a fare per l’altro invece che per sé.

Ciò è fonte di sofferenza anche nel caso in cui l’essere giudicati non sia fonte di inibizione, ma anzi stimoli il

processo motivazionale spingendo ad agire con sempre maggiore impegno allo scopo di ottenere giudizi

positivi.

Alcune delle paure possono trasformarsi in quello che in psicologia è il loro opposto: speranze. Altre si

prestano meno e costituiscono p

Dettagli
Publisher
A.A. 2017-2018
22 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/02 Psicobiologia e psicologia fisiologica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Arianna21 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia della motivazione e delle emozioni e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Padova o del prof Moè Angelica.