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IL SERVIZIO SOCIALE NEGLI ANNI 80
Gli anni 80 sono un periodo estremamente variegato: forte ripresa economico-produttiva tanto che si parlò di secondo
miracolo economico; contemporaneamente aumentò il deficit del settore pubblico, sia per la vecchia cattiva gestione
dell’amministrazione dello Stato sia per gli alti costi del settore sanitario e pensionistico. Il sud rimane svantaggiato
rispetto al centro-nord, con un tasso di disoccupazione soprattutto giovanile, emergono nuove povertà rilevate in zone
svantaggiate intorno a grosse città del Nord, il disagio crescente della fascia anziana sempre più numerosa, sacche di
povertà tra i lavoratori agricoli, disagi e povertà legati alle modificazioni della famiglia. La stessa realtà delle famiglie si è
modificata velocemente e i cambiamenti riguardano sia la struttura familiare, sia i suoi valori: contrazione del numero di
componenti, calo delle nascite, famiglia come produttrice di reddito, risparmio e accumulazione, aumento di donne che
lavorano. Lo stereotipo di una famiglia italiana chiusa su se stessa, dedita al lavoro e ai membri della famiglia, cede ad
una realtà in cui i membri tendono a socializzare con i simili e con il mondo esterno, così che nel tempo libero ognuno
prende strade diverse. La creazione dei servizi ha alleggerito la famiglia di carichi economici ora assicurati dallo Stato
(servizi per l’infanzia, assistenza sanitaria). Rimane drammatico il problema dell’assistenza da parte degli adulti, delle
donne, ai parenti anziani, il problema della gestione dei malati mentali, per i quali non sono stati creati i supporti e le
strutture previste dalla legge 180/1978; il problema dell’isolamento sociale di molte famiglie con emersione di problemi e
violenze all’interno del nucleo famigliare. I problemi più visibili sono l’immigrazione, malattie come AIDS, baronismo,
violenza nelle famiglie verso bambini e donne, sfruttamento della prostituzione minorile, usura, criminalità organizzata
che mettono in crisi il sistema delle risposte, ma anche la capacità professionale e gli strumenti scientifici in grado di
interpretare questi fenomeni.
Contemporaneamente all’insorgere di questi problemi, vanno accentuandosi problemi come l’indebolimento dei legami
familiari, parentali e di vicinato che in passato costituivano il tessuto sociale. in presenza del declino dei valori collettivi
si verificano dei fenomeni aggregativi: associazionismo, volontariato, cooperazione sociale che sono caratterizzati da un
orientamento verso alcuni temi specifici, questo perché gli individui vogliono un ritorno alla buona vita, ad un ambiente
pulito, di buone relazioni e un ritorno ai valori tradizionali, in particolare quelli legati alla famiglia. anche il veloce
sviluppo delle cooperative rispondeva al crescente bisogno di occupazione giovanile, cui si è affiancata la possibilità di
impiego di soggetti deboli (portatori di handicap, ex tossicodipendenti) favoriti dalle caratteristiche che hanno le
cooperative, in quanto strutture piccole, autogestite ed operanti in settori del mercato ancora scoperti. Questo ha
assunto la denominazione di “terzo fattore”, importante per il progressivo espandersi nell’ambito delle politiche sociali di
risposta ai bisogni della popolazione. Questo è il contesto che fa da cornice alla nascita e all’espandersi dei servizi
socio assistenziali e sanitari, anche se non in tutte le regioni si sono sviluppati allo stesso ritmo e omogeneità, anche
per le diverse concezioni e decisioni di tipo politico-amministrativo. Vanno aggiunte anche le prestazioni che sono nate
a favore dei giovani (informa giovani, centri sociali per giovani) e delle tossicodipendenze (strutture di prevenzione,
cura, reinserimento, di tossicodipendenti e alcolisti). Il criterio con cui sono stati costruiti è misto: viene privilegiato il
criterio per fasce d’età, poiché ogni età presenta differenti problemi, intrecciato con un criterio per tipi di problemi
particolari di notevole rilevanza (handicap, malattia mentale, tossicodipendenza). Si sottolinea il superamento della
distinzione tra ricchi e poveri e in categorie giuridiche di cittadini. La realizzazione del nuovo corso delle risposte socio
assistenziali e sanitarie rivelò una serie di punti deboli:
• Alto livello di costi che dipendevano dalla distribuzione di provvidenze da parte del Servizio
sanitario nazionale forse troppo generosa e da un’organizzazione poco efficiente;
• Arretramento a livello politico del processo di riforma. Si parla di sistema politico bloccato,
incapace di procedere al completamento del disegno riformatore iniziato nel decennio precedente; lo
Stato rimane latitante rispetto alla riforma dell’assistenza, delle autonomie locali, della pubblica
amministrazione;
• La creazione di servizi secondo una logica universalistica e di adeguamento dell’offerta alla
domanda si è scontrata con apparati amministrativi e burocratici affatto preparati a questa logica;
• Le diverse professioni faticano a definire i diversi profili e le diverse identità professionali in
relazione ai nuovi obiettivi operativi;
• Il persistere di tratti culturali ereditati dal passato che si contrappongono ai nuovi valori di
riconoscimento dei diritti di tutti in quanto cittadini, di rispetto delle diversità, di lotta all’emarginazione
e repressione:
• Il venire alla luce di fenomeni di corruzione, appannaggio della politica e della grande
imprenditoria e di tutti gli apparati dello Stato, Ragioni e USL.
Alcuni di questi problemi preoccuparono lo Stato, tanto da mettere in atto dei rimedi:
• Misure di partecipazione economica da parte degli utenti dei servizi, come il pagamento del
ticket per i farmaci, esami di laboratorio e visite specialistiche, tassa sulla salute per i lavoratori
autonomi;
• Misure per controllare la spesa, severo accesso alle provvidenze pensionistiche e tagli
economici agli enti locali per la gestione dei servizi;
• Avvio verso un migliore management del Servizio sanitario nazionale.
Così la spesa relativa all’assistenza, che comprendeva interventi pensionistici a carattere non assicurativo quali le
pensioni sociali, le integrazioni al minimo, pensioni per invalidità andava aumentando. Alcune considerazioni vanno
puntualizzate anche rispetto alla nascita del terzo settore che va configurandosi come insieme di interventi diversi, molti
di cura e riabilitazione per particolari problemi, che i servizi pubblici o non arrivavano a coprire o la cui copertura era
insoddisfacente. Gran parte del terzo settore sembra giungere per alleviare la spesa pubblica degli enti locali, i quali
chiedono il supporto di vari organismi per raggiungere con minori costi i loro fini. Il terzo settore va entrando a pieno
titolo in una co-gestione con il pubblico dei servizi per i cittadini (nel 1991 saranno varate due importanti leggi in
proposito: 11 agosto 1991 n°266 che regolamentava il volontariato e i suoi rapporti con l’ente pubblico e obbliga le
relative organizzazioni a iscriversi ad un albo regionale, e la legge 8 novembre 1991 n°381 che disciplina le cooperative
sociali). Esso da un lato agevola il rapporto pubblico privato che in passato si riducevano ad un semplice trasferimento
di denaro tra pubblico e privato e a controlli formali; ora invece si attuano le convenzioni con cooperative per la gestione
di servizi quali l’assistenza domiciliare. Dall’altro lato crescono le iniziative, prevalentemente gestite da religiosi, quali le
comunità per tossicodipendenti, comunità per minori, case di riposo ecc. che rappresentano una trasformazione di ciò
che era il tradizionale istituto di ricovero. Il terzo settore presenta anche altre fisionomie, come associazioni con finalità
di auto-mutuo aiuto, di supporto alla gestione dei problemi dell’handicap, di tutela dei diritti di categorie deboli ecc.
Questi organismi del terzo settore possono anche configurare nuovi o vecchi rischi: il convenzionamento con le
cooperative per la gestione di certi servizi può diventare una delega da parte dell’ente pubblico, perdendo la necessaria
garanzia di interventi regolati e controllati dagli stessi
Cittadini attraverso le loro rappresentanze, garanzie di equità e di non discriminazione. Ai fini dell’analisi del
funzionamento dei servizi sociosanitari gli eventi importanti furono la riforma delle autonomie locali e l’aziendalizzazione
delle unità sanitarie locali. La legge 142/1990 conferisce ai Comuni l’autonomia finanziaria prevedendo una
responsabilità anche sulla spesa da parte dei diversi funzionari, dà la possibilità di gestire i servizi o in proprio o
attraverso altre agenzie esterne o la creazione di istituzioni dotate di autonomia manageriale. I D.lgs 30 dicembre n°502
e 7 dicembre 1993 n°517 modificano il funzionamento delle USL, tanto che si parla di “riforma di riforma”. Essi
trasformano le USL da strutture operative dei comuni a enti pubblici autonomi, regolati direttamente dalle regioni sia sul
piano finanziario che amministrativo e delle scelte organizzative e strutturati secondo un modello aziendalistico, tanto
che si chiameranno “aziende sanitarie locali”. Viene introdotta la figura dell’amministratore unico (direttore generale)
responsabile del bilancio, viene ridotto il numero di USL e i grandi ospedali diventano aziende. Gli intenti di questa
riforma erano: razionalizzare gli aspetti economico-gestionali ai fini di ridurre la spesa e gli sprechi, ma anche introdurre
elementi di maggiore efficienza e managerialità nella produzione della salute, liberando l’amministrazione delle USL
dagli influenzamenti politico-partitici che prima, con la gestione da parte dei Comuni, inquinavano il funzionamento e le
scelte compromettendo l’efficacia dei servizi. La “riforma della riforma” si presta anche ad alcune critiche, come la
messa in ombra di importanti obiettivi, presenti invece nella legge 833/1978, quali la prevenzione e l’integrazione tra
sociale e sanitario, legata all’assenza di una legge quadro di riforma dell’assistenza. Sorgono una serie di problemi
interni alle organizzazioni che riguardano anche dirigenti e operatori: questi ultimi vedono compromessa la loro
operatività da una gestione organizzativa accentrata e gerarchica, da norme e regole che irrigidiscono le azioni dei
professionisti, allontanandoli dagli scopi e valori del loro lavoro. L’espansione degli assistenti sociali nei nuovi servizi, fin
dagli inizi degli anni 80, aumenta la visibilità di questi professionisti nel mondo delle risposte socio assistenziali ed
acuisce anche alcuni problemi. La vicinanza con un grande numero di professionisti impone una conseguente
ridefinizione del profilo professionale dell’assistente sociale: se prima questo era l’unico tecnico dell’assistenza, ora si
trova a misurarsi con un insieme variegato di professioni, alcuni forti